Le odi e i frammenti (Pindaro)/Odi per Opunte, Corinto, Rodi/Ode Olimpia VII
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ODE OLIMPIA VII
In un tempo remotissimo, i Numi si divisero la terra. Ma alla divisione non si trovò presente il Sole, dio della luce; e cosí rimase privo della sua parte. Ne mosse lagno al re dei Numi, a Giove; che si dimostrò disposto a ripeter la prova. Ma il Sole, figgendo la pupilla in fondo all’Oceano, vide che dai salmastri abissi marini si levava lentamente una terra ricca di biade e di greggi. Chiese quella; e Lachesi, dea del destino, d’accordo con Giove, glie la concesse. L’isola sbocciò dalle acque come un fiore. E súbito v’ebbe dimora una Ninfa marina, Rodi, la Rosa, figlia del mare e del Sole. E da questa ebbe poi nome la terra che fu sempre ricca di fiori.
Il Sole amò Rodi, e n’ebbe sette figliuoli; e il primo di essi generò a sua volta tre fanciulli, Ialiso, Camiro, e Lindo, che divisero in tre la terra, e fondarono tre rocche, che presero nome da loro, e furono poi sempre le tre città principali dell’isola.
L’Olimpo si arricchiva intanto di una nuova divinità. Dal cranio di Giove, fenduto dalla scure d’Efesto, balzava Atena. E il Sole, sapendo che essa sarebbe stata protettrice delle arti e d’ogni opera d’ingegno, esortò i suoi figliuoli rodiesi ad innalzare essi primi un altare alla diva. E i Rodiesi ubbidirono. Ma dimenticarono di portare il fuoco: onde compierono sacrifici, ma non poterono ardere vittime. Ad ogni modo, il padre Giove fu sensibile a quest’omaggio; e, addensata una nuvola gialla, fece piovere sull’isola oro a profusione. E, per grazia d’Atena, i Rodiesi eccelsero nelle arti fra tutti gli uomini; e le loro vie si popolarono di statue simili alle creature semoventi.
Cosí vivevano gl’indigeni di Rodi, i generati dalla Ninfa e dal Sole, quando la loro terra fu invasa da genti elleniche.
Nell’Argolide, in Tirinto, regnava Tlepolemo figliuolo d’Eracle — quindi discendente in linea retta da Giove — e d’Astidamia, figlia di Amintore, re dei Dolopi in Tessaglia. Un giorno, salito in ira, Tlepolemo uccise con un colpo di mazza lo zio Licimnio. Si recò allora a consultare l’oracolo di Delfi, come potesse purgarsi dall’omicidio. E Apollo gli rispose che salpasse subito dalle spiagge di Lerna, e si recasse al «pascolo cinto dal mare, dove una volta il re dei Numi aveva inondata la città coi fiocchi d’un’aurea neve». L’oracolo era ben chiaro. Rodi. E a Rodi mosse Tlepolemo; e cosí incominciò nell’isola la dominazione argiva. E ad espiazione della sciagura toccata a Tlepolemo furono istituiti nell’isola sacrifici solenni e gare agonali.
È assai facile vedere come ciascuno di questi miti adombri un fatto. E il primo di essi è in verità sorprendente.
Rodi deve la sua origine a un gran sollevamento calcareo onde emersero dall’oceano la Grecia, l’Egeo, l’Asia Minore, e tutta la penisola balcanica fino al Carso. «Il tempo occorso alle alghe ed agli animali marini per ammassare, coi loro avanzi, quelle pile calcaree di migliaia dì metri di spessore, non si conta piú per decine e centinaia di migliaia, ma per decine e centinaia di milioni di anni. Ed un altro lasso enorme di tempo fu necessario, perché le forze isostatiche della crosta planetaria durante l’era terziaria premessero quelle stratificate ingenti pile calcaree, le spezzassero, le sollevassero e le balzassero fuori dai gorghi del mare in grembo all’atmosfera»1.
Mirabile è dunque lo spirito intuitivo del mito narrato da Pindaro. Probabilmente, la presenza di animaletti marini nelle rocce calcaree dové dar l’idea che una volta Rodi fosse nel fondo del mare. E di qui la leggenda. Comunque, per la tempra del genio di Pindaro è interessante osservare come fra tanta varietà di miti, egli abbia scelto come punto centrale di tutto l’epicinio, appunto la pittura di questa origine meravigliosa. Pindaro prediligeva tali mirabili giuochi di forze elementari. E specialmente sembra lo seducesse questa visione di terre emergenti dal fondo degli abissi, attraverso glauche penombre d’acque marine. Ecco infatti, come, in un prosodio, figurava il miracolo di Delo errabonda, che si ferma perché Latona possa sgravarsi dei figliuoli divini, Apollo ed Artemide (Frammenti 87-88 Christ).
Strofe
Salute o fiorito per opra dei Numi
rampollo, carissimo ai figli di Lato dai morbidi riccioli,
o immobil prodigio dell’ampïa terra, figliuola del pelago,
cui gli uomini chiamano Delo,
e i numi d’Olimpia
astro lontano raggiante della cerulea terra.
. . . . . . . . .
Antistrofe
. . . . . . . . .
Prima dei flutti ludibrïo fu, dei molteplici cozzi
dei venti; ma quando la figlia di Coio
ne l’ultime doglie furente vi giunse,
quattro colonne diritte
dalle radici terrestri
sopra adamàntini plinti,
si scagliarono, e sui capitelli
la roccia sostennero. E quivi,
sgravata, mirò la beata sua prole.
Qui come nella nascita di Rodi, la fantasia del poeta è dominata dall’immagine della pianta che cresce. I pilastri di Delo sorgono dalle radici terrestri, son dunque gambi, e Delo la infiorescenza. Rodi sboccia a sommo del pelago. È dunque un fiore. E Rodi vuol dire la rosa. Questa immagine si libra ancora alla fantasia. Dice infatti che i vertici delle sue parole, caduti nella verità, ebbero compimento. I vertici delle parole sono dunque il sommo della pianta, il fiore col ricettacolo ed il seme. La verità è il terriccio. È utile osservare, perché caratteristico della poesia pindarica, questo permanere della immagine nella fantasia, come permane, nella retina, anche quando è scomparso, l’oggetto che la impressionava.
Parallelo a questo, o meglio, ampliata forma di questo, è l’altro mito, anche ricordato da Pindaro, che fa Rodi figlia d’Afrodite e del Sole. Afrodite è simbolo del mare. E l’isola, emersa dal mare, fu poi dal Sole resa feconda di biade e di greggi. La serenità del cielo di Rodi era famosa fra gli antichi. Un proverbio greco diceva che il sole ci brillava tutti i giorni. Il mito, in origine fisico, fu poi umanizzato. Il Sole era un Dèmone. Rodi una ninfa. E il Sole l’aveva non solo generata dal mare, ma fecondata. Del resto, qui come altrove, Pindaro, dicendo Rodi, intende insieme l’isola e la Ninfa eponima, indissolubilmente congiunte dal mito.
I miti seguenti adombrano le sorti dei primi abitanti e del primo incivilimento di Rodi. Alla versione pindarica, che fa Elíadi, figli del Sole, i primi isolani, è parallela l’altra, anche piú comune, che fossero invece Telchini, figli del mare e di Posidone. La divergenza importa poco. Questi Telchini erano artefici, espertissimi lavoratori del ferro e del bronzo, o addirittura maghi. Appunto come gli Eliadi, ai quali, come dice Pindaro, Atena
concesse in ogni arte fra gli uomini eccellere con abili mani;
e statue simili agli esseri ch’àn moto portaron le vie:
onde alta s’effuse lor gloria: l’artefice saggio, ben grandi
miracoli fa, senza frode.
Telchini ed Eliadi sono due nomi nei quali il mito serbò memoria dell’antica civiltà che ora diciamo minoica, e che ebbe certo fulgore e forse tempra speciale in Rodi, uno dei ponti fra l’Asia e la Grecia, e forse, al pari di Creta, crogiuolo ove si incontrarono ed amalgamarono elementi disparati d’arte e di pensiero. Il fulgore artistico è simboleggiato dalla leggenda delle statue semoventi: la floridità industriale e commerciale dalla nevicata d’oro che Giove fa piovere sull’isola.
Rimane da spiegare il particolare della dimenticanza del fuoco. Io credo alluda a un periodo artistico in cui non era ancora nota la fusione dei metalli, e si lavorava a sbalzo. A sbalzo sono infatti le meravigliose coppe d’oro, che tutti oramai conoscono, del periodo minoico; e tutte le loro commessure aggiustate senza fusione.
Ed eccoci alla migrazione dorica, a questa misteriosa spinta di popoli del Settentrione, che a poco a poco spazza via dal suolo d’Ellade gli antichi abitatori, e li costringe a rifugiarsi nelle isole, sulle coste dell’Asia Minore, nella Libia. La leggenda improntò di uno stampo quasi unico le varie migrazioni. Il capo della tribú si reca per una qualsiasi ragione a consultare l’oracolo: l’oracolo gli dice che abbandoni le terre avite e ne cerchi nuove, adombrate con qualche misterioso enigma. Cosí, e l’abbiamo visto, in questa ode pindarica.
Chiariti questi punti, mi sembra che la nostra ode, scritta per il rodiese Diagora, figlio di Damageto, e discendente dagli Amintoridi, non offra difficoltà (v. 18). Lo sprone dell’Asia è la penisola Cnidia, che si protende da settentrione su Rodi. L’arte di Promèteo (v. 44), è la previdenza, con allusione alla etimologia del nome Promèteo. Sul significato dell’«esplicare l’antica leggenda di Tlepolemo» (v. 23 sg.), si può discutere. Ma a me sembra chiaro. Pindaro dice subito che nessuno può prevedere quali fatti rechino agli uomini piú prosperi eventi. Tlepolemo uccise Licimnio. Ma se non l’avesse ucciso, non avrebbe esulato a Rodi, né sarebbe ascesa cosí alta la gloria degli Amintoridi.
La Olimpia VII, secondo uno storico antico, fu incisa in lettere d’oro sulle pareti del tempio di Atena Lindia.
A DIAGORA DA RODI
VINCITORE NEL PUGILATO IN OLIMPIA
I
Strofe
Come l’uomo che un calice d’oro, prezioso cimelio
di quante ricchezze ei possiede,
in cui la rugiada
dei grappoli bulica, leva con prodiga mano, e lo dona
al genero suo giovinetto, libando da un tetto a un tetto, e onora simposio e parente,
e segno d’invidia fra i giovani lui fa, per le nozze concordi:
Antistrofe
cosí io, di mio spirito il frutto soave stillando,
gli eroi che in Olimpia ed in Pito
vincevan le gare,
col nettare vo’ delle Muse propizi a me render. — Beato
chi cinto è di nobile fama. La Grazia che infiora la vita, or questo protegge, ora quello,
con note soavi di cétere, di flauti con vario sospiro.
Epodo
Ed ora con flauti e con cétere, cantando Dïàgora, io giunsi
a Rodi, alla Ninfa marina, di Cípride figlia e del Sole;
e l’uomo possente ed audace sublimo, che presso l’Alfèo,
che presso la fonte Castalia,
vincendo la pugile gara, di serto fu cinto; e suo padre Damàgeto, caro a Giustizia.
Essi hanno dimora, con gli uomini d’Argo, vicino allo sprone
dell’Asia infinita, nell’isola cui fanno tre rocche famosa.
II
Strofe
Menan vanto ch’è Giove lor ceppo paterno: ché sono
gagliarda progenie d’Alcide:
ad Astidamía
loro ava, fu Amíntore padre. — Ora io, dai primi evi movendo,
a voi di Tlepòlemo voglio l’antica leggenda esplicare. Degli uomini attorno a le menti
si appendono errori infiniti, né alcuno può mai prevedere
Antistrofe
quali fatti maturin per l’uomo piú prospera sorte.
Un giorno, in Tirinto, il signore
che venne a quest’isola,
salito in furore, vibrò lo scettro di duro oleastro,
e uccise Licimnio, bastardo fratello d’Alcmena, nel talamo nato di Midia: ché l’ira
sconvolge anche ai savî la mente. E al Nume un oracolo chiese.
Epodo
E il Dio chioma d’oro, dagli aditi fragranti del tempio, gl’impose
salpare dai lidi di Lerna a un pascolo cinto dal mare,
là dove il gran re dei Celesti un tempo la rocca innondava
coi fiocchi d’un’aurea neve,
quel dí che per l’arte d’Efèsto, pel cozzo di bronzea scure, dal sommo cerèbro del padre,
Atena balzò fuor, cacciando un urlo acutissimo, immane,
e tutta la terra ed il cielo un orrido brivido corse.
III
Strofe
Il figliuol d’Iperíone, il Dèmone datore di luce,
pensando al futuro vantaggio,
ai figli diletti
impose che primi alla Diva levassero un’ara fulgente,
e, offertivi sacri libami, molcessero al padre e alla figlia che in guerre dilettasi, il cuore:
ché agli uomini reca salute saper di Promèteo l’arte.
Antistrofe
Ma una nube imprevista d’oblio su loro si stese;
e lunge dal giusto sentiero
sviò le lor menti.
Asceser l’Acròpoli privi del germe divin della fiamma,
e il tempio sacraron senz’ardere vittime. Il padre, addensando su loro una nuvola gialla,
molto oro fe’ piovere. E ad essi la Diva che glauche ha le ciglia
Epodo
concesse in ogni arte fra gli uomini ecceller con abili mani:
e statue simili agli esseri ch’àn moto portavan le vie;
onde alta s’effuse lor gloria: l’artefice saggio, ben grandi
miracoli fa, senza frode. —
Le antiche leggende degli uomini raccontan che un dí si divisero Giove e i Celesti la terra;
che ancora fra i gorghi marini non era visibile Rodi,
ma l’isola giú negli abissi salmastri nascosta giaceva;
IV
Strofe
e che il Sole non c’era; e niun trasse per lui la sua sorte.
Cosí lo lasciarono senza
retaggio di terra,
il Dèmone puro. Egli a Giove lo disse; e a ripeter la prova
già quegli era pronto. Ma il Sole non volle. Dal fondo del mare, fra spume, vedeva, egli disse,
levarsi una terra ferace di biade, ridente di greggi.
Antistrofe
E Lachèsi dall’aurëo velo pregò che le palme
su alto levasse, e giurasse
di non vïolare
il gran giuramento dei Numi, ma insieme assentisse col figlio
di Crono, che l’isola, a luce venuta, perenne retaggio suo fosse. — Caduti nel vero,
quei voti fiorirono. E l’isola dall’umido gorgo sbocciò.
Epodo
Ed or sua la tiene il Signore che genera i raggi corruschi,
che guida i cavalli dal fiato di fiamma. E qui un giorno s’uní
con Rodi; e ne nacquero sette figliuoli, le menti piú sagge
che fosser fra gli uomini prischi.
E un d’essi fu padre a Ialíso, che primo gli nacque, e a Camíro, e a Lindo. E divisero il regno.
La terra paterna in tre parti divisero; ognuno una rocca
si tenne; ed ancor dai lor nomi le sedi derivano il nome.
V
Strofe
A espiar la fatale sciagura, pel re dei Tirinzi
Tlepòlemo, un dolce compenso,
come uso è pei Numi,
è qui stabilito: un corpo che fumiga d’ostie, e un giudizio
d’agoni; i cui fiori tre volte Diàgora cinse alle chiome; e quattro nell’Istmo famoso;
e l’una su l’altra a Nemea, e sovra le rocce d’Atene.
Antistrofe
Bene pure il conobbero i bronzi che foggiansi in Argo,
e l’opre d’Arcadia e di Tebe,
le gare beote.
Pellène ed Egina: qui vinse sei volte; né dicon diverso
Megara e gl’incisi suoi marmi. — Su’, Giove, signore che reggi le balze del monte Atabirio,
onora la legge dell’inno che onora chi vinse in Olimpia,
Epodo
e l’uom che nel pugile gioco trovò la sua gloria. Concedi
che grazie fra i suoi conterranei, che grazie riscuota fra gli ospiti.
Ché egli per vie s’incammina nemiche a superbia; e ben nota
è a lui la saggezza dei padri.
Di Callianàtte la stirpe comune celar non ti piaccia. Se feste in onor degli Eràtidi
si fanno, di feste sonora è pur la città. Ma in un punto
del tempo, per tramiti vari si sfrenan le Furie del vento.
- ↑ Cosí Giuseppe de Lorenzo a proposito dell'analoga formazione di Capri, nel suo libro La terra e l'uomo, pag. 233.