Le colpe altrui/Parte I/Capitolo VI
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VI.
Giunto allo stazzo, attraversò il corridoio illuminato dalla lampadina di Sant’Isidoro e spiò dall’uscio in fondo, con la speranza di trovare suo padre sveglio e di potergli subito parlare del suo progetto; ma il malato dormiva ansando, con le gambe scoperte, agitato anche nel sonno; e per terra, stesa su un materasso, stava Ignazia vestita e calzata.
Allora si ritirò nella sua camera, si buttò di traverso sul gran letto, affondò il viso fra le coltri. Si sentiva stanco, con la schiena rotta, come dopo un lungo viaggio, eppure non poteva chiudere gli occhi. Ondate di dolore, di orgoglio offeso, di amore disperato, poi di calma forzata e nuovamente di angoscia più folle, di odio violento, di sangue e di morte lo travolgevano. A volte gli sembrava di soffocare: poi un gemito stridulo gli usciva dai denti stretti e tutto intorno di nuovo si placava in una pace torbida per ricominciare subito a rimbalzare in un ribollimento pazzo di tempesta.
— Andrò da Vittoria, — pensava mordendo le coltri — la riprenderò: è mia; la piglierò, la spezzerò; è uno stelo fragile; è una cosa mia; io sono forte, poichè ho l’intelligenza, ho la volontà; posso avere il dominio.
Ma subito questa sua forza lo spaventava. — E quando l’avrò avuta, e quando l’avrò inchiodata alla mia croce? — Ecco, su quello stesso letto giacevano suo padre e sua madre: e la donna piccola e silenziosa era scivolata giù, se n’era andata a spargere il veleno del male per tutta la casa, per tutte le terre intorno. Come ricominciare? Eppoi l’orgoglio lo irrigidiva; gli si conficcava dal calcagno alla nuca come una verga di ferro. Dritto, Andrea; l’amore dev’essere un dono spontaneo, non una elemosina nè una rapina; dritto, Andrea, non metterti al paro di Mikali, al paro di lei, creatura di debolezza e di perfidia. Solo, davanti a te stesso, Andrea: essi sono dei morti: tu solo esisti.
Ed ecco gli sembrava di marciare ancora, dritto sotto il suo carico, attraverso il deserto arido della vita; ma che sete, Dio mio, che fame, che stanchezza! Viene la vertigine, il corpo si piega, la verga si spezza: e Vittoria è lì, come la donna al pozzo, come la donna col pane e col balsamo. Vittoria, dolcezza, amore, oblio, ecco il soldato steso ai tuoi piedi, tu puoi calpestarlo, basta che gli lasci lambire il tuo piede; e se gli prometti ancora una goccia d’acqua, un pezzo di pane, egli tradirà per te il suo destino, e suo padre e sua madre, e sè stesso.
— Domani mattina all’alba vado, m’inginocchio davanti a lei, non la lascio più, non la lascio più; m’avvinghio alle sue ginocchia; non la lascio più, non la lascio più.
Ma l’alba era lontana; e l’orgoglio piano piano tornava a sollevarsi, più feroce dopo la caduta, più forte, sempre più forte, più duro.
Ma anche l’altro, l’amore, lottava; aveva per sè tutte le astuzie, si copriva col velo nero del dovere: bisognava difendere Vittoria contro sè stessa, strapparla al suo destino. Non era la serva ottusa dello stazzo, lei; era soltanto cieca; bastava aprirle gli occhi, per salvarla. Ed ella lo avrebbe amato di più, per questo.
Ed ecco la luce lontana. Egli guardava stupito i vetri e gli sembrava che la luce non venisse dall’orizzonte, ma dalla profondità del cuor suo.
S’alzò, aprì la finestra. Bisognava andare, tornare indietro. Aveva sbagliato strada, la sera prima; tutti, anche i soldati più bravi possono sbagliarsi, al buio, nella nebbia; torna l’alba, però, e illumina le cose; la gente smarrita si orizzonta e ritrova la via giusta. Si pettinò; ma aveva l’impressione che la sua mano non fosse la sua. Tutto era spostato, tutto girava attorno. Le ginocchia gli si piegavano. Ed ecco a un tratto vide un rettangolo d’argento sui mattoni neri e s’accorse che era la luna, non l’alba, a illuminare la terra: luce di illusione. S’avvicinò alla finestra e la sua ombra piccola e deforme come quella di un gnomo gli ricordò Mikali a cavallo, sopra il gruppo dei puledri frementi, Mikali alto e bello, coi capelli al vento come Sansone, Mikali il maschio, il vero uomo, il vero forte. Ed egli, egli era l’ombra dello gnomo, l’illusione che va spinta dall’aria come la bolla di sapone, con tutti i colori dell’iride, con tutto il vuoto del nulla.
Tornò a buttarsi sul letto e di là vide la stella del mattino come aveva veduto la stella della sera, ferma sul limitare dell’infinito come il faro di un rifugio sicuro.
Morire! Nessuno lo amava ed egli non amava più nessuno. Tutti i fili si erano rotti intorno a lui, ed egli giaceva come la marionetta di cenci dopo la rappresentazione. Giaceva sul letto dal quale era scivolata sua madre per correre ai convegni col servo, e farneticava ancora di fare il paladino cristiano. Salvare Vittoria! Salvarla da che? Dall’amore? Se l’amore solo è salvezza? Se l’amore solo è vita? Se ella forse in quella lunga notte di dolcezza era fra le braccia di Mikali, una cosa sola con lui, congiunti per volontà stessa di Dio? Come combattere contro tale forza? E poi egli non la amava più, Vittoria, forse non l’aveva mai amata: la desiderava soltanto; ed era davvero come il soldato esausto e assetato che si getta dietro la siepe e si abbandona ai sogni del delirio. È un sogno di delirio anche l’illusione di ricomporre la famiglia; una illusione del suo orgoglio, o peggio ancora, una vendetta puerile contro Mikali. Come ricomporla senza amore? E gli riuscisse pure, ebbene? La famiglia ricomposta? Il vaso rotto riattaccato col mastice, incapace a contenere più il liquido; aria soltanto. Tutto è aria; tutto è vano, tutto è vuoto. Tutto è rotto: polvere di vetro che il vento disperde.
*
L’indomani Bakis Zanche nonostante il divieto del dottore si alzò. Dritto, imponente e gigantesco, dopo essersi vestito con una certa cura, stringendosi forte la cintura di cuoio sullo stomaco grasso, s’avanzò a spiare dall’uscio e sollevò con la punta del bastone alcuni libri che Andrea aveva deposto lì accanto sulla panca sotto la nicchia di Sant’Isidoro. Egli disprezzava i libri; e, salvo quello dei Salmi, gli veniva voglia di sputarci su.
Andrea era assente; era uscito all’alba e tardava a rientrare; ma il padre faceva a meno di lui: ne aveva fatto sempre a meno. Pensava piuttosto a Vittoria e gli pareva di vederla aggirarsi nelle camere agile, bella, spandendo luce intorno per la casa triste e polverosa. Anche la gobbina non sarebbe stata male, al seguito di Vittoria, come una nana dietro la Regina. Era una figura divertente, zia Zizza, coi suoi occhi uno di tigre, l’altro di cerva, col suo sorriso di jana1 maligna e generosa. Faceva ridere al solo guardarla, e Bakis Zanche aveva voglia di ridere; stanco di una vita di musonerie che gli rovinava il fegato, voleva almeno passare allegramente gli ultimi suoi anni. Ben venga anche la gobbetta, dunque, se vuol venire: Dio sa che chiasso e che pettegolezzi con tutte quelle donne in casa; ma egli vuole appunto così, movimento, rumore, chiacchiere; e se si azzuffano tanto meglio, egli si divertirà a separarle col bastone.
Chiamò Ignazia.
— Dove s’è ficcato il padroncino?
— Io non lo so.
— Tu non sai mai niente! Ti avverto che è tempo di smetterla con i musi lunghi. Divertimento voglio, qui, d’ora in avanti. Grazie a Dio, roba ce n’è. Gli affari vanno bene e la salute anche. Voglio che Vittoria porti qui la fisarmonica e tutto il giorno suoni, e voglio che tu canti la canzone (strinse i pugni e accennò a suonare lo strumento):
A ballare, a sartiare, |
Ignazia lo fissava con uno sguardo tragico; tanto che egli aprì l’armadio e le diede una manata di biscotti che zia Sirena teneva nascosti là dentro.
— Prendi; sei orfana, e se non ridi hai ragione. Ma verrà un giorno anche per te. Dimmi, ti piace Pancraziu? Non è cattivo, Pancraziu, solo ha la schiena dura. Va’, di’ alla vecchiona che mi porti qui il libro con le immagini.
Ignazia guardava i biscotti con gli occhi pieni di lacrime; andò e dopo averli fatti vedere a zia Sirena, affinchè questa non l’accusasse di averli rubati, li depose poi sulla panca sotto Sant’Isidoro. Era una specie di sacrificio che faceva, poichè era golosa e nella sua cassa non mancavano mai le arance e gli amaretti: ma in quei giorni neppure i datteri avrebbero raddolcito l’amaro che le riempiva la bocca e il cuore.
Quella mattina era inquieta anche per l’assenza di Andrea, e di minuto in minuto s’aspettava qualche cosa di triste. Infatti, mentre nella quiete del mattino velato da grandi nuvole bianche ferme sul cielo turchino come blocchi di neve, s’udiva la voce di zio Bakis che canticchiava i salmi, e tutto intorno era silenzio e dolcezza, ecco Andriana, la donna delle erbe, arrivare con aria di mistero.
— Come va che ieri sera Andrea non è andato da Vittoria? Che c’è?
— Nulla, anima mia; sarà andato oggi — disse zia Sirena.
— Oggi l’ho incontrato che saliva verso Monte Nieddu. Era pallido, non mi ha neppure salutato. Mah! È tutto quel che Dio vuole...
— E allora sai cosa devo dirti, nipote mia? Lascia fare a Dio e tu fìccati nei fatti tuoi...
Ignazia si domandava con terrore dove andava il padroncino pallido, come smarrito su pei dirupi. Ah, ella sapeva bene come si diventa folli dopo aver bevuto il veleno del tradimento. Dove andava il disgraziato padroncino?
Era quasi mezzogiorno quando egli rientrò: aveva le scarpe bianche di polvere, le vesti raggrinzite come si fosse coricato per terra, qualche filo d’erba fra i capelli.
Zio Bakis, che faceva colazione accanto alla finestra, lo vide attraversare il cortile con aria intontita, e dopo qualche momento entrare, accostarsi e affacciarsi al davanzale senza dar retta alle sue domande alquanto ironiche:
— Dove sei stato? A divertirti? Hai litigato con qualcuno? Che viso hai!
Solo dopo qualche tempo Andrea volse il viso, senza sollevarsi, e domandò:
— Come state?
— Ringraziamo il Signore che ti accorgi finalmente di me. Bene sto, io; molto meglio di te.
Allora Andrea parve uscire da un sogno; si alzò, con la schiena contro il davanzale, e guardò fisso il canestrino col pane che il padre teneva sulle ginocchia.
— È tornato il medico?
— Alla forca! Che me ne faccio del medico?
— Egli non voleva che vi alzaste, oggi, padre. Tornate a letto.
Per dimostrargli che stava bene, il padre sorbì un uovo d’un fiato e dopo averne buttato il guscio dalla finestra destando un assordante starnazzare di volatili nel cortile, sì alzò e battè forte il bastone per terra.
— Mi vedi? Non sembro uno sposo?
Andrea guardò e pensò a Mikali.
— Sì, — disse annaspando la parete con le mani convulse — voi state meglio di me... Io sto male, — aggiunse abbassando la voce — e voi lo vedete. Ma è tempo di finirla...
— Che hai? — disse il vecchio sorpreso; ma subito parve ricordarsi e sorrise come fra sè e tornò a sedersi. — Ah, ah! sempre la stessa storia.
— Padre!
— Mi stupiva, anzi, che tu non avessi ancora ricominciato.
— Padre! È l’ultima volta che ve ne parlo.
Ma il viso del padre s’era fatto duro e grigio come di granito.
— L’ultima volta? Meglio.
— Però ascoltami. Io non posso più vivere così. Non posso più vivere così. Ricordatevi queste mie parole.
Si guardarono. E Bakis Zanche vide che suo figlio s’era invecchiato, dal giorno prima, come dopo anni ed anni di angoscia: tuttavia rimase fermo, con le mani appoggiate una sull’altra al pomo del bastone, il viso duro inesorabile. Solo domandò con voce mutata, grave e calma:
— Che è accaduto di nuovo?
Andrea conosceva quel viso, conosceva quella voce; e non sperava nulla, ma gli pareva di essere sospeso sopra un abisso, aggrappato a una sporgenza di roccia: bisognava tentare di salvarsi, pure con la certezza spaventosa che ogni sforzo era vano.
— Nulla di nuovo è accaduto. Solo che la mia volontà si è maturata. Adesso vi prego ancora, padre; ma nella mia preghiera c’è anche la mia volontà. Vi prego, padre! Sapete quello che vi domando. Fatela ritornare qui. È tempo! Tutto è passato, ormai. Siamo in faccia alla morte.
— Siamo?
— Sì, siamo! Io e voi e lei. Sono malato più di voi; voi stesso l’avete detto.
— Cùrati!
— Padre, non scherzate.
— Non scherzo, Andrea. Tu, forse, scherzi?
— Ebbene.. Ebbene...
— Ebbene?
Andrea ansava, piegandosi su sè stesso, con le mani ferme al muro: tutte le viscere gli balzavano su, fino alla bocca, in uno spasimo d’angoscia.
— Ebbene... io non mi curerò, se voi non mi esaudite. Io morrò. Ebbene, sì; il figlio... suo figlio, resterà lontano, non rientrerà mai qui, certo, ed io lo rinnegherò. Ma lei, lei mia madre, lei deve ritornare qui, subito!
Il vecchio parve meditare, un momento. Abbassò gli occhi, tornò a sollevarli sfolgoranti d’odio.
— Andrea, è inutile. Tu lo sai.
E Andrea si protese verso di lui, intrecciando le mani supplichevoli e minacciose.
— Padre! È stato inutile fino a questo momento, lo so, lo so; ma ora non più. Ora voi direte sì. Voi mi contenterete. Voi siete mio padre, alla fine. Siete vecchio, siete davanti alla eternità. Vi siete abbastanza vendicato. Adesso basta. Basta! Basta! Che vi ho mai domandato, io? Ditelo, ditelo.
— Eh, niente, uccellino! Non mi hai domandato niente! Ma se ho sempre fatto quello che tu hai voluto! Così non l’avessi fatto! Saresti più contento tu, adesso, e più contento io. Ma non importa: se sei malato cùrati. Domandiamo la licenza, e te ne andrai al predio di Santa Maria ’e Mare come quella volta quando eri convalescente del tifo. L’aria marina fa bene.
— Padre! — gridò Andrea irrigidendosi, coi pugni chiusi. E pareva si allungasse alzandosi sulla punta dei piedi. Anche i suoi occhi sfolgorarono d’odio e di disperazione; d’un tratto però tornò a piegarsi conficcandosi le unghie nelle palme delle mani.
Il padre continuava, implacabile:
— E verrà Vittoria, a curarti. E tu butta via i tuoi libri e le tue idee, come io ho gettato il guscio dell’uovo nel cortile. Sii uomo! Non andare più di qua e di là a farti riempire la testa d’aria. Lascia che il destino compia l’opera sua. Va da Vittoria e sta con lei: è quello il tuo posto. Va, va! Vedi che bella giornata? Il moscone ronza intorno al vetro e l’aria è morbida come il velluto. Va da Vittoria figlio mio: è il vostro tempo, questo.
— Ah, basta! — rantolò Andrea, curvando il viso sul petto. Ah, urlare, urlare il segreto che lo strangolava. Ma e poi? Sarebbe stata la fine, ed egli non voleva precipitarsi a capo fitto nell’abisso.
— Padre, non parlate così. Voi siete un uomo intelligente, e capite tutto, anche quando volete far credere il contrario. Dunque, ascoltatemi, parliamo per l’ultima volta di questa orribile cosa: o voi fate ritornare qui mia madre o io parto e non ritorno più. Pensateci. Tre giorni: vi bastano tre giorni?
Il vecchio sorrise. Apparvero i suoi denti gialli, il vuoto fra l’uno e l’altro; gli occhi brillarono selvaggi: sorriso più terribile d’ogni sogghigno.
E Andrea capì che quei tre giorni egli li concedeva a sè stesso: estrema tappa del condannato.
— Io sto male davvero, — riprese frugandosi in saccoccia e traendone un biglietto arrotolato come una sigaretta. — Mi pare di soffocare: ho male alla testa, ai nervi, e se sto qui faccio qualche sciocchezza. Ebbene, ascoltatemi; io andrò via, andrò su da frate Zironi; là aspetterò tre giorni. Là mi manderete la risposta.
— Tu puoi andare e venire a tuo comodo, come hai sempre fatto: io sarò sempre lo stesso.
— Pensateci bene, padre!
— Da venticinque anni non penso ad altro, — disse allora il vecchio, e battè il bastone per terra perchè cominciava a perdere la pazienza: — ora sono io che ti dico: basta! Se tu, — aggiunse, toccandosi col pomo del bastone la fronte e poscia il petto, — se tu il male ce l’hai qui, io ce l’ho qui. Il tuo può guarire, il mio no. Mille volte ti dissi: Andrea, io non disapprovo il tuo affetto per tua madre; ciò ti fa onore, anzi! Ma perchè per favorire lei tormenti me? Che cosa sono io per te? Un nemico? Ti ha allevato lei, forse? Sei vissuto con lei?
— Perchè voi lo avete impedito.
— Va bene; hai sempre ragione tu. E va bene! E se io sono il tuo nemico e lei invece è tutto, per te, chi ti proibisce di andartene con lei?... Va — riprese il padre, stendendo la mano verso la finestra. — Da vivere ve ne darò. E lasciatemi solo, però. Io posso fare a meno di tutto... ci sono abituato! Chi mi ha voluto bene? Il diavolo solo. Ebbene, va, va pure, Andrea!
S’alzò di nuovo appoggiandosi forte al bastone, ma il suo viso adesso pareva di cera; e Andrea lo vide con spavento attraversare la camera curvo sul fianco, premendosi il ventre con una mano e buttarsi sul letto gemendo.
— Padre, padre!... — gridò correndo a lui e chinandosi sul viso deformato dal male: e avrebbe voluto come da bambino coricarsi al suo fianco, appoggiare la debole testa accanto alla testa possente e addormentarsi all’ombra di quel dolore forte che s’era fino da quel tempo trasfuso in lui ed era divenuto il suo.
— Perchè, perchè vi siete alzato? Vedete... vedete... — balbettava; e vedendolo chiudere gli occhi infastidito e stringere i denti per non gemere oltre, corse impazzito a chiamare zia Sirena perchè lo aiutasse a sollevarlo e mandò Pancraziu a chiamare il dottore. Ma zio Bakis riaprì gli occhi minacciosi e respinse la donna.
— La pace, occorre! Non le medicine... Andate via tutti... tutti!
La serva guardò Andrea, stringendosi le labbra fra due dita e gli accennò di andarsene fuori dalla camera. Ed egli ubbidì: sedette sulla panca sotto la nicchia e spiegò il biglietto arrotolato che il ragazzo Zoncheddu gli aveva consegnato pochi momenti prima. Era un biglietto col quale Vittoria, impensierita e contenta di non averlo più veduto, lo pregava di andare su al convento perchè il frate doveva comunicargli cose gravi. Ma che poteva dirgli il frate che egli non sapesse già?
E le ore passarono. Egli stava seduto sotto la nicchia, con un libro sulle ginocchia, e sentiva suo padre chiacchierare con le donne, ma non osava più entrare nella sua camera.
Il dottore trovò il malato di nuovo così calmo che gli permise di alzarsi e di uscire anche in cucina.
— Occupatevi solo di questo, però! — gli disse, mettendogli in mano il libro dei salmi.
E andò via in fretta perchè giusto doveva passare in un terreno di sua proprietà confinante con lo stazzo Zanche e consegnare a Mikali un puledro da domare.