Le odi e i frammenti (Pindaro)/Le odi siciliane/Ode Pitia III

Ode Pitia III

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Pindaro - Le odi e i frammenti (518 a.C. / 438 a.C.)
Traduzione di Ettore Romagnoli (1927)
Ode Pitia III
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ODE PITIA III

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Questa ode non ha carattere d’epinicio: agli agoni c’è un brevissimo accenno al v. 80-81, e poi si parla di tutt’altro. È una poesia molto solenne e ispirata, per augurare la guarigione di Ierone malato. Non si può dire con precisione a quale epoca appartenga. Certo, dopo che Ierone aveva assunto il titolo di re: certo, ad onta delle osservazioni del Gaspar, dopo la fondazione d’Etna, poiché Ierone è chiamato ospite etneo. È inutile, al solito, accanirsi troppo, quando mancano elementi di fatto per giungere a conclusioni inoppugnabili. Certo, nella complessa armonia delle odi siciliane, questa trova il suo giusto punto nell’ultima parte. Accorata e fosca qual’è, nella ineffabile sua bellezza, sembra riflettere il tramonto, pur luminoso, di quella giornata fulgidissima e breve.

Il piano è di semplicità e purezza immacolate.

Vorrei, dice Pindaro, che vivesse tuttora il Centauro Chirone, il semidio benevolo agli uomini: egli era maestro anche di medicina, e, tra altri, educò Asclepio (v. 1-8).

Mito d’Asclepio. — Corònide, figlia di Flegias, signore di Laceria, presso la palude Bebiade, in Tessaglia, fu amata da Apollo, e concepí Asclepio. Ma prima che il pargoletto venisse a luce, s’innamorò d’Ische, figlio d’Elato, giunto dall’Arcadia in casa di suo padre; e fu sua. Apolline si trovava lontano, in Pito. Ma niente sfugge ad Apollo; e mandò a far le sue vendette la sorella Artemide. Questa si recò a Laceria, [p. 138 modifica] e saettò la fanciulla, che fu spenta con una morte il cui contagio sterminò poi molta altra gente. I genitori la posero sul rogo: ma prima che il cadavere fosse distrutto, Apollo rapì dal morto alvo materno il bambino, e lo affidò a Chirone, che lo rendesse sperto nell’arte medica. E Asclepio divenne il piú grande dei medici. Ma una volta, lusingato dal lucro, resuscitò un cadavere. Onde Giove, mal tollerando che fossero violate le leggi di natura, incenerí col fulmine lui e il resuscitato: ammonimento agli uomini che si tengano nei limiti a loro segnati(v. 9-68).

A questo punto, con effetto musicale bellissimo, Pindaro riprende il tèma iniziale. «Se fosse tuttora vivo Chirone, io lo pregherei di mandare a me o il figlio d’Apollo, Asclepio, o il figlio di Giove, Apolline stesso. Ché se io potessi giungere a Siracusa recando a Ierone la salute e l’epinicio per Ferenico, gli sembrerei piú luminoso d’un astro del cielo. Ad ogni modo, pregherò la madre Rea che ha il santuario di Tebe, vicino alla mia casa» (v. 69-87).

Consolazioni a Ierone. — Gli antichi dissero che i Numi concedono un bene vicino a due mali. I buoni badano solo al bene. Ierone ha molte felicità: abbia pazienza se la salute non l’assiste. Anche Peleo e Cadmo, che passano per i piú felici degli uomini, trascorsero la vita tra un fluttuare di beni e di mali. Sposarono due dive: quegli Tetide, questi Armonia; e furono ospitati in Olimpo. Ma Cadmo vide piombare in tragicissime sciagure tre delle sue figlie, Ino, Agave, Semele. Però quest’ultima fu amata da Giove (e tale amore fu come un risarcimento); e Peleo vide morire Achille. La sorte dei mortali è variabile (v. 87-115).

Se Pindaro avesse ricchezze, saprebbe usarle in modo da rimanere famoso. Famosi rimangono gli uomini quando son cantati da sommi poeti; ma pochi son degni dei canti dei sommi poeti (v. 116-126). — [p. 139 modifica]

Anche nei particolari, questa bellissima ode è molto chiara, e c’è poco da commentare. Al v. 38, invece di dire che Artemide uccise la fanciulla, dice che il dèmone infesto la spinse nel male. — Lucro e Saggezza sono due persone: quello avviluppa questa nei suoi lacci. Non convien credere che queste personificazioni si librassero solo alla mente di Pindaro, e non si riflettessero in quella degli ascoltatori. In una pittura vascolare, vediamo Dike, Giustizia che ha ghermito pel collo e strangola bravamente Adikia, la Ingiustizia. Al solito, una volta personificato, l’Oro fa tutto quello che fa una persona, ed è lui che offre la mercede (v. 59 sgg.).

Molti degli Italiani dovrebbero poi meditare la massima, di saggezza sempre attuale, esposta nei versi 23-25:

Poiché c’è fra gli uomini certa stoltissima razza, che schifa
le patrïe cose, e all’estranie rivolge bramoso lo sguardo,
con irrita speme sviandosi dietro fantasime vane.


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A IERONE SIGNORE DI SIRACUSA

VINCITORE COL CAVALLO DA CORSA A PITO


I


Strofe

Vorrei che di Filira il figlio,
Chirone, se può dal mio labbro tal pubblico voto levarsi,
vivesse, ei ch’è spento, il signore
possente, figliuolo di Crono: vorrei
che ancor negli anfratti del Pelio regnasse, Centauro silvestre
dal cuore benigno ai mortali. Tale era; ed un giorno educò
Asclepio, benevolo fabbro di salda salute,
eroe domatore di tutte le specie dei morbi.


Antistrofe

La figlia di Flegia l’equestre
concetto lo aveva; ma prima che Ilizia sciogliesse il suo grembo,
fiaccata dagli aureï strali
d’Artemide, scese nei regni dell’Ade,
per opra d’Apollo: ché vano lo sdegno non è dei figliuoli
di Giove. Pure, essa spregiarlo poté, per ambage di mente;
e un talamo nuovo a lei piacque, né il padre lo seppe,
a lei, che, con Febo chiomato già stretta d’amore,

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Epodo

in grembo recava del Nume purissimo un germe.
Attender non seppe il convivio
di nozze, né il vario concento degl’inni d’Imene,
cui godon le vergini amiche
levare, con molle blandizie, nel vespero;
ma il cuore sviò dietro cose remote: che a molti pur segue.
Poiché c’è fra gli uomini certa stoltissima razza, che schifa
le patrïe cose, e all’estranie rivolge bramoso lo sguardo,
con irrita speme sviandosi dietro fantasime vane.


II


Strofe

Sí grave sciagura puní
l’audace Corònide peplo leggiadro. — D’un ospite giunto
d’Arcadia essa il talamo ascese.
Né all’occhio del Nume sfuggí. Soggiornava
in Pito opulenta di vittime il Dio dagli ambigui responsi,
e n’ebbe contezza: gliel disse, ben fido ministro, il suo cuore
che tutto conosce, e menzogna nol tange, né inganno
può tendergli Nume né uomo, né in detti, né in opere.


Antistrofe

E d’Ische, del figlio d’Elàto
saputo l’adultero talamo e l’empia frode, mandò
Artèmide, ardente d’indomito
furore, a Laceria: ché qui, su le ripe
Bebíadi, aveva sua stanza la femmina. Or questa, sospinta

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nel male dal Dèmone infesto, fu spenta: e il suo morbo s’apprese
a molti vicini, e perirono. Cosí sopra un’alpe
incende gran selva la fiamma sprizzata da un germe.


Epodo

Ma poi che i parenti sul mucchio di legna deposero
la figlia, ed intorno guizzava
la vampa rapace d’Efèsto, ecco Apolline disse:
«Non mai patirò che il mio germe
soccomba pel misero destin de la madre».
Parlò; d’un sol passo lí giunse; rapí dal morto alvo il fanciullo;
e il rogo dinanzi al Signore dischiuse le fiamme. — E lo addusse,
lo diede a Chirone, al magnesio Centauro, che sperto il rendesse
i morbi a sanare che ambasciano con vario tormento i mortali.


III


Strofe

E quanti giungevano afflitti
d’ingenite piaghe, o trafitti da lucido bronzo le membra,
o dall’avventar di macigni,
o sfatti dall’alido estivo, o dal gelo,
mandava disciolti dai varî travagli, di blandi scongiuri
cingendo talun, beverato quell’altro di miti pozioni,
o tutte di farmachi succhi fasciando le membra;
ed altri rimisene in piedi con abili tagli.

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Antistrofe

Ma cade nei lacci di Lucro
finanche Saggezza; ma l’oro che in man luccicava, suase
Asclepio, con lauta mercede,
che surger facesse da morte un defunto.
Fra entrambi scagliando una folgore, il soffio dal seno il Croníde
gli tolse: e l’ardente saetta infisse su loro la morte.
Ai Superi brame discrete levare conviene,
pensando il presente ed i limiti segnati ai mortali.


Epodo

Non chiedere, o cuore diletto, la vita perenne,
ma esercita l’opra concessa.
Or dico, se il saggio Chirone tuttora abitasse
lo speco, e i miei canti di miele
in cuor gli versassero un filtro, saprei
indurlo che un medico ai buoni spedisse, a sanarli dai morbi
cocenti, spedisse il figliuolo d’Apollo, o il figliuolo di Giove.
E il pelago ionio sopra agile naviglio solcando, venuto
al fonte sarei d’Aretusa, in casa dell’ospite etnèo,


IV


Strofe

che regge, egli re, Siracusa,
benigno pei suoi cittadini, non invido ai buoni, agli estranei
amabile padre. Ché s’io
giungessi, recandogli un duplice dono,

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la cara salute, ed il canto ch’è luce pei serti di Pito
che ottenne Ferènico un giorno, vincendo nei giuochi di Cirra,
io credo che sopra gli abissi del mare profondi
a lui giungerei piú fulgente d’un astro del cielo.


Antistrofe

Bene io pregar voglio la Madre
cui presso al vestibolo della mia casa le vergini a notte
invocano, Dea veneranda,
insieme con Pane. Se bene tu intendi
il fiore dei detti, o Ierone, appreso hai tu ciò dagli antichi:
due mali vicino ad un bene partiscono i Superi agli uomini.
E questo non sanno gli stolidi in pace soffrire;
ma il soffrono i buoni; e in rilievo sol pongono il bene.


Epodo

Un fato di beatitudine te segue. Tu sire,
tu duce. Su te pose il guardo
se mai sovra alcun dei mortali, sublime destino.
Ma incolume vita non ebbe
né d’Èaco il figlio, né Cadmo divino,
che pure sortirono, dicesi, fra gli uomini eccelsa fortuna.
Ché quando sposarono, un d’essi la diva occhiazzurra Armonia,
e Tètide l’altro, la figlia di Nèreo saggissimo, udirono
a Tebe e su l’Ida cantare le Muse dagli aurei serti,

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V


Strofe

e i Numi ospitarono a mensa,
e videro i regi, figliuoli di Crono, negli aurei troni,
e n’ebbero doni; e per grazia
di Giove, mutati gli antichi travagli,
il cuore tornarono in pace. E poi, nuovo tempo trascorso,
a Cadmo rapiron tre figlie, piombate in orrende sciagure,
gran parte del viver beato — ma Giove nel letto
amabile ascese di Sèmele dall’omero bianco;


Antistrofe

e il figlio dell’altro, che in Ftia
a luce diede unico Tètide, trafitto dagli archi in battaglia,
lo spirto esalato, sfacendosi
sul rogo, alto l’ululo dei Dànai eccitò.
Se alcuno ricetta nell’animo del vero la via, quando i Dèmoni
gli porgono un bene, lo gode. Or qua, or là spirano gli aliti
dei venti precipiti. A lungo non dura fortuna
per gli uomini, quando soverchia sovra essi s’abbatte.


Epodo

Sarò negli eventi modesti modesto: solenne
sarò nei solenni, onorando
il Nume che il sen mi precinge con l’arte ch’io so.
Se un Dio mi largisse gran beni,
trovare alta gloria saprei pel futuro.
Le gesta del Licio Sarpèdone, le gesta di Nestore, eroi
famosi fra gli uomini, note ci sono pei carmi sonori
che artefici sommi composero. A lungo prodezza fiorisce
nei celebri canti; ma pochi di celebri canti son degni.