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ceva e solo sullo sfondo giallo e azzurro del cielo sopra il muro di cinta passavano e ripassavan come rondini i pipistrelli neri. Un odore di erbe e di fiori di calendola profumava l’aria; egli pensò a Vittoria, fermo davanti al davanzale alto, pensò ai giaggioli dietro la muriccia ov’egli l’attirava per baciarla di nascosto della madre; e non si inquietò nel sentire accanto alla porta di cucina la voce di Ignazia che respingeva il servo.
— Lasciami, volpe; le mani mozze! Chiamo zia Sirena.
— Ah, tu muori di crepacuore, figlia mia, e non ti lasci neppure consolare. L’hai atteso invano, oggi, il gigante. Non ti ha neppure salutato.
Allora Ignazia, che si difendeva con spintoni vigorosi, disse con voce cupa:
— Che t’importa, demonio? Lasciami o chiamo.
Ma Pancraziu era insistente e crudele, quella sera.
— Sai che cosa mi disse il tuo alto Mikali? Che sei troppo nera per lui...
— Certo, Vittoria è più bianca di me... Lasciami! Zia Sirena?
Il suo grido vibrò come uno sprazzo di luce sinistra illuminando l’anima d’Andrea. Fu come un fulmine. Egli si piegò; senza accorgersene sporse la mano fuori della finestra e quei due videro e tutto fu di nuovo silenzio. Pancraziu balzò indietro in cucina. Ignazia rimase gelida e immobile davanti alla porta. Ma d’un