Le colpe altrui/Parte I/Capitolo IX
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IX.
Il giorno dopo verso il tramonto, Mikali, mentre attraversava a cavallo lo stradone, vide Andriana correre giù ansante dal viottolo degli stazzi e saltargli davanti come una pazza.
— Mikali, Mikali, disgraziato, non sai nulla?
Egli fermò a stento il cavallo che s’impennava.
— Mikali! Tuo fratello è morto!
— Mio fratello è morto?
Anche il cavallo si fermò sulle quattro zampe come sbalordito della notizia; e Mikali còlto da vertigine si piegò, pallido, con le gambe che gli tremavano. Nel turbine che gli girava attorno distingueva solo la donna che agitava il suo grembiale nero come una bandiera funebre. E il racconto di lei gli arrivava confuso.
— L’ha ucciso per disgrazia Bobore Puddu il cacciatore. Pare che stamattina all’alba Andrea sia andato a pregarlo di recarsi assieme a caccia. È chiusa, la caccia, ma Bobore Puddu ci va lo stesso, di frodo. E andarono, i male avventurati, andarono dietro Monte Nieddu, e si appostarono sopra le roccie di Jannaebentu. Pare che Bobore Puddu avesse bene indicato ad Andrea il punto dove un cinghiale passava tutti i giorni a mezzodì preciso per andare ad abbeverarsi. Bobore vede i cespugli agitarsi e mira... E colpisce Andrea, invece del cinghiale... Andrea che doveva aver capito male e s’era messo dove passava il cinghiale. Oh, Signore, Signore... è rimasto morto sul colpo, seduto com’era... Il cacciatore è scappato, ma ha mandato a dire della sciagura per un pastore... Io ero allo stazzo... Che orrore! Bakis Zanche diede un grido come fosse ferito lui... e Ignazia cadde a terra come morta... Son partiti, adesso, il vecchio e i servi e la giustizia. Io corro da Vittoria. E tu?... E tu?...
Mikali sporgeva il labbro convulso e balbettava.
— A che ora... è stato? A che... ora?...
Ma la donna correva già, col grembiale sventolante, messaggera di morte; ed egli si sollevò e spinse il cavallo prima in direzione del paese, poi verso gli stazzi, poi si fermò ancora. Dove andare? Da Vittoria, dalla madre, o da lui? Una fitta nebbia lo circondava; solo a tratti, come illuminato dal lampo della fucilata del cacciatore, Andrea gli appariva seduto immobile, morto dietro il cespuglio.
— L’ha voluto lui; e noi l’abbiamo spinto alla morte — pensava, e il grido della donna — e tu? e tu? — gli risuonava dentro le orecchie con lo scalpitare del cavallo impaziente.
Dove andare? Senza accorgersene si diresse allo stazzo Zoncheddu.
La madre sgranava le fave seduta sul limitare della porta di cucina; da tre giorni viveva in ansia, e ogni tanto andava dietro la siepe spiando se passava Andrea, e desiderava e aveva paura di vederlo. No, no, a nessun costo ella avrebbe abbandonato Mikali; a nessun costo voleva tornare in casa Zanche; sveniva di terrore pensando a suo marito e il ricordo di lui, a volte, si confondeva nella sua memoria come quello dell’Orco, dei Dragoni e degli altri esseri terribili dell’età infantile. Da anni ed anni non si azzardava a passare il confine dei campi Zoncheddu per timore d’incontrarlo: e anche di Andrea aveva adesso paura. Ma dopo quella notte egli non era più tornato, e Mikali da due giorni non parlava più di lui; quando tornava coi puledri non gridava più come prima per far scostare i ragazzi, più ragazzo di loro.
Ed ecco adesso che torna stravolto, come scampato da un pericolo di morte... Legò il cavallo, s’accostò, si curvò a prendere una fava dal grembo di lei, e tosto la lasciò cadere.
— Madre, non sapete niente?
Ella sollevò gli occhi già pieni di spavento.
— Non è passata di qui, zia Andriana? Veniva dallo stazzo... andava da Vittoria... andava per dirle che Andrea... è stato ferito...
La madre balzò, lasciandosi cadere sui piedi le fave: ma subito ricadde a sedere appoggiando forte le mani alla pietra del limitare perchè le sembrava di sprofondare.
— È morto? Mikali! L’hai ucciso tu?
Al suo grido le donne e i fanciulli dello stazzo corsero e le si aggrupparono attorno; un fugace rossore aveva schiarito il volto di Mikali.
— Madre, madre! — disse, appoggiandosi allo stipite sopra di lei. — Fate coraggio. Andrea è morto per disgrazia. Stamattina all’alba andò da Bobore Puddu il cacciatore e lo invitò a recarsi assieme a caccia...
Ripetè parola per parola il racconto della donna: parlava rapido come un attore che sa bene la sua parte, e gli sembrava di aver vinto il primo senso di stupore e di angoscia, e d’essere forte per confortare sua madre: ella però gridava tentando di battere la testa allo stipite, tenuta ferma da Maria Luisa Zoncheddu che le si era inginocchiata alle spalle e la teneva stretta al suo petto; e d’un tratto egli non seppe più cosa dire; provò un senso di angoscia insostenibile, appoggiò il braccio al muro, il viso al braccio e scoppiò in singhiozzi.
Adesso erano le parole stolte della madre che risuonavano intorno.
— Tu l’hai ucciso! Tu l’hai ucciso!
E non riusciva ancora a spiegarsi bene perchè Andrea s’era fatto uccidere; però sentiva il desiderio di convincersi che l’infelice era davvero morto per disgrazia.
Il suo turbamento durò poco; egli credeva d’essere forte e s’era proposto d’imitare sempre colui che non voleva riconoscerlo per figlio: ricordò quindi le parole di zia Andriana: «il vecchio non ha pianto» e pensò che non doveva piangere neppure lui.
Che fare, però? La madre adesso sapeva, e le donne pietose intorno s’incaricavano di confortarla. Doveva adesso andare da Vittoria o da lui? Già il desiderio di vederlo un’ultima volta o almeno di conoscere il posto ov’era accaduta la disgrazia lo spingeva come un reo verso il luogo del delitto. E la madre pensava la stessa cosa; si divincolò dalla stretta delle donne e corse via verso il viottolo gittando lunghi urli striduli che riempivano di dolore la pace intorno: sembrava folle e quando egli la rincorse e la prese, gli si riversò indietro fra le braccia e gli morsicò le mani.
— Lasciami, tu! Voglio vederlo, voglio vederlo! Era mio figlio, era il mio sangue, ed è morto come ha vissuto... lontano da me che ero sua madre.
Per placarla Mikali le promise di andare prima lui ad informarsi dove era il luogo della disgrazia, poi di condurla seco.
— Madre, pazienza! Non sappiamo ancora nulla di preciso.
«Non sappiamo ancora nulla di preciso». Questo era il suo maggiore tormento. Consegnò la madre alle donne e andò dritto allo stazzo Zanche. Conosceva bene tutti i dintorni, la vigna, l’ovile, anche l’orto; aveva più di una volta sfiorato con la mano i muri della casa, ma non era mai penetrato là dentro; si guardò attorno nel cortile e gli parve che dall’alto della legnaia il falco immobile lo fissasse con malizia e a un tratto ammiccasse accennandogli qualche cosa. Sì, adesso, morto Andrea, e poichè nessuno metteva in dubbio che lui, Mikali, era figlio di Bakis Zanche (la sua statura bastava a dimostrarlo), tutto là intorno, secondo giustizia, doveva essere suo. Il padre, adesso, vinto dalla sventura, avrebbe finito col riconoscerlo, con l’accettarlo per figlio. Gettò quindi una fugace occhiata sotto le tettoie, pensando che c’era ben posto per legare i puledri; tosto però arrossì di questo pensiero e s’affacciò alla porta della cucina. S’udivano gemiti e parole sommesse; alcuni parenti erano corsi dagli stazzi lontani e circondavano la vecchia serva più curiosi che addolorati. Ignazia, gialla in viso come morta, piangeva appoggiata alla panca dalla quale era caduto il libro, aperto sul pavimento fra le immagini sparse: vedendo Mikali balzò spaurita e aprì la bocca senza poter parlare, mentre egli avanzando dignitoso verso zia Sirena domandava con voce grave:
— Com’è accaduta la disgrazia?
La vecchia lo guardò dapprima stupita, poi minacciosa, e non rispose; un parente anziano si alzò e cominciò a raccontare.
Mikali ascoltava, in piedi poichè nessuno lo invitava a sedere, accomodandosi ogni tanto la berretta; e volgeva il viso a destra verso Ignazia che singhiozzava raccogliendo le immagini e rimettendole dentro il libro, ma quel viso giallo con gli occhi che parevano due macchie livide gli destava spavento.
— A che ora è stato? — domandò a bassa voce, preso di nuovo da un turbamento profondo.
— Quando il pastore arrivò qui, saranno state le cinque, ma la disgrazia era accaduta stamattina.
Egli se ne andò; non aveva nulla da dire, e oramai sapeva dove andare. Da lui. Nello stradone incontrò il servetto di Vittoria e la gobbina che correvano a prendere notizie.
— Vittoria sembra pazza; se non muore è miracolo. Signore, Signore, che cosa è accaduto! Che danno, che danno! Corri a confortarla.
Grave e fermo come si conviene ad un uomo forte, egli rispose deviando il discorso:
— Ritorno dallo stazzo di mio padre. Il pastore ha portato la notizia alle cinque, ma la disgrazia è accaduta stamattina.
— Tu sei stato là? Ah, tu sei... tu sei stato là? — cominciò a gridare la donnina, ma il ragazzo la urtò.
— E se è stato? Non è casa sua?
Mikali lo guardò approvandolo, e proseguì la strada.
— Vittoria sembra folle — pensava; — adesso ne farà del piangere! Le donne, quando cominciano, con le lagrime, non la finiscono mai.
E camminava dritto, ma sentiva chiaro che se non andava da Vittoria era per un certo senso di terrore. Aveva paura delle lagrime di lei.
Ritornò da sua madre; là almeno sapeva cosa dire. Ella stava di nuovo seduta sul limitare della porta, coi gomiti sulle ginocchia e il viso sul dorso delle mani ripiegate, e si dondolava in avanti e indietro gemendo una nenia insensata.
— Andrea, piccolo Andrea, figlio mio, figlio mio, cosa ti hanno fatto? Ti hanno ucciso come un agnellino di tre giorni, figlio mio, figlio caro...
Invano Mikali tentò di richiamarla in sè; ella sollevò gli occhi con le pupille dilatate e parve non riconoscerlo, poi riprese la sua nenia funebre; ed egli si appoggiò al muro, con la testa bassa, calmo, sì, come si conviene a un uomo forte, ma pallidissimo in viso.
Le donne dello stazzo, pure badando che zia Marianna non si movesse, avevano ripreso le loro faccende: una spazzava le bucce delle fave davanti alla porta, e dalla cucina usciva l’odore delle vivande. Sopra la siepe, sul cielo rosso del tramonto le rondini passavano stridendo d’amore. Ah, come si sentiva che quei due, madre e figlio, erano stranieri in quella casa: la pace stessa del luogo e dell’ora contrastava col loro dolore.
Solamente l’orfana, Maria Battista, sporse il viso pallido da una finestruola e i suoi occhi mandarono su Mikali uno sguardo di amore e di pietà benigno come un raggio di luna: sembrava la figlia del Re prigioniera che gittava le lunghe trecce d’oro per far salire fino a lei il giovine amante; sì, così ella avrebbe voluto attirare su Mikali, con la scala luminosa del suo amore, e chiuderlo nella prigione del suo cuore: ma egli non la vedeva neppure.
La nenia della madre cominciò ad irritarlo; sporse in avanti i pugni come per rimuovere un ostacolo e ripetè a sè stesso che bisognava essere forte. E per essere forte fuggì via di nuovo.
Bisognava andare da lui. Ma prima si trovò davanti al campo di Vittoria; e anche là tutto era pace e sopra la linea nera del villaggio il cielo verde pareva il mare: la stella della sera brillava attraverso il finestrino della torre come attaccata alla fune della campana; tutto era silenzio nella casetta; no, Vittoria non piangeva, non gridava; era una donna forte, Vittoria; perchè non doveva essere un uomo forte anche lui? Entrò dunque, sedette nella piccola cucina deserta e cominciò a parlare a sè stesso.
— Pazienza, Mikali, questi brutti momenti passeranno. Sii prudente e paziente, Mikali; e ascolta adesso con calma le lamentele delle donne. Un uomo come te non deve avere mai paura, nè delle piccole nè delle grandi cose. E fa proposito di cambiare vita, d’ora in avanti; di restare eternamente fedele a Vittoria, di rispettare sua madre, e tuo padre e tua madre, e di fare del bene ai poveri.
Per cominciare a mantenere i suoi proponimenti, si alzò, all’apparire di zia Pietrina e si levò la berretta come quando incontrava il dottore; ella aveva gli occhi velati di lagrime e senza badare a quel segno di rispetto gli disse quasi rudemente:
— Vittoria sta male: ha avuto delle convulsioni e si torceva come una serpe. Adesso è chiusa nella sua camera, all’oscuro, e non vuol vedere nessuno. È meglio che tu, per oggi, non cerchi di vederla. Vattene.
Egli non insistè, ma non se ne andava. La donna sedette per terra, con le mani intorno alle ginocchia, e disse piangendo:
— Vedi Mikali? Aveva ragione mio marito, bonanima, di dire che il peccato mortale è una via storta che conduce al burrone. Andrea s’è fatto uccidere e la colpa è vostra.
Allora egli si rimise con un gesto energico la berretta sul capo e decise di andarsene.
— Quand’è così voi fate male a parlare ad alta voce. Tacete.
E se ne andò con l’impressione di essere stato scacciato di là come era stato scacciato dalla casa di suo padre, come verrebbe scacciato da ogni luogo cristiano: come Caino. Ma si ribellava. Gli sembrava di odiare Vittoria. Ella lo scacciava, dopo che egli voleva tenersi forte per lei, e per non addolorarla soffocava il suo dolore di fratello. Andrea, fratello Andrea! Sentì il suo cuore gridare forte, cominciò a ricordare l’infanzia, l’affetto del fratellino, i giorni belli passati assieme, le promesse di Andrea di dargli la sua parte di beni: e tentò di maledire la donna che li aveva divisi, che li avea uccisi entrambi.
Ah, Vittoria non voleva vederlo? ed egli non tornerebbe più da lei, partirebbe, se ne andrebbe in America. Gli pareva d’essere già in viaggio; ma camminava senza trovare pace, spinto da un turbine interno che diventava sempre più violento. Sì, come Caino. Le parole della madre di Vittoria gli davano di tanto in tanto come dei colpi di sprone ai garetti.
— La colpa è vostra. La colpa è vostra.
Arrivò alle falde del Monte ch’era notte fatta: il cielo tremolava tutto di stelle come una immensa rete d’oro, e l’Orsa Maggiore bassa sull’orizzonte gli serviva di guida come un carro che lo precedesse per la china solitaria. Del resto egli conosceva bene quei luoghi, e ne ritrovava anche al buio i sentieri più nascosti. A lunghi passi costeggiò il fianco del monte, distinguendo al lume delle stelle i muri e le roccie, gli alberi e le macchie, e le distese d’erba d’un nero lievemente argenteo. In lontananza, nel vuoto vaporoso dello spazio i lumi degli stazzi parevano stelle rossastre ancora basse sull’orizzonte; e negli ovili qua e là qualche fuoco brillava illuminando con la sua macchia di chiarore un profilo di capanna o un albero in uno spiazzo erboso.
Egli andava, e solo il suo passo e il rotolare di qualche sassolino risuonavano nella solitudine. Ma ecco le roccie s’alzano a picco, pareti enormi nude e lisce in certi punti così levigate che riflettono il chiarore delle stelle e delle luci lontane; e teste scapigliate coi lunghi capelli spioventi s’affacciano in alto a spiare il passante. E una voce d’acqua mormora nella notte, così chiara e fresca che pare di vederne il nastro cristallino rimbalzare e infrangersi di roccia in roccia.
Nell’inoltrarsi per quella strada che solo i pastori e i cacciatori conoscevano, Mikali ascoltava la voce dell’acqua e aveva l’impressione che le pareti di roccia si restringessero sopra di lui, gli gravassero addosso: ne sentiva il freddo pesante sulle spalle, e ne sapeva il perchè. Andrea era passato di lì; suo padre era passato di lì; tutti e due con un grande peso sul cuore: ed egli diceva a sè stesso che, per quanto forte, non lo era al punto di non sentirsi avvolto dalla scia di affanno che questi due avevano lasciato lungo la via.
Ma più in là il rumore del torrente cessò, la montagna s’aprì verso il mare; il fresco, la rugiada, il silenzio, i lumi lontani, lo stesso senso di mistero che incombeva attorno gettarono come un velo sul suo dolore: e la sola preoccupazione di ritrovare il luogo della disgrazia e di avvicinarsi a suo padre senza destarne la collera, parve guidarlo.
Declivi molli d’erba scendevano adesso dal monte andando a perdersi nella landa confinante con la spiaggia; un crepuscolo argenteo sorgeva di laggiù dal mare; era l’alba della luna; e simile ad una enorme onda azzurrognola slanciatasi in alto e rimasta là pietrificata apparve a un tratto all’orizzonte l’isola di Tavolara.
Egli cominciò a ridiscendere; passando davanti a un ovile domandò notizie; e il pastore, lo stesso che il cacciatore aveva mandato nello stazzo Zanche con la funebre ambasciata, s’affacciò ancora stravolto all’apertura della capanna.
— Dire che li ho veduti passare stamattina uno dietro l’altro, col cane, e lui, Andrea Zanche, infelice, mi ha salutato! Verso le due, mentre conducevo le pecore al rio, rividi il cacciatore che correva come un bandito: vedendomi si fermò e mi pregò di andare allo stazzo Zanche con la notizia che Andrea era morto. M’ha giurato sul capo di sua madre che Andrea l’ha fatto apposta, che ha voluto morire lui. Piangeva come un bambino, il cacciatore, raccontandomi che Andrea aveva un viso strano ed era pallido e sapeva benissimo che quello era il posto ove passava il cinghiale. Gli avevo assegnato un altro posto, raccontava il cacciatore, ma dopo che anch’io ebbi preso il mio, egli si mosse: deve aver strisciato pancia a terra, se no l’avrei veduto cambiare il posto. Il cane era inquieto e mi girava attorno come una mosca; si accorgeva di tutto, la bestia, ed io cristiano misero, no! Ma Andrea è lui che ha voluto morire.
— Ebbene, — disse gravemente Mikali, — non bisogna dir questo per non aumentare il dolore del disgraziato nostro padre.
Più in là verso la china vide due fiamme, una alla sua destra, l’altra a sinistra; la luna che sorgeva dal mare e un fuoco fra i cespugli. Si diresse quassù. Il silenzio era così intenso che si sentiva da lontano il crepitare della fiamma alimentata da fronde di lentischio. A misura che saliva, egli distingueva figure d’uomini ferme nel chiarore rossastro; una, grande immobile come scolpita nella roccia, doveva essere quella di suo padre.
Cominciò a vedere tutto rosso. Ah, il sangue di suo fratello! E in ogni roccia, in ogni cespuglio, scorgeva il cadavere coperto da un panno nero. Gli si piegavano le ginocchia, e aveva paura che il padre, nel vederlo, balzasse urlando. Ah, mai avrebbe creduto di essere così debole! Eppure andava su, spinto da una forza interiore; a tutti i costi, anche se Bakis Zanche l’avesse scacciato a colpi di pietra, doveva avvicinarsi al morto e vederlo e stare un’ultima volta con lui appiattati dietro il cespuglio come da ragazzetti quando Andrea andava a cercarlo di nascosto sfidando l’ira del padre.
Era un debito che, almeno una volta tanto, doveva restituirgli. Ma arrivato a pochi metri di distanza vide l’ombra gigantesca muoversi, e l’istinto della paura fu più forte di ogni altro: si piegò e stette immobile quasi inginocchiato, tenendosi ferma con la mano la berretta che gli scivolava dal capo.
Il cuore gli batteva forte: alle sue spalle saliva la luna e la valle fino al mare si riempiva di un chiarore azzurro; tutto fu di nuovo pace. Cessato il primo impeto di paura, egli provò gusto alla sua avventura: gli era sempre piaciuto sfidare i pericoli. Ricordò le parole del cacciatore al pastore: «Andrea deve aver strisciato a pancia a terra per cambiar posto», e cominciò anche lui a trascinarsi sulle ginocchia, fermandosi ogni tanto per guardarsi bene attorno; così fece quasi tutto il giro del cerchio di chiarore projettato dal fuoco, e finalmente all’ombra di un lentischio vide due uomini accovacciati accanto ad una forma nera.
Ecco, egli era là.
Allora si lasciò cadere disteso col petto a terra e il viso sollevato sui pugni. La terra sentiva i palpiti del suo cuore, ed erano finalmente palpiti di dolore sconsolato e di pietà senza fine. Il cuore selvaggio e senza freno parlava alla terra, e la terra riferiva il messaggio a quell’altro cuore spezzato che riposava finalmente sul suo grembo materno.
— Fratellino mio, perchè hai fatto questo? Ma è vero che lo hai fatto? Potevi dirmelo, Andrea, malaugurato! Se tu mi dicevi: «la donna la voglio io», sì, te la cedevo, me ne andavo lontano. Non volevo andare io a fare il soldato, in cambio tuo? Tu non hai voluto: dicevi che la legge non lo permetteva. Oh, fossi andato io, in cambio tuo! Tu sposavi la tua Vittoria e tutto andava bene. Tante altre donne, c’erano, per me! Ma è vero che hai fatto questo? Io non ci posso credere, fratello mio; è impossibile! Non pensavi a nostra madre, disgraziata? E anche a lui, al cinghiale superbo, non pensavi? Egli ci ha fatto tanto male, con la sua superbia; ma è vecchio, adesso, è malato: non ci pensavi? Tu sei stato sempre così; non pensavi mai a niente, benchè tu avessi studiato: mai a niente! Quando sei venuto la prima volta, lo ricordo come fosse oggi, io stavo all’ombra della tamerice, seduto per terra, e limavo un chiodo di canna per il mio carretto di ferula. Tu gridasti, di dietro il tronco del sovero: ohiò — ed io mi spaventai. Credevo che tu volessi farmi paura; invece tu ti avanzavi piano piano, a viso chino, come cercando qualche cosa per terra, e sedesti accanto a me, silenzioso, guardando quello che facevo. Anche adesso stai silenzioso, all’ombra del lentischio, ed io son qui... io son qui... son qui, sì... ohiò!...
Gli veniva voglia di gridare: gli sembrava di sentire ancora la voce del suo fratellino dietro il sovero... Ricordava che Andrea, allora, era ben vestito, di panno, con le scarpe alte a ganci dorati. Come aveva invidiato quelle scarpe! A pensarci bene, egli l’aveva sempre un poco invidiato, suo fratello, che aveva avuto la fortuna di nascere primo... e in fondo, bene in fondo all’anima, aveva desiderato spesso di togliergli qualche cosa. Una volta s’erano scalzati per entrare nell’acqua del torrente, e avevano lasciato le scarpe fra i giunchi: egli aveva desiderato, sì, di nascondere le scarpe di Andrea, ma in modo astuto, in modo da non essere scoperto. Gli avrebbe poi magari offerto le sue, per tornare a casa... E così gli aveva rubato la donna e adesso piangeva su lui!
Ma a poco a poco, vedendo che lassù le ombre restavano immobili, come se tutti dormissero, si calmò di nuovo. Era stanco. Piegò le braccia, vi abbandonò sopra la testa e si addormentò. Sogni confusi agitarono il suo sonno; gli sembrava di essere dietro la siepe, con Vittoria, e un rumore strano di buoi che correvano ansando risuonava dietro il campo: Vittoria aveva paura e mormorava:
— È l’anima di Andrea...
Ed egli rideva, ma aveva paura anche lui.
Il rumore misterioso mutò, divenne un trottar di cavalli su per un sentiero pietroso.
— È il cavallo verde... È Lusbè il demonio, che corre dietro l’anima di Andrea — diceva Vittoria: ed egli l’afferrò per le braccia e la scosse per farla tacere.
In fondo però, anche nel sogno provava un altro sentimento; gli sembrava che facendo morire Andrea in così malo modo Dio castigasse Bakis Zanche dell’ingiustizia usata all’altro figlio, a lui Mikali, col ripudiarlo e farlo vivere come un bastardo.
Si svegliò e sussultò, sulla nuda terra. Si udiva davvero, nel silenzio profondo dell’alba, un trotto di cavalli; la luce inargentava le pietre e la luna pallida calava tra le macchie come una grande medaglia di madreperla.
La gente lassù si agitava; i due carabinieri che vegliavano la salma di Andrea si misero sull’attenti e una voce disse:
— È il Pretore.
Egli ebbe vergogna di avere avuto paura in sogno. Non cercò più di nascondersi, ma stette seduto su una pietra, curvo con le mani penzoloni fra le ginocchia aperte, sollevando di tanto in tanto gli occhi per guardare lassù. Ecco il Pretore e i suoi accoliti smontano e si accostano silenziosi al cadavere: uno dei carabinieri solleva il panno nero, l’altro si china e parla a bassa voce mentre il cancelliere si guarda attorno e scrive, scrive sopra una carta, appoggiato alla roccia. Il padre e gli altri uomini s’erano messi in fila silenziosi, e Pancraziu guardava il padrone come un cane fedele spiandogli sul viso i segni di dolore. Mikali balzò in piedi punto dalla gelosia per il servo e andò a unirsi alla fila. Con meraviglia vide che il padre neppure si accorgeva di lui, fermo, rigido come una statua di pietra la cui testa sopravanzava quella degli altri. I suoi occhi non si distoglievano un attimo dal viso bianco del morto. Anche quel viso era calmo, pietrificato: la bocca chiusa, gli occhi chiusi: ma la posizione del corpo dava l’idea che Andrea stando a sedere sulla pietra accanto fosse a un tratto caduto a terra col fucile sotto, le ginocchia piegate, le mani contratte come avesse cercato di aggrapparsi a qualche cosa, pure stringendo le labbra per non gridare il suo spasimo mortale.
Il sangue coagulato segnava una grande macchia violacea intorno al cadavere e scendeva per un tratto come un rigagnolo.
Finite le constatazioni, il morto fu sollevato e deposto sopra un carro: il padre gli aggiustò i piedi mettendoli assieme, gli incrociò le mani sul petto, distese bene il drappo che lo copriva, fermandolo da una parte e dall’altra con rami di lentischio. Infine si guardò le dita macchiate di sangue e diede un ansito feroce come quello di un leone ferito. E Mikali ebbe di nuovo paura come nel sogno: subito però vide il vecchio ricomporsi, montare sul cavallo presentato da Pancraziu e muoversi col corteo che seguiva lentamente il carro funebre. Alquanto umiliato per l’indifferenza del padre, sebbene in fondo contento di sè per la sua prova di bravura, pensò che adesso bisognava sorvegliare la madre: prese quindi una scorciatoia, volgendosi dal basso a guardare un’ultima volta il corteo.
Il sole sorgeva dal mare e copriva col suo velo d’oro la montagna; e nell’immensità deserta, sotto le pareti di roccia, fra le distese di ginestra fiorita che a tratti abbagliavano come brughiere in fiamma, il carro col morto, i cavalli, i cavalieri, i pedoni, i cani, apparivano piccoli e neri come insetti. Tutti tacevano, e il dolore degli uomini pareva sperdersi nella calma solenne delle cose.
*
Mikali trovò la madre seduta sull’orlo della strada con in mano il rosario, ricordo del povero Andrea.
— Andiamo, non è qui il vostro posto, — le disse; ma ella sollevò appena gli occhi pieni di un dolore senza fine, ed egli non potè smuoverla: pareva di bronzo.
Dov’era il suo posto se non sull’orlo della strada?
Le donne dello stazzo, aspettando che il carro col cadavere passasse di lì, guardavano curiose dal campo, con la mano sugli occhi contro il sole; qualcuna corse a domandare notizie a Mikali, mentre egli badava a scuotere impaziente sua madre.
— Andiamo, su! Non mi fate arrabbiare.
Un ragazzo ch’era corso in fondo alla brughiera per spiare l’arrivo del carro, ritornò rapido ansante come un cane.
— Viene, viene, eccolo! — gridò con gioia.
Allora la madre rimise i gomiti sulle ginocchia e il viso fra le mani e ricominciò a dondolarsi e a gemere.
— Figliolino mio... figliolino mio bello...
E mentr’ella bagnava con le sue lagrime il rosario e credeva di vedere ancora Andrea piccolo come quando era stata scacciata dalla sua casa e per mesi e mesi aveva pensato a lui con ansia, con fame, con sete di baciarlo, Mikali si drizzò, impotente a toglierla di lì, e rivolse la sua collera contro il ragazzo.
— E che, passano i cavalli di ritorno dalla festa che ridi così? Al diavolo che ti regge sulla terra, piccola immondezza che altro non sei...
— Zio Mikà, non l’avete con me...
— Ah, non l’ho con te? Aspetta, marrano...
Lo rincorse ma non lo raggiunse, e si fermò poichè vedeva una macchia nera avanzarsi nel sole dello stradale. Eccolo, veniva! E il gemito della madre risuonava fra il canto degli uccelli e il fruscìo dei cespugli scossi dal vento leggero.
Mikali aveva vergogna che la gente la vedesse ferma lì come una mendicante, ma aveva pietà del dolore di lei e d’altronde era certo che Bakis Zanche non avrebbe badato alla disgraziata, come non aveva badato a lui. Eccolo, dietro il carro che avanzava lento, seguìto dagli uomini col cappuccio calato sulla fronte; sembrava, in mezzo ai due carabinieri, un prigioniero, legato dal suo dolore, insensibile al resto.
D’un balzo però la madre si staccò dal gruppo di persone fermo sull’orlo della strada, e come di volo fu sopra il carro, vi si distese, scoprì il cadavere e lo baciò.
L’atto fu così rapido che Bakis Zanche, il cui cavallo s’era fermato col muso rasente al carro, non riconobbe subito sua moglie; ma quando vide la testa di lei sopra la testa del morto, il suo viso si deformò, gonfio e violetto d’ira; e di nuovo un ansito terribile gli sollevò il petto.
— Va! — gridò, mentre l’uomo che guidava il carro tirava giù la donna ed ella cadeva svenuta sulla polvere.
E quelli che guardavano ebbero l’impressione che il vecchio volesse passare sul corpo di lei; ma l’uomo del carro fu pronto a sollevarla rimettendola tosto tra le braccia di Mikali ch’era giunto di corsa.
— Ancora lì, sei, bastardo maledetto? — gridò Bakis Zanche dall’alto. — Tutti e due siete lì, adesso, i corvi neri, contenti che lo avete ucciso!
Mikali, pur tenendo con un braccio sua madre, sollevò il pugno minaccioso: afferrò il cavallo per la criniera scuotendogli la testa, e parve volesse buttare giù il padre, — giù nella polvere com’era caduta la madre; ma gli uomini lo tirarono in là, ed egli indietreggiò a forza tenendosi stretta al petto la donna penzolante come uno straccio. Allora il carro riprese il suo viaggio lento nel sole tra il verde sereno.