Le avventure di Saffo/Libro I/Capitolo I
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CAPITOLO PRIMO.
Faone trasformato.
Nacque Saffo in Mitilene città dell’isola di Lesbo, e fu di lei padre Scamandronimo, e di lei madre Cleide, secondo la più probabile opinione. Perché quantunque così estesa si celebri la di lei fama, pure è immersa in oscure tenebre una vita tanto illustre, di modo che vi sia molta contrarietà nelle tradizioni. Come in fatti altri dissero ch’ella era figlia di Simone, altri di Evonimo, altri di Eurigno, altri di Ecrito, altri di Camone, altri di Etarco, ma con maggiore probabilità Erodoto, il padre della nostra istoria, scrisse di Scamandronimo. Ella è
però mirabile questa dubbiezza intorno a’ genitori di una fanciulla così gloriosa, quando non si voglia considerare, che maggiore fu quella che ha involto la vita di Omero, di cui non sappiamo nè la patria, nè i costumi, nè i genitori, nè l’età in cui visse, quantunque fossero i di lui versi non che impressi collo stile nel papiro, ma dalla fama nella memoria d’infiniti cantori, che al popolo li ripetevano nelle città della Grecia. Quanto poi al secolo in cui vivesse questa donzella, sembra meno dubbiosa l’asserzione di quelli, che la fecero contemporanea di Alceo. Ma se altra materia io non avessi nella presente narrazione, che le scarse ruine rimaste presso gli antichi nostri scrittori, in brevissime parole sarebbe tutta compresa. Io però trovai non gustata fin’ora, e copiosa sorgente, alla quale con delizia saziai la mia sete. Conciossiachè peregrinando per onesto desiderio di scienza in diverse regioni, pervenni anco in Lesbo, dove con assidua diligenza ricercando le memorie della chiarissima fanciulla, scopersi che la di lei fama quasi spenta presso di noi, vive tuttora presso que’ popoli, e vivrà lungamente sparsa nel mondo, se la saprò con degno stile far manifesta. Ivi adunque le celebrano antichissime inscrizioni, e volumi diversi scritti nel primiero dialetto di quegl’isolani, ed anco certi inni trasmessi da secoli remoti per tradizione presso gli abitanti della più montuosa regione di Lesbo, i quali sogliono cantarli con flebil metro nelle adunanze loro. Sappia così ciascuno quai sieno i testimonj di questa narrazione, che ho deliberato subitamente principiare, siccome navigatore giunto da incognite spiagge, impaziente di raccontarne i nuovi e strani costumi.
E primieramente i pregj esterni di Saffo sappiamo anche dalla tradizione degli scrittori comuni, ch’essi erano molto inferiori agli interni dell’animo, perchè se bellissimi erano i di lei versi, tale però non era il di lei volto; ma non per questo spiacevole, perché animato dallo splendore che in lui traspariva del vivace intelletto, quantunque alquanto bruno egli fosse, e il rimanente della persona piuttosto di mediocre statura.
Quanto alla fanciullezza di lei non vi è che narrare, come età per se medesima insipida, e in cui sono eguali anche gli eroi alla plebe; ma soltanto basti il previamente accennare, che la vergine già manifestava cosí presto il parziale dominio della Madre di Amore, sotto il di cui imperio ella doveva un giorno sí miseramente, come vedremo, essere soggiogata. Conciossiaché quantunque occupata nei trastulli puerili, nondimeno fissava anche spesso gli sguardi con prematura curiosità sulle statue de’ giovani Eroi, ed era insaziabile di rimirare gli atleti ed i lottatori nelle arene; e poi nella adolescenza, di leggere Poeti amorosi, e storie di amanti, impiegando molte ore del giorno con quei volumi fralle mani, accompagnandone la lettura con sospiri, e talvolta infino parlando in sogno di quegli avvenimenti, de’ quali aveva l’animo ripieno. Ma pure non era giunto quel momento, nel quale Amore, mosso da un crudele capriccio, scegliesse questo cuore per bersaglio di una delle più avvelenate frecce, che mai portasse nella faretra. Quindi ella viveva piacevolmente sospirando per le immaginate altrui avventure nei volumi descritte, o colla seduzione de’ versi, o colla irresistibile lusinga dell’eloquenza, non sapendo che in breve dovrebbe ella commovere gli altri a maggiore pietà co’ suoi veri infortunj; imperocchè doveva ardere di così lagrimevole amore, che non gustando alcuna delle sperate dolcezze, ne avrebbe trangugiato tutto l’amaro, fino all’ultima stilla.
Eravi nella stessa Mitilene un giovine, padrone di molte navi, chiamato Faone. Costui giunto alla età di quattro lustri non era distinto dagli altri coetanei nè per la forza, nè per il portamento, nè per le forme del suo corpo, che anzi l’occhio in rimirarlo non vi avrebbe ritrovata materia alcuna o di lode, o di biasimo, perchè egualmente distante dalla bellezza che dalla deformità. Avvenne però che andasse da Lesbo in Scio, ed ivi finite le sue faccende mercantili, era sul punto d’imbarcarsi, e trattenendosi sul lido aspettava il vento. Era il mare calmato come una cerulea pianura, entro di cui s’incurva il cielo ai confini del mondo; erano spiegate tutte le vele; ed i nocchieri or dall’una parte or dall’altra guardando ansiosamente, desideravano scoprir di lontano o fosca nube, o tumulto nell’onde, siccome indizj di prossimo vento; ma venivano delusi nelle loro speranze, nate e spente più volte il giorno. Perchè appena di tempo in tempo si scuotevano le ampie vele destando qualche lusinga negli animi loro, subito con grida e festa correvano per disciogliere l’ancora; ma poi cessando l’ingannevole soffio del vento capriccioso, ritornava l’aura al silenzio, muta come ne’ deserti, ed i nocchieri omai stanchi per lunga noja, s’erano alla fine sdrajati dormendo la maggior parte all’ombra delle vele.
Faone sedeva intanto sul lido, entro di un ombroso speco alla fresca aura cantando marine preci a Nettuno ed a Teti, in parte per distogliersi dal tedio e in parte per desiderio di vento propizio; quando gli si presentò, come vapore che sorge dal mare all’improvviso, una vaghissima donzella, non avendo prima inteso ch’ella entrasse nello speco o per qualche leggiero calpestío delle orme, o per qualche rumore dell’avvolta gonna o del manto. Lo che egli ascrisse alla distrazione de’ suoi pensieri, per la quale gli era sembrato così all’improvviso presentarglisi la fanciulla, onde a lei rivolto in principio con sorpresa, ma poi guardandola molto soavemente; Che brami, disse, o bellissima donzella? E quindi prestamente alzandosi; Entra, e siedi, soggiunse, perchè le tue delicate membra offenderebbe il raggio ardente del Sole. Sia come vuoi, diss’ella, e si abbandonò accanto di lui, e quindi cominciò inclinandosi alquanto vezzosa; Buon Faone... ed egli esclamò interrompendo: Chi ti ha rivelato il mio nome, perocchè Faone non essendo che nocchiero, come molti di Lesbo, non può immaginarsi, che noto sia, e celebrato nella bocca degli uomini stranieri, e molto meno in così bella e sì soave. Ed ella rispose; Forse avverrà che il tuo nome divenga, più che non credi, ripetuto; per ora ti basti il sapere qual sia il mio desiderio. Bramo che tu mi trasporti in Cipro, e che prestamente mi compiaccia, deviando anche il tuo viaggio, se te lo hai proposto verso altri lidi. Faone rispose; E come posso io prestamente ubbidirti? Guarda che immobile cristallo è il mare, Eolo, così inesorabile nelle tempeste, or mi ricusa il soffio più leggiero. Meglio è che intanto quì tu meco rimanga, e altronde, come potrai delicata fanciulla, tollerare gli assalti del flutto procelloso, e rimirar senza orrore gli scogli disseminati nelle acque immense, e come andar tu vuoi sola esposta ai disagj di lunga navigazione? Così diceva il nocchiero già desideroso, più di trattenersi in quell’antro con sì leggiadra compagna guardando il mare tranquillo, che di solcarlo fra i pericoli. Ormai desiderava, che non soffiasse il vento, per non essere costretto a scioglier le ancore; imperocchè la soavità del presente ozio avea spento in lui il passato desiderio, e quelle preci, che prima avea rivolte al cielo, era disposto di indirizzare a lei. Ma l’incognita donzella; Io sono, disse, avvezza, più che non credi, a varcare i cerulei campi dominati da Nettuno, mi richiamano a Cipro necessarie faccende, e quanto al soffio de’ venti, che tu accusi di lungo silenzio, guarda ch’eglino già gonfiano le guance, e ti dirigono in Cipro. Così dicendo si alzò, uscì dallo speco, e a lei d’appresso andò Faone con ciglia sospese, pupille intente, bocca socchiusa riguardando qual fosse la di lei intenzione. Quand’ecco ella prese colla destra mano chinandosi quanta rena poteva raccogliere, e la ristrinse, e quindi la gittò all’aura, e quantunque sembrasse il mare tranquillo, e fossero immobili le foglie della pendente edera all’ingresso dello speco, nondimeno quella rena, quasi spinta da vento impetuoso, si sparse in lunga striscia direttamente verso Cipro. Or vedi se l’aura spira propizia, aggiunse la donzella. Ma pur, rispose Faone, non tanto per voglia di garrire, quanto per desiderio di rimanersi con lei, lo veggo che non si scuotono punto le vaste vele del mio naviglio. E quella disse; Or ecco che ivi ancora giunge il vento, e il disse appena che tutte si scossero e gonfiarono. Già la ciurma del naviglio gridava per gioja, ed indicava a lui con segni, che ritornasse, onde non potendosi più trattenere, introdotta primamente la fanciulla nello schifo, con cui era dalla nave venuto all’antro, remigando egli a due remi nella poppa, ed avendo lei in faccia assisa nella prora, giunse al naviglio. Fu accolta la fanciulla non senza stupore, ciascuno sospendendo gli officj loro per contemplarla; ma poi, come condottavi dal padrone, senza importune domande stavano taciti e rispettosi, non sapendo se fosse di lui seguace volontaria, o legittima schiava fatta in que’ lidi nelle precedenti navigazioni. Ma Faone troncò questa oziosa maraviglia collocando la straniera nel più decente sedile della nave, e dando il segno di scioglier l’ancora. S’increspava l’onda all’eguale alito dello spirante soavissimo vento, ed il nocchiero, che reggeva il timone, cantando in non dispiacevole metro, l’antico inno degli Argonauti, rivolgeva il placido corso alle sponde di Cipro. Il Sole già declinava verso del mare, e sembravano le acque disposte a riceverlo, divenire ardenti, mentr’egli accostava loro il luminoso lembo dell’ampio disco; ed alla fine vi si immerse estinguendosi come il calibe de’ Ciclopi, quando essi traendolo, ancor scintillante dalla incudine, lo tuffano nelle vaste urne dell’acqua che stanno intorno i mantici della fucina. Al disparire del giorno, spandendosi le tenebre sull’ampiezza del pelago, seguitando il costante soffio del vento benigno, e comparendo tutti i segni di propizia navigazione, or l’uno, or l’altro de’ nocchieri erano vinti dal sonno, fuori di quello che reggeva il timone, e quelli che avevan cura delle vele. Faone non meno, poichè l’oscuro velo della notte a lui nascondeva le gradite sembianze dell’incognita viaggiatrice, privato dello stimolo pungente delle di lei pupille, che avrebbe scacciato il sonno dalle sue, al pari degli altri placido come il mare, mentre correva il legno lievemente a seconda dell’aura propizia, chiuse le palpebre. In questa guisa navigò la nave felicemente tutta la notte col governo di pochi, e già riappariva in oriente la dubbiosa aurora, che a poco a poco si estendeva nel cielo e nel mare, seco portando più fresco e più gradito il vento; quando all’improvviso, siccome suole il pelago insidioso, turbossi il cielo di nembi, ed il mare muggendo a quelli corrispose. Riscosso ognuno dal sonno, correva agli officj suoi. Si abbassarono le vele, e dove presto ciò non si poteva eseguire, snodando le funi, le tagliò il ferro. Con grida e tumulto obbedivano i nocchieri ai comandi di Faone, mentre il legno, ormai senza vele, non obbediva che all’onde, siccome sparviero vinto dal turbine stringe l’ali, e s’abbandona all’impeto irresistibile di lui. Il pallore tingeva la fronte d’ogni nocchiero, che palpitando mirava fremer d’intorno alla quasi sommersa nave il tempestoso flutto, e dubbioso volgeva il timone colui che appena stringere lo poteva, siccome sbalzato dal violentoFonte/commento: Pagina:Verri - Le avventure di Saffo e la Faoniade, Parigi, Molini, 1790.djvu/15 moto della instabile nave; la sola incognita donzella sedeva, come prima, in atto placido, quasi fosse in cocchio per diporto trascorrendo su i fiori. Il che talvolta considerando gli altri, quanto loro era permesso dall’imminente proprio pericolo, grandemente si maravigliavano, che così una timida e inesperta donzella superasse nel coraggio gli uomini avvezzi agli inganni del mare, nè potevano distinguere, se da animo grande e reale provenisse tale intrepidità, o da una insensata inesperienza. Quand’ecco ella diede segni ben più maravigliosi, perchè alzandosi disse: Siate di buon animo ch’io reggerò la nave, e poi si coricò nella prora, e sciolse un largo velo che le cingeva i delicati lombi, il quale dispiegando al vento, tenne una estremità colla destra sollevata sopra il capo, e l’altra frenò colla manca sulle ginocchia. Al quale atto gonfiò il vento, in sembianza di vasto arco, sul di lei capo il velo, sotto del quale ella intanto con soave volto dolcemente sorridea. Così andava il legno a seconda non più della tempesta, ma di quel turgido velo, quasi fosse ben collocata antenna; nè più l’urto delle onde oltraggiava il naviglio, che sopra di quelle lievemente scorrea, come foglia caduta entro del placido ruscello. Così vediamo nel portico dell’areopago, che in quell’atto dipinta Galatea trascorre il mare. Non è d’uopo che quì si narri quanta fosse la maraviglia de’ nocchieri, perchè era così grande, che superando la espressione delle parole, ammiravano nel silenzio, tanto più rispettosi tacendo, quanto che il portento ben loro manifestava, che o Dea, o di stirpe divina doveva essere colei che tal dominio avea sull’indomita ferocia degli elementi.
Ma già appare lontano lido come lunga striscia di nebbia fosca, che sorge dal mare ceruleo, e terra terra, prorompono gridando i nocchieri non temendo di naufragio, perchè distinguono le sponde di Cipro, dove sicuro porto si offre a’ naviganti. La donzella dirigeva, sempre in quell’atto, la prora, rendendo anche più grata, con sì piacevole beneficio, la celeste sua bellezza, e fralle spumose onde trasse, con lieto sorriso, il legno entro il vicino seno di mare tranquillo. Gettaron l’ancore, scesero sulle arene, e Faone, non ancora quasi trovando i concetti co’ quali manifestare la interna maraviglia; Chiunque tu sia, esclamò, o Dea, o progenie de’ Numi, per certo corrisponde alla sapienza del tuo intelletto, ed alla beltà del tuo volto, la beneficenza dell’animo; poichè così ti piace di alleggerire i nostri timidi petti, dal più insuperabile di tutti gli spaventi, l’orror dell’imminente morte in vista del mare procelloso. Che potrò io dunque fare, non già in ricompensa di un beneficio incapace per la sua grandezza di rimunerazione, ma per dimostrarti almeno, che quantunque inetti a corrispondere adequatamente colle azioni, non abbiamo l’animo ingrato? Anzi, diss’ella, io te devo ricompensare, perchè declinando dalla tua navigazione mi hai qui condotta. Così dicendo lo tirò in disparte dietro alcuni cespuglj, e gli pose nelle mani un piccolo vaso di trasparente e lucido alabastro, aggiungendo tali parole: Accetta questo unguento prezioso, e se quanto hai già veduto ti basta perchè presti fede alle mie promesse, giunto che tu sia alla patria, con esso ammollirai il viso e tutte le membra, ed avverrà che tu sia soddisfatto di avermi creduto. Con queste parole consegnò a lui il vaso, ed egli prendendolo con maraviglia; Dimmi almeno, soggiunse, qual Dea tu sei, ond’io possa vantarmi d’esser tuo nocchiero. Io sono, disse quella, la delizia e l’angoscia de’ mortali, la fonte più dolce insieme e più amara; son misti di lagrime i miei sorrisi, e sono infine la madre del più debole, e più terribil Nume che abiti l’Olimpo. Faone, esclamò, oh veramente incomprensibile linguaggio celeste, i di cui arcani nè so penetrare, nè mi è permesso. Nò, disse quella, il tutto intenderai quando sappi ch’io sono la madre di Amore: e così detto sparve quasi nebbia al sole. Trattienti, o bella Dea, gridò prostrandosi Faone, e lascia che ti baci i candidi piedi e le mani ognor fragranti di ambrosia; ma la di lui voce si spargeva in vano all’aura, perchè la Dea fugace volò sull’alta cima dell’olimpo. Stette alquanto il garzone immobile per maraviglia, e quindi ritornando nella nave raccontò a’ nocchieri la portentosa fuga della Dea, tacendo però il dono, e tutti spinti da religioso timore pregaronla sommessi di mostrarsi propizia, quantunque assente, e quindi rivolsero la prora a Lesbo. Vi giunsero con propizio vento, ed arrivata la nave nel porto di Mitilene, Faone, che seco medesimo in tutto il tragitto aveva meditato qual mai fosse la virtù divina nell’angusto vaso raccolta, scese impaziente sul lido, agitato dal desiderio di farne esperienza, non aspettando che piacevoli effetti dal balsamo divino. Andò pertanto a’ suoi alberghi direttamente, ed abbracciando prima il suo provetto padre, che sempre lo aspettava con timoroso desiderio, senza però narrargli la avvenuta apparizione, affinchè non gli si turbasse l’animo con portenti straordinarj e religiosi, si ritirò nelle sue stanze, come desideroso di tranquillità dopo i tumulti della navigazione. Chiuse quindi le porte, e rimase solo, determinato ad intraprendere così dubbiosa esperienza, e coll’animo diviso fra il timore della virtù divina, e la speranza di qualche straordinario beneficio, sollevò con trepida mano, ed occhi intenti il coperchio del vaso. Esalò dentro quell’albergo la soavissima fragranza, al paragon della quale, insipido sarebbe parso il profumo delle viole, quantunque umide di rugiada mattutina e mosse dal piacevole alito di zefiro, che spande il loro vapore nella serena primavera. Un così lieto principio animò il garzone ad eseguire i comandi della Dea con fiducia maggiore, e però tinse nel vaso l’estremità dell’indice della destra mano, e con esso se ne unse la manca, sospeso nella aspettazione di quanto avvenisse. Ma appena fu sparso l’unguento sulla abbrunata mano, che il fosco di lei colore, siccome di uomo esposto all’aure ardenti del mare, si cangiò in freschissimo giglio, e insieme divenne delicata e morbida, di modo che accostandola, siccome fece, all’altra, pareale appartenere ad altrui. Che farò (disse Faone, quasi atterrito dalla maravigliosa trasformazione) con una mano dall’altra così diversa, che la sua bellezza medesima sembra deformità, perchè mostruosa distinzione! Egli è necessario omai di tentare il compimento della promessa fortuna. E così dicendo si trasse le vesti, e in più larga copia ungendo la mano, stese il balsamo sul petto, e vedendone i medesimi prodigj, cangiata la speranza in certezza, tutto alla fine se ne unse il corpo. Non vi sono al certo parole, che possano ben esprimere con qual diletto mirasse il garzone nascere sotto la sua mano la candida gioventù, e la proporzionata forma in tutte le membra, e finalmente anche nel volto. Imperciocchè rimirandosi in una lucidissima lamina di ben liscio metallo, vide in lei riflessa la propria sembianza. Al pari di Narciso non poteva saziarsi di se, ed era certamente meritevole di scusa una simile compiacenza di se stesso, quantunque soglia altrui comunemente dispiacere. Perchè quella avvenenza che sia dono della natura cresce e si forma giornalmente con noi, e però si distrugge facilmente il di lei senso, come di un pregio consueto e triviale, ma un’improvvisa e divina bellezza, che subentri in pochi istanti ad una forma non bella, renderebbe il trasformato ammiratore, perchè straniero di se medesimo. Calmato alquanto in Faone lo stupore, rivolse a Venere le sue preghiere, acciocchè avendogli dato così pregievole dono, ne fossero anco benigni gli effetti. Ma non potendo più nascondere così fortunato beneficio, ed impaziente di commovere negli altri quella maraviglia, ch’egli di se medesimo provava, tratti da un’arca i più leggiadri vestimenti, ed avvoltili d’intorno, si presentò con piacevole baldanza al genitore. Egli però non l’avrebbe riconosciuto, se non avesse udito la di lui voce, che non era cangiata, e insieme, con tutte le particolarità, così straordinaria di lui avventura. E quì s’aspetta a coloro, che hanno generato de i figli, il considerar qual diletto provò il padre, vedendo che gli Dei medesimi avevano voluto perfezionare con celeste intelligenza la sua progenie. Ed in vero è naturale compiacenza de’ genitori il rallegrarsi alla presenza de’ loro figlj dotati di forme leggiadre, stimandosi autori di opere piacevoli e lodate; e però il provetto nocchiero non poteva toglier gli occhi da Faone, e ciò che più gli recava stupore era, che il di lui volto, quando venisse attentamente osservato, aveva la prima sembianza, ma ridotta a perfezione. Gli parve questo uno speciale favore della Dea anche per lui, acciocchè viepiù gustasse il pregio della nuova bellezza nel figlio, vedendovi i consueti tratti della domestica fisonomia.