Le Trachinie (Sofocle - Romagnoli)/Primo episodio

Primo episodio

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Sofocle - Le Trachinie (438 a.C. / 429 a.C.)
Traduzione di Ettore Romagnoli (1926)
Primo episodio
Parodo Primo stasimo
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DEIANIRA
A quanto sembra, non ignara giungi
del mio travaglio; ma non sai qual cruccio —
né mai la prova te ne renda esperta —
strugga il mio cuore: ché si nutre in simili
plaghe l’umore giovanile, e vampa
di sol mai non lo scuote, o pioggia, o soffio
di venti alcuno, e fra le gioie e senza
travagli, esalta il suo fiore, sinché
cambi il suo nome, da fanciulla in donna,
e la sua parte di cordogli in una
notte riceve, e a trepidare apprende
e per lo sposo e per i figli. Allora,
esaminando il proprio stato, ognuna
potrebbe i mali ond’io son grave apprendere.
Per molti mali io già pianger dovei,
tranne per uno; ed or ve lo dirò.
Quando l’ultima volta il Signor mio
abbandonò la casa, una vetusta
di segni impressa tavoletta a me
lasciò, che prima, a tanti agoni uscendo,
mai decifrata non m’avea: ché sempre
movea come chi va certo al trionfo.

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e non verso la morte; e adesso, invece,
come già morto fosse, a me la parte
disse che come sposa aver dovrei,
disse come tra i figli andar divisi
dovean del padre i territorii; e il tempo
specificò: quando tre mesi e un anno
dalla partenza ei già remoto fosse.
In questo lasso, spento egli sarebbe,
o, di tal tempo valicato il termine,
vissuto avrebbe di sua vita il resto
senza piú doglie. A tal sorte, diceva,
per divino volere, erano d’Ercole
le fatiche soggette; e soggiungeva
che dall’antico faggio udite un giorno
l’ebbe in Dodona1, e dalle due colombe.
E l’esito fatale, in questi giorni
appunto cade, ed or si deve compiere.
Sicché, dal sonno esterrefatta io balzo
sovente, amiche mie, ché del piú prode
fra i mortali, restar non debba vedova.
CORIFEA
Fa’ buoni augurî, adesso: un uomo giungere
inghirlandato, a fauste nuove io scorgo.
Entra un vecchio popolano.
IL VECCHIO
O Deianira, il primo araldo io sono
che dai timor t’affranca. È vivo, sappilo,
d’Alcmena il figlio, è vincitore, e reca
le primizie di guerra ai patrii Numi.

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DEIANIRA
Quali parole a me tu dici, o vecchio?
IL VECCHIO
Alla tua casa presto giungerà
l’invidiato sposo, apparirà
nel fulgor di vittoria.
DEIANIRA
                                        E quale a te
dei cittadini o dei foresti il disse?
IL VECCHIO
Nel prato estivo dei giovenchi, a molti
Lica, l’araldo, lo racconta; ed io
che l’udii, corsi qui per darti primo
la nuova, e lucro e la tua grazia averne.
DEIANIRA
Fortune annunzia, e non è qui? Perché?
IL VECCHIO
Agio, o signore, egli non ha di muoversi:
ché tutto il popol dei Malèi2 l’interroga,
standogli presso, ed avanzar d’un passo
non può. La curïosità! Ciascuno
vuol saper tutto, e non lo lascia, prima

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d’averlo udito a suo piacer: cosí,
presso chi lo gradisce, a mal suo grado
s’indugia. Ma ben presto ei sarà qui.
DEIANIRA
O tu che il prato ove non passa falce
reggi dell’Età, o Giove, a noi, pur tardi,
questa gioia concedi. O donne, quante
in casa siete, e quante fuor nell’aula,
le voci alzate, ch’io di questa nuova
or colgo, contro ogni speranza, il raggio.

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CANZONE A BALLO


CORO
Grida la casa levi di giubilo
dal focolare,
levi alalà,
mentre essa attende lo sposo, unanime
voli dei giovani
la voce al Sire dell’arco Apòlline,
Dio tutelare;
ed il peana levate, o vergini,
per sua sorella, l’Ortigia Artèmide,
che i cervi caccia,
che vibra in ogni mano una fiaccola,
per le compagne sue, Ninfe. Rapida
sobbalzo, e al flauto
io non recalcitro, re del mio spirito.
Vedi, m’esàgita,
evoè, l’ellera, che repentina
me nella bacchica danza trascina.

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Si avanza l’araldo Lica, eseguito da uno stuolo di donne
prigioniere. Fra queste una, Iole, si distingue per la
bellezza e la maestà dell’aspetto.


CORIFEA
Donna a me cara, vedi,
vedi quale spettacolo
alla tua vista appare.
DEIANIRA
Dilette amiche, al vigile mio sguardo
questo corteo non è sfuggito: vedo;
e: «Salve — dico — o messagger, che tardi
giungi, se tu liete novelle rechi»
LICA
Lieto l’arrivo, e liete le parole
onde m’accogli, e quali ben convengono,
donna, agli eventi: lucrar deve buone
parole, un uomo a cui fortuna arrida.

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DEIANIRA
Prima, o diletto, ciò che prima io bramo
dimmi: se vivo accoglierò lo sposo.
LICA
lo vivo lo lasciai, pieno di forze,
in gran rigoglio, e non da morbo oppresso.
DEIANIRA
Ed in che terra, di’: barbara o patria?
LICA
V’è una spiaggia d’Eubèa, dov’ei campestri
doni ed are al Cenèo Giove3 consacra.
DEIANIRA
Per un suo voto, o ligio a qualche oracolo?
LICA
Per un voto ch’ei fe’ quando di queste
donne che vedi, saccheggiò la terra.
DEIANIRA
Chi sono? E di chi figlie? — O miserevoli,
se non m’illude la lor triste sorte!

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LICA
A sé, quando Ercole Éurito espugnò
l’ebbe, ed ai Numi aggiudicate in premio.
DEIANIRA
Presso questa città, dunque, sí lungo
lasso restò di giorni, incalcolabile?
LICA
No, ma restò, com’ei dice, fra i Lidii
il piú del tempo; e schiavo, e non già libero;
né di tali parole, o donna, devi
farne rancura: fu voler di Giove.
Alla barbara Onfàle ei fu venduto,
com’ei pur narra, e cosí stette un anno;
e tanto quest’oltraggio il cuor gli morse,
ch’egli a sé stesso un giuro fe’: che l’uomo
che dell’affanno suo fu prima origine,
schiavo farebbe con la sposa e i figli.
Né la parola usci vana; ma, come
puro fu reso, una guerresca turba
raccolse, e mosse contro la città
d’Èurito: ché costui solo fra gli uomini
era, diceva, del suo male origine.
Poiché, quand’egli, antico ospite suo,
alla sua casa, al focolare giunse,
assai con le parole, assai con l’animo
maligno l’investí, disse che frecce
invitte possedea, ma nella prova
dell’arco, indietro ai figli suoi restava:

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gridò che schiavo egli era, e un uomo libero
lo malmenava, ed al banchetto, quando
fu ebbro, lo scacciò via dalla casa.
Perciò, salito in ira, allor che al clivo
Tirinzio, Ifito giunse, alla ricerca
dell’errabonde sue cavalle, mentre
gli occhi e il pensiero avea rivolti altrove,
giù lo scagliò dalla turrita spiaggia.
Per tal misfatto irato, il Nume Olimpio
Giove, padre di tutti, a lui perdono
non concedette, e schiavo lo fe’ vendere,
ché primo questo fra i nemici ucciso
avea di frode: se l’avesse ucciso
a viso aperto, ben l’avrebbe assolto
che la giustizia di sua man compiesse:
ché tracotanza anche i Celesti aborrono.
Quelli che vanto, con maligna lingua
menavan, dunque, abitatori tutti
sono or d’Averno, e schiava è la città;
e queste donne che tu vedi, ch’erano
felici un tempo, ed ora han vita misera,
vengono a te: questo comando diede
lo sposo tuo: fedele a lui, lo eseguo.
Ed egli stesso, allor che pure vittime
offerte avrà per la città conquisa
a Giove patrio, sappilo, verrà.
Di tante cose ch’ho pur dette, e belle,
la più dolce ad udire, è certo questa.
CORIFEA
Palese gioia a te, regina, giunse
per quanto innanzi t’è, per quanto ascolti.

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DEIANIRA
Come potrei non allegrarmi, e averne
diritto, udendo la felice impresa
del mio consorte? La vittoria sua,
la gioia mia, forza è che insieme vadano.
Pure, deve temer, chi ben consideri,
per l’uom felice, ch’egli un dí non cada:
ché profonda pietà m’invade, amiche,
vedendo questa sventurata errare
su stranïero suol, senza piú casa,
senza piú padre; e un tempo eran di liberi
figliuole, forse, e come schiave or vivono.
Giove della vittoria, oh, non ti vegga
su la mia stirpe mai cosí piombare;
o, se far tu lo vuoi, non sin ch’io vivo:
tanto, costor mirando, io sbigottisco.
Si volge a Iole.
E tu, fra tante giovani, chi sei?
Fanciulla, o sposa già? Di tutto ignara
sembri, e di nobiltà grande, all’aspetto.
Si volge a Lica.
Di chi questa fanciulla, o Lica, è figlia?
A luce, dimmi, chi la die’? Qual padre
la generò? Piú assai che l’altre tutte
a pietà mi commuove essa, perché
solo essa conscia di sua sorte sembra.
LICA
A me lo chiedi? Io che ne so? Di qualche
stirpe di là, sarà, né pur dell’ultime.

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DEIANIRA
Di re, fors’anche? Aveva Éurito figli?
LICA
Non so: ch’io là non feci lunghe indagini.
DEIANIRA
Né da compagna alcuna il nome udisti?
LICA
Punto: in silenzio l’opra mia compiei.
DEIANIRA
a Iole.
Dillo tu stessa, almen, misera: è proprio
una gran pena, non saper chi sei.
LICA
Se motto esprimerà, cosa ben nuova
farà: ché non parlò finora mai,
molto né poco, ma gravata sempre
dal peso della sua sventura, lagrime
versa, da quando, misera, la patria
ventosa abbandonò. Certo, la sorte
fu crudele con lei. Tu compatiscila.

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DEIANIRA
In pace dunque sia lasciata; e in casa,
come le piace meglio, entri, e non abbia
da me tormento, oltre alle sue sciagure:
basta già quella che l’opprime. A casa
tutte torniamo, si che tu t’affretti
dove brami, ed a tutto io li provveda.
Le prigioniere entrano, accompagnate da Lica.
Deianira fa per seguirle, ma è trattenuta dal

VECCHIO
Rimani ancora un po’, si che da sola
sappia che genti entro la casa adduci,
e di ciò che non sai, conosca quanto
devi saper: ché tutto a pieno io so.
DEIANIRA
Che avviene? Il passo mio perché trattieni?
VECCHIO
Férmati, e ascolta: che m’udissi, vano
non fu prima, né vano ora sarà.
DEIANIRA
Vuoi che ancor qui le chiami? O a me soltanto
e a queste amiche favellar tu vuoi?

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VECCHIO
A queste e a te son pronto; e gli altri, lasciali.
DEIANIRA
Son lungi: chiaro il tuo discorso or suoni.
VECCHIO
Nulla costui di quanto or ora disse,
lo disse a norma di giustizia: o adesso
mente, o fu prima menzognero araldo.
DEIANIRA
Che dici? Chiaro il tuo pensiero esprimi:
ché quanto ora m’hai detto, io non l’intendo.
VECCHIO
Quell’uomo ho udito, che diceva, innanzi
a testimoni assai, che per amore
di questa giovinetta, Ercole prese
la turrita Ecalía, sconfisse il re.
Amore il Nume fu che a questa impresa
l’allettò solo, e non la faticosa
servitú presso i Lidii e presso Onfàle,
né l’aver nell’abisso Ifito spinto;
e quei tace d’amore, e d’altro parla.
E poi che il padre ei non potè convincere
a lasciargli la figlia, ond’ei ne avesse

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l’amor furtivo, un piccolo pretesto
colse, e contro la patria di costei
mosse, dove il suo trono Eurito, come
disse l’araldo, possedeva; e al padre
di lei die’ morte, ed espugnò la rocca.
Ed ora giunge alla sua casa, e manda
la fanciulla, non già senza disegno,
né come schiava: a questo, oh!, non attenderti:
verisimil non è, quando egli caldo
tanto è d’amore. Ed a me parve bene
quanto io so da costui, tutto. Signora,
svelarti. E molti dei Trachinii udirono
in piazza, al par di me: sicché, negarlo
ei non potrà. Ciò ch’io dico, piacevole
non è, né me ne allegro: eppure è il vero.
DEIANIRA
Oh me tapina, in qual cimento io sono!
Qual furtivo cordoglio in casa accolsi!
Oh me misera! Oscura quella femmina
era, come giurò chi qui l’addusse?
VECCHIO
Fin troppo illustre, e di nome, e di stirpe.
Era d’Eurito figlia, almeno un tempo;
e Iole il nome suo. Ma quei la nascita
mai non ne disse, e mai non fece indagini.
CORIFEA
Alla malora i tristi! Oh, non già tutti,
ma chi furtivo e impronto il male esercita.

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DEIANIRA
Che debbo fare, amiche? Esterrefatta
per le parole or ora udite io sono.
CORIFEA
Corri, e chiedi a quell’uom: presto, se a forza
le sue risposte esigi, ei parlerà.
DEIANIRA
Stolte non son le tue parole: andrò.
CORIFEA
E noi restiamo? O che piú ci conviene?
DEIANIRA
Resta: da sé, non già da messi miei
chiamato, esce quell’uomo, e qui s’avanza.
Dalla reggia esce
LICA
Donna, che debbo dir, giungendo ad Ercole?
Dillo, ché tu pronto a partir mi vedi.
DEIANIRA
Con quanta fretta, e dopo quanto indugio,
pria di rinnovellare alcun discorso!

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LICA
Vuoi qualche cosa chiedermi? Son qui.
DEIANIRA
Fede darai che ciò che dici è il vero?
LICA
Certo, di quanto io so: Giove ne attesto.
DEIANIRA
Che donna è quella che adducesti qui?
LICA
Una d’Eubea; ma la sua stirpe ignoro.
VECCHIO
Guardami in viso: a chi credi parlare?
LICA
E tu, perché mi fai tale domanda?
VECCHIO
Fa’ cuor, se intendi, e la risposta dammi.

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LICA
Alla regina Deianira, figlia
d’Enèo, d’Ercole sposa, ove pur gli occhi
non mi facciano inganno, e mia Signora.
VECCHIO
Questo da te, questo io saper volevo:
costei, tu dici, è tua signora?
LICA
                                                       Certo,
VECCHIO
E di qual pena tu degno ti reputi,
se verso lei tu sei scoperto infido?
LICA
Infido? Come? Che discorsi annaspi?
VECCHIO
Io no: sei tu, che vai cercando ambagi.
LICA
Parto; e fui pazzo che finor t’udii.
VECCHIO
No, se pria non dichiari un piccol punto.

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LICA
Di’ pur che vuoi: la lingua non mi manca.
VECCHIO
La prigioniera che adducesti in casa...
Intendi quale?
LICA
                              Sí: perché dimandi?
VECCHIO
Quella che come ignaro or or guardavi,
Iole dunque non è, la figlia d’Èurito,
a te commessa, come pur dicevi?
LICA
A chi? Chi mai sopravverrà, per farsi
mallevadore che da me l’udí?
VECCHIO
A molti cittadini, e in mezzo all’àgora
dei Trachinii, l’udí tutta una folla.
LICA
D’averlo udito, dissi; e riferire
e affermare, non son tutta una cosa.

[p. 143 modifica]

VECCHIO
Che riferire? Non giuravi forse
che l’adducevi come sposa d’Ercole?
LICA
Sposa? Io lo dissi? — Per i Numi, di’
Signora mia, chi è questo foresto?
VECCHIO
Uno ch’era presente, e udì che presa
per brama di costei fu la città,
fu saccheggiata; e non la Lidia femmina,
ma il nuovo amore per costei la strusse.
LICA
Allontanare fa’ costui, Signora:
non è da savio, parlar con un pazzo.
DEIANIRA
No, per l’Iddio che dai selvosi picchi
signoreggia dell’Eta4, il vero a me
tu non celare. Ad una trista femmina
non parli già, che non conosca gli uomini,
e come spesso i loro gusti mutino.
Chi contro Amore insorge, al par d’un pugile,
per lottare con lui, folle è: perfino
sui Numi, Amore a suo piacere dòmina,
e su me, certo; e sovra un’altra, a me
simile, non dovrebbe? Oh, troppo folle

[p. 144 modifica]

sarei, se contro il mio sposo, colpito
da tale malattia lanciassi il biasimo,
contro costei, d’una colpa partecipe
che scorno o male non arreca a me.
Ciò non sarà; ma tu, se la menzogna
apprendesti da lui, non puoi vantarti
di tale scuola: se tu stesso a te
fosti maestro, per parere un buono,
un tristo sembrerai. Su, dimmi il vero:
ché taccia grande è per un uomo libero
esser detto bugiardo; e invano infingerti
tu tenteresti: sono troppi quelli
a cui parlasti, e tutto a me direbbero.
Se poi paventi, il tuo timore è vano:
ché solo il non saper potrebbe affliggermi.
Il sapere ti par cosa terribile?
Altre donne5 non fece Ercole già
sue spose, quante verun uomo? E niuna
di quelle, contumelia udí da me,
né malvagia parola; e neppur questa,
per quanto egli d’amor per lei si strugga;
ché io la miro, e gran pietà mi vince,
poiché la sua beltà trasse a rovina
lei, la sua patria, misera, perdé,
senza volere, e a servitú costrinse.
Ma dove spira di fortuna il vento
corran gli eventi: io dico a te che ad altri
tu mentisca, ed il vero a me confidi.
CORO
Bene ha parlato: ascoltala: di lei
dovrai lodarti; e anch’io ti sarò grata.

[p. 145 modifica]

LICA
Poiché, Signora mia diletta, vedo
che tu, mortale, hai sentimenti umani,
scevri d’insofferenza, io, senza nulla
celare, a te dirò la verità.
È tutto come costui disse: brama
di costei, furïosa, Ercole invase:
per sua cagione, presa fu, distrutta
la sua patria Ecalèa; né m’ordinò
— giacché devo di lui dire anche il bene —
ch’io lo tacessi, e mai non lo negò.
Io stesso, per timor che i miei discorsi
Il cuore tuo, regina, non crucciassero,
errai, se questo tu lo chiami errore.
Ora, però, che tutto il vero sai,
per il vantaggio suo, pel tuo del pari,
quella donna sopporta; e le parole
ch’hai testé dette, dette sian per sempre:
ché quei che con la forza ognora vinse,
dall’amor di costei fu debellato.
DEIANIRA
Ho tanto senno che a ciò far m’induca,
né da me voglio procacciarmi un male,
in lotta infesta contro i Numi. Or via,
entriamo in casa, ché i discordi miei
recar tu possa al mio signore, e i doni
onde i suoi doni ricambiar conviene.
Tu che giunto qui sei con tal corteggio,
giusto non è che torni a mani vuote.
Entrano nella reggia.

Note

  1. [p. 249 modifica]In Dodona fino dai tempi piú remoti era in grande onore il culto di Giove pelasgico, il quale dava i suoi responsi per mezzo del sussurrare di una quercia sacra, interpretato dai sacerdoti Selli; cfr. p. 183, v. 1261.
  2. [p. 249 modifica]Il popol dei Malèi, appunto perché Trachine era posta nel territorio dei Malèi, piccolo popolo della Tessaglia meridionale, sul golfo omonimo.
  3. [p. 249 modifica]Giove Cenèo era Giove onorato sul promontorio Ceneo, a N. O. dell’Eubea, in faccia al golfo dei Malèi.
  4. [p. 249 modifica]L’Iddio che dai selvosi picchi signoreggia dell’Eta è Giove.
  5. [p. 249 modifica]Altre donne; per fare il nome di alcune, ricorderemo Megara, Astydameia, Astyoche, Epicasta, Partenope ecc.