Le odi e i frammenti (Pindaro)/Odi per Tebe/Ode Istmia III-IV

Ode Istmia III-IV

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Pindaro - Le odi e i frammenti (518 a.C. / 438 a.C.)
Traduzione di Ettore Romagnoli (1927)
Ode Istmia III-IV
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ODE ISTMIA III-IV

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Nel piú antico codice vaticano la prima triade di questa ode è data come una composizione a sé, e le altre quattro pure come un’ode separata. La simiglianza del contenuto tra le presenti odi è evidente; e molto si è discusso pro e contro l’unione. Ma l’identità del metro basta da sola a dimostrare l’unità.

È composta per Melisso, figlio di Telesíade e discendente di Cleònimo, imparentato a sua volta coi Labdàcidi. La battaglia in cui caddero quattro dei Cleonimidi sarà quella di Platea: sicché l’ode andrà collocata dopo il 479 — non súbito dopo, ma quando Tebe s’era un po’ sollevata dall’onta e dal danno patito per aver combattuto a fianco dei nemici della patria. Il Gaspar la pone nel 475.

Un po’ massiccia e confusa a prima impressione, la composizione diventa invece assai chiara se si distinguono bene i blocchi di pensiero.

— Chi per qualsiasi ragione è in auge, se non monta in superbia, merita l’elogio dei concittadini. Il bene lo dà Giove; e Fortuna, sebbene incostante, si trattiene però a lungo presso i buoni (1-7).

Ai prodi convengono gl’inni. Melisso ha vinto ora due gare, alla corsa e al pancrazio. Anche Cleonimo, capostipite della sua famiglia, era famoso pei cocchi: e sempre la loro stirpe si piacque di allevar corsieri, profondendovi le ricchezze [p. 8 modifica] ereditate dagli avi materni, discendenti di Labdaco: tragica famiglia: onde anche i Cleonimidi ebbero le loro sciagure; ma da sciagure non vanno immuni che i figli dei Celesti (8-22).

Melisso con le sue vittorie ha dischiusa a Pindaro un’ampia via di canti. I Cleonimidi son sempre in fiore; ed erano onorati in Tebe già dai tempi remotissimi: chiari in ogni bella impresa, e massime in allevar corsieri. In una sola battaglia ne caddero ben quattro. Ma ora la casa rifiorisce: Posidone ha concessa loro la vittoria su l’Istmo; onde il canto di Pindaro. E già prima, alle gare d’Atene, e in Sicione, e in Olimpia, avevano raccolto il frutto dei loro dispendi (22-57).

Chi non si cimenta, nessuno lo conosce. Ma pure chi si cimenta, per essere conosciuto deve riuscir proprio bene; perché la fortuna muta, e perché spesso i da meno vincono con l’intrigo i migliori. Ne abbiamo la prova in Aiace, che fu vinto da Ulisse con la frode. Omero restaurò poi la sua fama; e il canto dei poeti è un raggio che non si spenge (57-73).

Mi concedano le Muse che accenda anch’io una tal fiaccola per Melisso. È un leone per bravura, e per furberia una volpe. Ché anche alla furberia dovè ricorrere, essendo piccolo di statura. Ma piccolo era anche Eracle, che pure ammazzò Anteo, e ghirlandò il tempio di Posidone con le teste dei nemici. E adesso gode la vita beata in Olimpo (73-95).

E i Tebani onorano con un banchetto e con fuochi ardenti tutta la notte lui e gli otto figliuoli ch’ebbe da Megara, nel secondo giorno degli agoni patri. Ed anche in questi agoni Melisso aveva conseguite due vittorie; ed una da giovinetto, quando seguiva gli ammaestramenti dell’alipte Orsea.

L’ode è molto accurata e ricca di particolari pittoreschi (40-44; 49-51; 78-79). Notevole è la evidente e mantenuta personificazione della Fama che dorme, e Posidone la ridesta, ed ella sorge; e l’altra, vivissima, della fiamma che calcitra contro il pingue fumo. Colore e freschezza aggiungono le [p. 9 modifica] due immagini, appena accennate, della terra che a primavera si vela di rose purpuree, di Vespero che brilla prima, bellissima fra tutte le altre stelle.

Noterò infine l’atteggiamento lirico del verso 92, che torna altre volte in Pindaro, e che fu imitato dal Foscolo nei Sepolcri:

Con questi grandi abita eterno.

La mia versione non intensifica la somiglianza: ecco il testo (76):

νῦν δὲ παρ' Αἰγιόχῳ xάλλιστον ὄλβον
ἀμφέπων ναίει, τετίματαί τε πρὸς άΘανάτων φίλος.

Come gli Eacidi in Egina, cosí era doveroso in Tebe ricordare Eracle. E se non molto estesa, mirabile è la figurazione che qui traccia Pindaro dell’eroe prediletto.

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PER MELISSO DI TEBE

VINCITORE COI CAVALLI E NEL PANCRAZIO SULL’ ISTMO


I


Strofe

L’uomo cui ride propizia la sorte, o per fama d’agoni
o per potenza e ricchezza, se porre sa freno a Superbia
fastidïosa, è ben degno che trovisi misto agli elogi
de la città. Da te, Giove, provengono agli uomini
l’alte virtudi; e Fortuna piú a lungo dimora fra i pii;
ché gli animi obliqui
non sempre accompagna con fiore perenne.


Antistrofe

Inni che premino l’opere famose convengono al prode:
sopra le Càriti amabili conviene che il prode s’estolla.
Ed a Melisso or sorrise d’agoni una duplice sorte;
onde a letizia gioconda può volgere il cuore:
poi che gli anfratti dell’Istmo lui cinser di serti, e la concava
vallea del lione
dal petto gagliardo: sí ch’egli bandí,

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Epodo

vincendo nel corso, la gloria di Tebe; né l’insita
virtú di sua gente
bruttò. Noto pure è qual fama
pei carri già s’ebbe Cleònimo.
Poi ch’essi, degli avi materni labdàcidi avuti in retaggio
i beni, a cuore ebbero i cocchi.
Il tempo, ora questo, or quel cangia, volgendosi i giorni; ed illesi
non restan che i figli dei Numi.


II


Strofe

Strade infinite a me s’aprono dinanzi, mercè dei Celesti:
ché negli agoni dell’Istmo trovar tu sapesti, Melisso,
facile modo che l’inno prosegua le vostre virtú:
sempre dà fior di Cleònimo la stirpe; ed al Nume
cara, sul tramite muove del viver mortale: ché vario
soffiare di venti
su gli uomini tutti si lancia, e gl’incalza.


Antistrofe

Dicono ch’ebbero in Tebe, dagli avi antichissimi, onore:
ospiti grati ai finitimi, alieni dal vano clamore
di tracotanza. E di quante s’effondon tra gli uomini chiare
testimonianze di gloria di vivi e di spenti,

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immensurabili, attinsero d’ognuna la mèta; e in prodezza,
da Tebe movendo,
toccaron d’Alcide l’estreme colonne,


Epodo

di là dalle quali sospingere non puoi tua virtú.
Corsieri allevarono,
e piacquero al bronzëo Marte.
Poi, solo in un giorno, ben dura
procella di guerra vuotò la casa beata di quattro
suoi figli. Ma or, dissipata
la bruma del verno e la tènebra, di nuovo dà fiori, sí come
la terra purpuree rose.


III


Strofe

Grazia è dei Superi. E il Nume che scuote la terra, ed Onchèsto
abita, e il ponte del pelago, dinanzi a le mura corinzie,
questo mirabile canto largendo a sua stirpe, riscuote
su dal giaciglio l’antica lor fama d’egregi
fatti. Ella in sonno giaceva. Ma or, sua sembianza, ridesta
rifulge sí come
bellissima Vespero fra tutte le stelle.


Antistrofe

Essa, nei solchi d’Atene, dei cocchi annunziando il trionfo,
ed in Sicione, nei giuochi d’Adrasto, largí tali frondi,

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grazie ai poeti che allora quivi eran presenti. Né astennero
dalle comune tenzoni la curva quadriga;
ma ne l’agon panellènico, di quanto in corsieri largirono
raccolsero il frutto.
È ignoto il silenzio di chi non si prova;


Epodo

ma ignota è pur anche fortuna di chi si cimenta,
se prima la mèta suprema
non tocca; ché il bene s’alterna
col male; ché l’arti del debole
soverchiano spesso il piú forte. V’è nota la furia cruenta
d’Aiace, che a notte profonda,
trafittosi sopra la spada, raccolse da tutti gli Ellèni
che a Troia convennero, biasimo.


IV


Strofe

Ma lo coperse d’onore fra gli uomini Omero, che tutte,
a ristorare sua fama, narrò sue prodezze nei numeri,
nelle divine parole che i posteri godon cantare.
E van perpetui degli uomini sui labbri gli egregi
detti d’un vate; e sovressa la terra feconda e nel pelago
un raggio s’effonde,
che mai non s’offusca, da l’opere belle.

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Antistrofe

Deh! Sian le Muse benevole a noi, ché tal face di canto
ardere pure a Melisso possiam, di Telèside al figlio,
degna corona al pancrazio. Ché simile egli è ne l’ardire
e nel travaglio, ai rugghianti selvaggi leoni;
e per prudenza a la volpe, che, tutta supina, dell’aquila
la romba sostiene.
È lecita ogni arte, se strugge il nemico:


Epodo

ché non d’Orïone possiede le membra: a vederlo
lo avresti a dispetto;
ma duro, se in zuffa si mesce.
Un giorno, alla casa d’Antèo
un uomo da Tebe cadmèa giungeva, di piccole membra,
ma d’animo indomito: in Libia
giungea, per pugnare ed abbattere Antèo, che a Posídone il tempio
copriva coi cranî degli ospiti.


V


Strofe

Era figliuolo d’Alcmèna. E ascese l’Olimpo, quand’ebbe
ogni recesso esplorato di tutta la terra, e del candido
mare scoglioso, ed agevole resa ai nocchieri la rotta.
Or, presso il Sire de l’ègida soggiorna; e si gode

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felicità soavissima. È caro, è onorato dai Superi;
è d’Ebe consorte;
è genero d’Era, nell’aurëe case.


Antistrofe

E noi Tebani, dinanzi le porte elettrèe l’onoriamo
con un convivio; e di fiori cingiamo gli altari, bruciamo
vittime, a onore degli otto suoi figli dall’armi di bronzo,
che di Creonte la figlia, Megara, gli die’.
Vibra per essi all’occaso di raggi la fiamma che brilla
per tutta la notte;
e calcitra al fumo che pingue vapora.


Epodo

E termine è il giorno secondo dei giuochi annuali,
cimento di forza.
E qui, biancheggiante la fronte
dei rami di mirto, Melisso
riscosse una doppia vittoria; e un’altra già pria, tra i fanciulli
ne ottenne, ossequente ai consigli
del suo ben esperto pilota. Onde ora, stillando la grazia,
io lui con Orsèa canterò.