Le Troadi/Terzo episodio

Terzo episodio

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Secondo stasimo Terzo stasimo

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Giunge Menelao.
menelao
Quanto è, raggio del Sol, bello il tuo lume,
oggi ch’io riaver la sposa mia,
Elena, posso! Ch’io son Menelao
da tanti mali travagliato; e questo
è l’esercito achivo. E a Troia io venni,
non, com’è fama, a causa d’una femmina,
bensí d’un uomo, che rapí la sposa
mia dalla reggia, ospite infido. Ora egli,
come voller gli Dei, scontò la pena,
egli e la sua città, caduta sotto
le lance Ellène; e la Spartana a prendere
io vengo qui: ché della donna il nome
che fu mia sposa, non dirò. Fra l’altre
prigioniere di Troia, in questa tenda
ella or si trova. Quelli che patirono
per riaverla, in guerra, or l’affidarono,
ch’io l’uccidessi, a me: se pur non voglio
ricondurmela in Argo, e non ucciderla.
Ed io decisi che il destino d’Elena
non si compiesse in Troia, e in terra d’Ellade

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sopra le navi ricondurla, e là
in mano darla a quanti ebbero morti
presso a Troia i lor cari, e quei l’uccidano.
Su via, ministri, nella tenda entrate,
conducetela qui, per quella sua
obbrobriosa chioma trascinatela.
Come da terra spirerà propizia
la brezza, la ricondurremo in Ellade.
ecuba
Tu che sostegno della terra sei,
e in terra hai sede, o Giove, o sopra ogni altro
arduo concetto, o che tu sia degli uomini
illusione, o di natura legge
fatal, t’imploro: ché per muto tramite
movendo, tu giustizia arrechi agli uomini.
menelao
Chi sei? Qual nuova prece innalzi ai Superi?
ecuba
lo ti lodo, se tu la sposa uccidere
vuoi, Menelao; ma se la vedi, fuggi
ché con la brama non t’adeschi. Affascina
essa gli occhi degli uomini, le case
brucia, dirocca le città. Lusinghe
ha troppe: io, tu, quanti patîr, lo sanno.
Durante le ultime parole di Ecuba, le guardie hanno trascinato fuori
dalla tenda Elena, vestita e agghindata con somma cura.

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elena
O Menelao, questo preludio è tale
ch’io ne sgomento. Fuor di questa tenda
qui tratta fui dai servi tuoi. So bene
che oggetto d’odio io son per te; ma pure,
dimandare ti vo’: qual fu degli Elleni
la sentenza per me? quale la tua?
menelao
Non ci fu dubbio: a me che offeso avevi
tutti a un voto ti diêr, ch’io t’uccidessi.
elena
Lecito è ch’io parole aggiunga, e provi
che ingiusta, se morrò, sarà la morte?
menelao
Non a discuter venni, anzi ad ucciderti.
ecuba
Odila, Menelao, ché di tal grazia
non muoia priva; e affida a me la replica.
Del mal che in Troia ella commise, nulla
tu sai: quando saran tutte raccolte
le accuse, non potrà schivar la morte.

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menelao
Sarà tempo perduto. Eppur, se vuole,
parli. Ma sappia ben ch’io lo concedo
per udir te, non già per compiacerla.
elena
Forse, ch’io parli bene o mal, rispondermi
tu non vorrai, ché a te mi credi infesta.
Ma le accuse che tu, parlando, immagino,
mi volgeresti, tenterò ribattere.
La prima causa generò dei mali
nostri, costei, che diede a luce Paride.
Secondo, il vecchio fu, che non uccise
pargoletto Alessandro, in sogno apparso
come lugubre face. E adesso, ascolta
il resto, come andò. Vennero tre
Dive, triplice gruppo, al suo giudizio.
Ad Alessandro Pallade promise
che, condottier dei Frigi, ei conquistata
tutta l’Ellade avrebbe. Era promise
che dell’Asia i confini e dell’Europa,
quando il vanto a lei desse, avrebbe Paride.
La mia persona a lui promise Cípride,
e l’esaltò, se nella gara avesse
l’altre Dee superate. Ora, considera
quali ne fûr le conseguenze. Cípride
vinse le Dive; e un tal vantaggio agli Elleni
han procurato le mie nozze, che
non conosceste signoria di barbari,
né doveste impugnar l’arme a respingerle,

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né tirannia. Ma quello che per l’Ellade
fortuna fu, sventura fu per me,
ché fui venduta per la mia bellezza,
che d’obbrobrio coperta son per cause
onde al capo dovrei corona cingere.
Dirai che ancor non ho toccato il punto
piú prossimo: come io dalla tua casa
fuggii di furto. Una possente Diva
con sé condusse il Dèmone maligno,
d’Ecuba figlio, o Paride o Alessandro
che tu voglia chiamarlo. E in casa tua
tu lo lasciavi, o malaccorto sposo,
sopra un legno salivi, e andavi a Creta.
E volgo una domanda, or, non a te,
anzi a me stessa. Che mi venne in mente,
che il mio letto lasciai, tradii la patria
mia, la mia casa, e, tenni dietro a un barbaro
La Dea punisci, e piú possente renditi
di Giove, ch’è signor degli altri Dèmoni,
servo di quella: onde perdono io merito.
Ma specioso un argomento addurre
tu vorrai contro me. Poi che Alessandro
della terra calò morto negli aditi,
sciolte oramai le nozze, opra dei Superi,
la sua casa lasciare avrei dovuto,
ed alle navi degli Achei fuggirmene.
Bene prova io ne feci; e testimonî
delle torri i custodi esser mi possono,
e le vedette delle mura, che
fuor dai merli piú volte mi trovarono,
ad una fune, per fuggire, appesa.
Ma Dëífobo, il mio nuovo signore,
rapita a forza mi tenea sua sposa,

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contro il voler dei Frigi. Or dunque, come
potrai la morte giustamente infliggermi,
o signor mio, se fui sposata a forza,
e il ben che la mia patria ebbe per me,
non trofei di vittoria, anzi mi frutta
amara schiavitù? Se tu pretendi
i Numi dominar, pretesa è stolta.
corifea
La patria, i figli tuoi, regina, vendica
e confuta i suoi detti: essa favella
bene, ed è trista: è questa arte terribile.
ecuba
Difender prima io vo’ le Dee, mostrare
che il giusto essa non parla. Era, e la vergine
Pallade, io mai non crederò che giungere
a tal follia potessero, che quella
Argo vendesse ai barbari, che Pallade
ponesse Atene in servitú dei Frigi.
Per lusinga, per gioco, esse convennero
sull’Ida a gara di bellezza. E a che
Era tanta mai brama avrebbe avuto
d’aver la palma di beltà? Di Giove
uno sposo miglior cercava forse?
A qualche sposo Atena, in mezzo ai Numi
dava la caccia, ella che al padre chiese
schivar le nozze, e restar sempre vergine?
Per mascherare il vizio tuo, non fingere
stolte le Dee: ché non convinci i savî.

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Hai detto — e questa è poi troppo ridicola —
che con mio figlio Cípride alla casa
giunse di Menelao. Ché, non poteva,
tranquilla in cielo rimanendo, te
con tutta Amícla trasportare ad Ilio?
Ma troppo insigne per bellezza fu
mio figlio; e come lo vedesti, Cípride
per te divenne la tua brama. Gli uomini
ad Afrodite tutte quante addossano
le follie proprie; e nelle prime sillabe
del nome della Dea la follia suona.
Come, lucente d’or, nelle sue vesti
barbare t’apparí, folle di brama
tu divenisti, ché vivevi in Argo
povera vita; ma, lasciando Sparta
per la città dei Frigi, ove dell’oro
scorreano i fumi, di guazzar nel fasto
certo credevi. A te, di Menelao
la casa non bastò, per le sfacciate
lascivie tue. Su via, dici che a forza
il mio figliuolo ti rapí. Ma quale
degli Spartani mai t’udí? Qual grido
levasti? Eppure, il giovinetto Castore
viveva ancóra, e il suo gemello: ancóra
non erano fra gli astri. E quando a Troia
giungesti, e sulle tue traccie gli Argivi,
ed era il cozzo di battaglia, quando
a Menelao propizia era la sorte,
tu lo esaltavi, per crucciar mio figlio,
ché un insigne rivale in lui vedesse:
quando i Troiani poi vinceano, nulla
era piú Menelao. Solo badavi
alla fortuna, in guisa tal, che sempre

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tu la seguissi: e nulla alla virtú.
Di funi, dici, il corpo tuo stringevi,
per giú calare dalle torri, come
se mal tuo grado tu fra noi restassi.
Ma quando fosti mai trovata, che
lacci appendessi, od affilassi un ferro,
come una donna generosa avrebbe
fatto, per brama del suo primo sposo?
Eppure, quante volte io t’ammonivo:
«O figlia, parti! I miei figliuoli avranno
altre consorti, ed io farò che tu
torni di furto ai legni Achivi: termine
poni alla guerra tra gli Ellèni e noi».
Ma questi detti amari ti sembravano,
ché nella casa d’Alessandro tu
superbire volevi, aver dei barbari
l’omaggio: a cuor ti stava molto. E adesso,
per venir fuori ti sei fatta bella,
e l’aria stessa che il tuo sposo mira,
miri, o donna esecranda! E qui dovresti
venir come pitocca, avvolta in cenci,
tremando a verga a verga, e rasa il capo
come una Scita, ed umiltà mostrare,
non impudenza, pei tuoi falli antichi.
Ora odi, o Menelao, ciò ch’io concludo:
cingi a l’Ellade un serto, Elena uccidi,
e tale norma fissa anche per l’altre
femmine: chi tradí lo sposo, muoia.
corifea
Degli avi tuoi, della tua casa degno
móstrati, Menelao, la sposa uccidi,

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ché fiacco te chiamar non debban gli Elleni
quando ai nemici tuoi prode apparisti.
menelao
Coincidono i tuoi coi miei pensieri,
che costei di buon grado abbandonò
la casa mia, nel letto entrò d’un altro,
e che il suo mentovar Cípride, fu
vana iattanza.
Ad Elena.
                                        Va’ dove t’attendono
per lapidarti; e i patimenti lunghi
sconta in brev’ora degli Achei, morendo;
e a non coprirmi d’onta apprenderai.
elena
No, ti scongiuro, il mal che i Numi vollero
non m’imputar! Perdona, non uccidermi!
ecuba
Non tradir gli alleati che morirono
per lei: per essi e i lor figli ti supplico.
menelao
Taci, vecchia; per lei non ho riguardi.
Dico ai ministri che dei legni a bordo
ove in patria tornar deve la rechino.
Elena è trascinata via.

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ecuba
La stessa nave tua, deh, non ascenda!
menelao
Perché? Pesa piú forse ora che avanti?
ecuba
Non c’è amante che amor sempre non serbi.
menelao
Secondo il cuor di chi riscosse amore.
Ma sarà come vuoi: nella mia stessa
nave non entrerà: ché mal non parli.
E, giunta in Argo, morirà di trista
morte, la trista, come essa n’è degna,
ed a tutte le donne insegnerà
che si deve esser caste. Non è facile;
ma pur, la fine di costei, terrore
nella loro follia susciterà,
anche se infeste piú fossero d’Elena.