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— No, zia.
— Ho sentito gemere.
— Zia, — disse Ignazia dopo un momento, sollevando gli occhi foschi — avete veduto? È passato, poco fa... ed ha parlato col piccolo padrone...
— Ma chi?
— Il bastardo.
— Non è la prima volta che parlano assieme: lasciali, sono fratelli — disse la vecchia; ma anche i suoi occhi si fecero scuri.
Il medico tardava. Rientrarono i servi, e zio Bakis consigliava Andrea di andarsene da Vittoria.
— Tanto sto bene. Domani all’alba mi alzo e vado alla vigna. E se il dottore dice qualche cosa gli rompo la testa col bastone.
Andrea guardava attraverso i vetri sbadigliando, preso anche lui da un senso di malessere profondo: mentre la vecchia serva rinnovava il cataplasma di malva sul ventre del malato, andò nella sua camera e aprì la finestruola; la finestruola alta che sembrava più piccola in quell’ampio stanzone ove i mobili grandi e pesanti, armadi, cassapanche, scranne, che sembravano fatti per giganti, gli avevano sempre dato un’impressione grave, un senso di rispetto. Era la camera di sua madre e di suo padre sposi: là egli era nato, là sognava di dormire con Vittoria.
La luce del crepuscolo illuminava il soffitto; nel cortile era già ombra e le galline dormivano sui bastoni sotto la tettoia; anche il cane ta-