Le Mille ed una Notti/Storia del quinto fratello del barbiere
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Traduzione dall'arabo di Antoine Galland, Eugène Destains, Antonio Francesco Falconetti (1852)
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STORIA
DEL QUINTO FRATELLO DEL BARBIERE.
«Alnaschar, finchè visse nostro padre, fu assai infingardo. Invece di lavorare per guadagnarsi il vitto, non si vergognava di accattarlo la sera, e vivere all’indomani dell’elemosine raccolte. Morto infine nostro padre di vecchiaia, ci lasciò in tutto settecento dramme d’argento. Ce le dividemmo egualmente, di modo che ognuno ebbe cento dramme di sua parte. Alnaschar, il quale non aveva mai posseduto tanto denaro in una volta, si trovò imbarazzatissimo dell’uso che far ne dovea, e consultatosi a lungo fra sè, si determinò finalmente d’impiegarlo in bicchieri, bottiglie ed altri oggetti di vetro, che andò a comperare da un mercante all’ingrosso; posto il tutto in una cesta di vimini, scelse quindi una botteguccia, ove sedette col paniere davanti, e la schiena appoggiata al muro, aspettando gli avventori. In quell’attitudine, e cogli occhi fissi sul suo paniere, si mise a fantasticare, e nelle sue fantasticherie pronunciò le parole seguenti a voce abbastanza alta da essere udito da un sartore che aveva per vicino: — Questo paniere,» diceva, «mi costa cento dramme; ed è quanto posseggo al mondo; vendendone il contenuto, ne ricaverò duecento, e con dugento dramme, che impiegherò anch’esse in vetri, ne formerò quattrocento. Così, ammesserò col tempo quattromila dramme, e dalle quattromila facilmente andrò fino ad otto. Quando ne avrò diecimila, lascerò subito i vetri per fare il gioielliere, e commercerò di perle, di diamanti e di ogni sorta di gemme. Possedendo allora ricchezze a iosa, comprerò una bella casa, molte terre, schiavi, eunuchi, cavalli; farò buona tavola e rumore nel mondo; chiamando in casa mia quanti sono nella città suonatori, ballerini e ballerine. Nè qui vorrò fermarmi, ed ammucchierò, la Dio mercè, fino a centomila dramme. Allorchè sarò ricco di centomila dramme; mi stimerò quanto un principe; manderò a chiedere in consorte la figlia del gran visir; facendo dire a quel ministro di aver udito meraviglie della bellezza, della saviezza, dello spirito e di tutte le altre doti della sua figliuola, e promettendogli mille pezze d’oro per la prima notte delle nostre nozze. Se poi il visir fosse tanto incivile da ricusarmi sua figliuola; cosa che non può succedere, andrò a rapirla alla sua barba, e me la condurrò a casa suo malgrado. Sposata che avrò la figlia del gran visir, le comprerò dieci eunuchi negri, de’ più giovani e ben fatti; mi vestirò come un principe, e salito sur un superbo destriero colla sella d’oro fino e gualdrappa d’oro ricamata di diamanti e perle, andrò per la città, accompagnato davanti e didietro da molti schiavi, e mi recherò al palazzo del gran visir, alla presenza di grandi e piccioli, che mi faranno tutti profonde riverenze. Smontato appiè della scala del gran visir, ascenderò in mezzo alla mia gente disposta in due file a destra ed a sinistra; ed il gran visir, ricevendomi qual genero, mi cederà il suo posto, e si metterà al di sotto per farmi maggior onore. Se ciò avviene, come spero, due de’ miei servi avranno ciascuno in mano una borsa di mille pezze d’oro, che avrò lor ordinato di portare; io ne prenderò una, e presentandogliela: — Ecco,» gli dirò; «le mille pezze d’oro da me promesse per la prima notte delle mie nozze;» e presentandogli l’altra: «Prendete,» soggiunserò, «ve ne dono altrettante per dimostrarvi che sono uomo di parola, e che do più di quanto prometto.» Dopo una simile azione, non si parlerà più nel mondo che della mia generosità. Tornerò a casa colla medesima pompa, e mia moglie manderà qualche ufficiale per complimentarmi, da parte sua, sulla visita da me fatta al visir suo padre; io onorerò l’ufficiale d’un bell’abito, e lo rimanderò con un magnifico regalo. Se volesse mandarmene anch'ella, non l’accetterò, e congederò il portatore. Non permetterò ch’ella esca per qualunque motivo dal suo appartamento, se non ne sia prima avvertito; e quando io vorrò entrarvi, lo farò in maniera d’incuterle rispetto per me. In somma, non ci sarà casa meglio ordinata della mia; io starò sempre magnificamente vestito. Quando mi ritirerò con lei la sera, siederò al posto d’onore, dove affetterò un’aria grave, senza volgere il capo a destra nè a sinistra. Parlerò poco, e mentre mia moglie, bella come la luna piena, starà in piedi a me davanti, io fingerò di non vederla; allora le sue donne, che le staranno intorno, mi diranno: — Nostro caro signore e padrone, ecco la vostra sposa, la vostra umile serva a voi davanti; essa attende che l’accarezziate ed è mortificatissima perchè non vi degniate nemmeno di guardarla; è stanca di stare da tanto tempo in piedi: ditele almeno di sedere.» Io non risponderò nulla, aumentandone così la sorpresa ed il dolore; si getteranno esse a’ miei piedi, e quando vi saranno rimaste assai tempo a supplicarmi che mi lasci piegare, io alzerò finalmente la testa, volgerò su lei uno sguardo distratto, poi mi rimetterò nel primiero atteggiamento. Nell’idea che concepiranno che mia moglie non sia abbastanza ben vestita, la ricondurranno nel suo gabinetto, per farle cangiar abito; ed io, frattanto, mi alzerò, e da parte mia indosserò un abito più sfarzoso di quello di prima. Torneranno le donne alla carica una seconda volta; mi terranno i medesimi discorsi, ed io mi darò il piacere di non guardar mia moglie se non dopo essermi lasciato pregare e sollecitare con tante istanze e sì a lungo come la prima volta. Comincerò, fin dal primo giorno delle nozze, ad insegnarle in qual modo intendo contenermi con lei pel resto della sua vita....»
Scheherazade tacque a queste parole, vedendo albeggiare. Ripigliata quindi all’indomani la continuazione del suo discorso, disse al sultano delle Indie:
NOTTE CLXXVII
— Sire, il barbiere ciarlone proseguì di tal modo la storia del suo quinto fratello:
«— Dopo le cerimonie delle nozze,» continuò Alnaschar, «prenderò dalle mani d’uno de’ miei servi, che mi sarà vicino, una borsa di cinquecento pezze d’oro che darò alle acconciatrici, affinchè mi lascino solo colla sposa; quando se ne saranno andate, essa si coricherà per la prima. Mi coricherò poi a lei vicino, volgendole la schiena, e passerò la notte senza dirle una sola parola. All’indomani, non mancherà ella di lagnarsi a sua madre, moglie del gran visir, de’ miei disprezzi e del mio orgoglio, ed io ne’ gongolerò di gioia; sua madre verrà allora a trovarmi e mi bacerà, con rispetto la mano, dicendo: — Signore (perchè non oserà chiamarmi genero, per paura di spiacermi parlando con tanta famigliarità), vi supplico di non isdegnare di guardar mia figlia ed avvicinarvi a lei; vi assicuro ch’essa non cerca se non di piacervi, e che vi ama con tutta l’anima.» Ma mia suocera avrà bel parlare: io non le risponderò sillaba, e starò fermo nella mia gravità. Allora la donna si genera a’ miei piedi, me li bacerà più volte, e dirà: — Signore, sarebbe mai possibile che dubitaste della saggezza di mia figlia? Vi assicuro che l’ho sempre tenuta sotto i miei occhi, e che voi siete il primo che l’abbia veduta in viso. Cessate dal cagionarle sì grande mortificazione; fatele la grazia di guardarla, di parlarle, e rinvigorirla così, nella di lei buona intenzione di soddisfarvi in ogni cosa.» Tali parole non mi smoveranno; ciò vedendo, la suocera prenderà un bicchier di vino, e mettendolo in mano alla sua figlia, mia consorte: — Andate,» le dirà, «presentategli voi stessa questo bicchier di vino, forse non avrà la crudeltà di ricusarlo da una sì bella mano.» Verrà mia moglie col bicchiere, restando in piedi e tutta tremante a me davanti; ma al vedere che non volgerò gli occhi dalla sua parte e persisterò a sprezzarla, mi dirà colle lagrime agli occhi: — Cuor mio, mia cara anima, mio amabile signore, vi scongiuro, pei favori dei quali il cielo vi colma, di farmi la grazia di ricevere questo bicchier di vino dalla mano dell’umilissima vostra serva.» Io mi asterrò ancora dal guardarla e di risponderle. «Mio diletto sposo,» continuerà ella, raddoppiando le lagrime ed accostandomi il bicchiere alle labbra, «io non cesserò se non abbia da voi, ottenuto che beviate.» Allora, stanco delle sue preghiere, le volgerò uno sguardo terribile, e le darò un buono schiaffo, respingendola con tal vigore col piede, che andrà a cadere ben lungi dal sofà. —
«Era mio fratello tanto assorto nelle sue chimeriche visioni, che rappresentò col piede l’azione quasi stata fosse reale, e per disgrazia colpi sì forte nel paniere pieno di vetri, che lo gettò dall’alto della bottega in istrada, di modo che tutto andò fracassato in mille pezzi.
«Il sarto suo vicino, che aveva inteso i suoi stravaganti discorsi, volle scoppiar dalle risa quando vide cader il paniere. — Oh! che uomo indegno sei tu mai!» diss’egli a mio fratello. «Non dovresti morire dalla vergogna di maltrattar così una giovane sposa che non ti diè alcun motivo di lagnanze? Bisogna che tu sia ben brutale per disprezzar così le lagrime ed i vezzi d’una persona, sì amabile. Se io fossi nel gran visir, tuo suocero, vorrei farti dare cento colpi di nervo di bue, e condurti in giro per la città coll’elogio che meriti. —
«Mio fratello, a quel caso sì per lui funesto, rientrò in sè, e comprendendo essergli ciò accaduto pel suo insopportabile orgoglio, si percosse il volto, lacerossi gli abiti, e si mise a piangere, mandando tali strida che fecero accorrere i vicini, e fermare i passaggieri che recavansi alla preghiera del mezzogiorno. Siccome era venerdì, e vi andava più gente che di solito, ebbero alcuni pietà di Alnaschar, mentre altri risero della sua stravaganza. Intanto la vanità ch’erasi messa in testa, sfumò col suo avere, ed egli stava piangendo ancora amaramente la sua sorte, quando una dama di condizione, montata sur una mula riccamente bardata, venne a passare di là, e mossa a pietà dello stato, in cui vedeva mio fratello, domandò chi fosse e perchè piangesse. Le fu detto soltanto essere un povero diavolo, il quale, impiegato il poco denaro che possedeva nell’acquisto d’un paniere di oggetti di vetro, eragli questo caduto, andando così il tutto infranto. Tosto la dama, voltasi ad un eunuco che l’accompagnava, gli disse: — Dategli quello che avete indosso. Obbedì l’eunuco, e mise in mano a mio fratello una borsa di cinquecento pezze d’oro. Alnaschar ebbe a morire dell’allegrezza nel riceverla; impartì mille benedizioni alla dama, e chiusa la bottega, ove più non era necessaria la di lui presenza, tornò a casa.
«Stava egli facendo profonde riflessioni sulla fortuna occorsagli, allorchè udì bussare alla porta. Prima di aprire, chiese chi fosse, e conosciuto dalla voce ch’era una donna, corse ad aprire. — Figliuolo,» gli disse quella, «sono a chiedervi una grazia: ecco il tempo della preghiera; vorrei lavarmi per essere in grado di farla. Lasciatemi, di grazia, entrare in casa vostra, e datemi un vaso d’acqua.» Mio fratello guardò la donna, e vedendo ch’era già molto avanzata negli anni, benchè non la conoscesse, non tralasciò di concederle quanto domandava. Le diede un vaso d’acqua, poi tornò al suo posto, e sempre occupato dell’ultima avventura, riposò il suo oro in una specie di borsa lunga e stretta da portar appesa alla cintura. La vecchia, intanto, fece la sua preghiera, e quando l‘ebbe finita, venne da mio fratello, si prosternò due volte battendo colla fronte la terra, quasi avesse voluto pregar Dio; poi, rialzatasi, gli augurò ogni sorta di beni...»
L’aurora, che cominciava a sorgere, obbligò Scheherazade a fermarsi. La notte seguente ripigliò essa così il suo racconto, facendo sempre parlare il barbiere:
NOTTE CLXXVIII
— «La vecchia augurò a mio fratello ogni sorta di fortune, lo ringraziò della sua cortesia; e siccome era poveramente vestita, e molto umiliavasi a lui davanti, credett’egli che volesse cercargli l’elemosina, e le presentò due monete d’oro. La vecchia arretrò alcuni passi con gran sorpresa, come se mio fratello fatto le avesse una grave ingiuria. — Gran Dio!» sclamò ella; «che vuol dir ciò? Sarebbe mai possibile, signore, che mi prendeste per una di quelle miserabili, le quali fanno professione di entrare sfacciatamente in casa della gente per domandare l’elemosina? Ripigliate il vostro danaro; grazie a Dio non ne ho bisogno; io sono al servizio d’una giovine dama di questa città, di perfetta bellezza ed inoltre ricchissima, la quale non mi lascia mancar di nulla. —
«Mio fratello non fu abbastanza accorto onde avvedersi dell’astuzia della vecchia, la quale non aveva ricusate le due monete d’oro se non per cavargliene di più; ed invece le domandò se non poteva procurargli l’onore di vedere quella dama.— Volentieri,» rispose colei; «ed ella sarà ben contenta di sposarvi e mettervi al possesso di tutti i suoi beni, facendovi padrone della sua persona: prendete il vostro denaro, e seguitemi.» Giubilante di aver trovato una somma di danaro, e quasi nello stesso tempo una moglie leggiadra e ricca, chiuse gli occhi ad ogni altra considerazione, e prese le cinquecento pezze d‘oro, si lasciò condurre dalla vecchia.
«Camminò quella davanti a lui, ed egli la seguì da lontano fino alla porta d’una casa, ove bussò; la raggiunse colà il babbeo, nell’istante che una schiava greca le apriva. La vecchia lo fece entrare pel primo, e passare per una corte lastricata, introducendolo quindi in una sala, il cui ammobigliamento lo confermò nella buona opinione ch’erasegli fatta concepire della padrona di casa. Mentre la vecchia andò ad avvertire la signora, egli si pose a sedere, e siccome faceva caldo, si levò il turbante e se lo mise vicino. Poco dopo vide entrare la giovine dama, la quale lo sorprese molto più per la sua avvenenza che non colla ricchezza dell’abito. Si alzò egli appena la vide; ma la dama lo pregò con aria graziosa di tornare al suo posto, e sedutasi vicino a lui, gli esternò la propria gioia al vederlo, e dettagli quindi alcune dolci parolette:— Qui non istiamo troppo comodi,» soggiunse; «venite con me, datemi la mano.» Si dicendo gli presentò la sua, e lo condusse in una camera remota, ove, conversato ancora qualche tempo con lui, lo lasciò dicendo: — Fermatevi qui; sono di ritorno tra breve.» Egli l’aspettò; ma invece della dama, vide giungere un grande schiavo negro colla scimitarra sguainata, il quale, guardando mio fratello con occhio terribile: — Che fai tu qui?» gli disse fieramente. Alnaschar, a quell’aspetto, fu colto da tale spavento che non ebbe la forza di rispondere; lo schiavo allora, spogliatolo, gli tolse il danaro che portava, e lo ferì con parecchi colpi di scimitarra, ma nelle carni soltanto. Cadde l’infelice al suolo, ove rimase senza moto, benchè conservasse ancora l’uso de’ sensi. Il negro, credendolo morto, domandò del sale; la schiava greca gliene portò un bacile pieno; e ne fregarono le piaghe di mio fratello, il quale, malgrado il cocente dolore che soffriva, ebbe la presenza di spirito di non dare verun segno di vita. Quando il negro e la schiava greca furono partiti, la vecchia, che aveva fatto cadere mio fratello nell’agguato, venne a prenderlo pei piedi; e trascinatolo fino ad una botola che aprì, ve lo gettò dentro; egli si trovò in un sotterraneo, con parecchi cadaveri di persone assassinate; del che si avvide appena rinvenuto, poichè la violenza della caduta tratto lo aveva di sentimento. Il sale onde gli s’erano fregate le piaghe, lo conservò in vita; e ripresa a poco a poco forza bastante per sostenersi, due giorni dopo, aperta durante la notte la botola, e notato nel cortile un sito proprio a nascondersi, vi rimase fino allo spuntar del giorno. Vide allora comparire l’esecrabile vecchia, la quale, aperta la porta di strada, partì per andar in cerca d’altra preda. Affinchè costei non lo vedesse, non uscì da quell’infame dimora se non alcuni momenti dopo di lei, e venne a rifuggirsi a casa mia, ove mi raccontò tutte le avventure in sì breve tempo accadutegli. «A capo d’un mese, egli guarì perfettamente delle sue ferite, mediante i potenti farmachi ch’io gli amministrai. Allora risolse di vendicarsi della vecchia che sì crudelmente avevalo tradito; a tal uopo fece una borsa grande abbastanza da contenere cinquecento monete d’oro, invece delle quali vi mise tanti pezzi di vetro...»
Scheherazade, terminando queste parole, avvistasi ch’era giorno, cessò per quella notte dal racconto; ma alla domane proseguì di tal modo la storia di Alnaschar:
NOTTE CLXXIX
— «Mio fratello,» continuò il barbiere, «si legò alla vita il sacchetto di vetri colla cintura, si travestì da vecchia, e presa una sciabola, la nascose sotto la veste, e stette in osservazione. Una mattina, incontrata la vecchia che già passeggiava per la città, cercando l’occasione di trappolar qualcheduno, se le accostò, e contraffacendo la voce di donna: — Avreste un paio di bilancette da prestarmi» le disse. «Sono una donna di Persia, giunta da poco, ed avendo portato dal mio paese cinquecento pezze d’oro, vorrei assicurarmi se sono di giusto peso. — Buona donna,» gli rispose la vecchia, «non potevate rivolgervi meglio. Venite, non avete che a seguirmi; vi condurrò da mio figlio, che fa il cambiavalute; egli si farà un piacere di pesarvele per risparmiarvi l’incomodo. Non perdiamo tempo, onde poterlo trovare prima che vada a bottega.» Mio fratello dunque la seguì fino alla casa in cui lo aveva introdotto la prima volta, e la porta venne aperta dalla medesima schiava greca.
«La vecchia condusse mio fratello nella sala, ove gli disse di aspettare un momento, che andava a chiamare suo figlio. Il preteso figlio comparve in breve sotto la forma del brutto schiavo negro. — Maledetta vecchia,» disse costui a mio fratello, «alzati, e seguimi.» Dicendo tali parole, camminò innanzi per condurlo al luogo, in cui intendeva trucidarlo; Alnaschar, alzatosi, lo seguì, e traendo di sotto dalla veste la sciabola, gli menò un fendente sul collo con tal destrezza, che recisogli il capo. Lo prese lesto con una mano, e coll’altra trascinò il cadavere fino al sotterraneo, ove lo gettò colla testa. La schiava greca, accostumata a quel giuoco, comparve poco dopo col suo bacile pieno di sale, ma quando vide Alnaschar colla scimitarra sguainata, senza il velo, col quale coperto si era il viso, lasciò cadere il bacile e fuggì: ma mio fratello, correndo più veloce di lei, la raggiunse, e le spiccò il capo dal busto. Accorse allo strepito l’iniqua vecchia, ed egli, afferrandola prima che avesse il tempo di fuggire: — Perfida!» gridò; «mi riconosci? — Aimè, signore,» rispose colei tremando, «chi siete? Non mi ricordo d‘avervi mai veduto. — Sono,» soggiunse, «quello nella cui casa tu entrasti l’altro giorno per lavarti e fare la tua preghiera d’ipocrita: te ne rammenti?» Allora si pose colei in ginocchio per domandar mercè; ma egli la tagliò a pezzi.
«Non restava più che la giovine dama, la quale non sapeva nulla di quanto era accaduto in casa sua. Egli andò a cercarla, e la trovò in una camera, ove poco mancò non isvenisse quando lo vide comparire. Essa gli chiese la vita, ed Alnaschar ebbe la generosità di accordargliela. — Signora,» le disse, «come mai potete stare con gente sì scellerata come quella, di cui mi sono testè giustamente vendicato? — Io era,» gli rispose colei, «moglie d’un onesto mercante, e quella maledetta vecchia, della quale non conosceva la perfidia, mi veniva qualche volta a trovare. ««Signora,» mi diss’ella un giorno, «abbiamo a casa nostra un convito di nozze; vi divertireste molto, se voleste farci l’onore d‘intervenirvi.» Io mi lasciai persuadere: presi il mio più bell’abito con una borsa di cento pezze d’oro; ed avendola seguita, mi condusse in questa casa, ove trovai quel negro che mi trattenne per forza: sono tre anni che mi trovo qui con mio gran dolore. — Dal modo con cui quell’esecrabile negro agiva,» ripigliò mio fratello, «ci deve aver ammassate grandi ricchezze. — Ve ne sono tante,» ripigliò essa, «che sareste ricco per sempre se poteste portarle via; seguitemi, e le vedrete.» Condusse allora Alnaschar in una camera, ove gli fece in fatti vedere parecchi forzieri pieni d’oro, ch’egli considerò con un’ammirazione, dalla quale non poteva riaversi. — Andate,» gli disse la donna, «e conducete gente bastante da portar via tutto.» Mio fratello non se lo fece dire due volte; uscì, e non rimase fuori se non il tempo sufficiente, di radunare dieci uomini. Li condusse con sè, ma giunto alla casa, rimase assai sorpreso di trovarne aperta la porta, e molto più quando, entrato nella stanza ove aveva veduti gli scrigni, non ne trovò neppur uno. La dama, più scaltra e sollecita di lui, li aveva fatti portar via, ed era ella medesima scomparsa. In mancanza dei forzieri, e per non tornarsene colle mani vuote, fece prendere tutto quello che potè trovare di masserizie nelle camere e nelle guardarobe, ove rinvenne molto più che non occorresse per indennizzarlo delle cinquecento monete d’oro stategli rubate. Ma uscendo dalla casa, dimenticò di chiuderne la porta; i vicini, che avevano riconosciuto mio fratello, e veduti andare e tornare i facchini, corsero ad avvertire il giudice di polizia di quello sloggiamento, ch’era parso loro sospetto. Alnaschar passò la notte tranquillamente; ma l’indomani mattina, mentre usciva di casa, incontrò alla porta venti uomini del giudice di polizia, che, impadronitisi di lui, gli dissero: — Venite con noi; il nostro padrone vi vuol parlare.» Li pregò mio fratello di aspettare un momento, ed offrì molti denari perchè lo lasciassero fuggire, ma invece di ascoltarlo, legatolo, lo costrinsero ad andar con loro. Incontrarono per istrada un vecchio amico di mio fratello, il quale li fermò, ed informatosi per qual ragione lo conducessero via, propose loro anche una grossa somma per rilasciarlo in libertà, e riferire al giudice di polizia di non averlo trovato; ma nulla potè ottenere da essi, ed Alnaschar fu condotto dal giudice...»
Scheherazade cessò di parlare, notando ch’era giorno. La notte seguente ripigliò il filo della sua narrazione, e disse al sultano delle Indie:
NOTTE CLXXX
— «Sire,» proseguì il barbiere, «quando le guardie ebbero condotto mio fratello davanti al giudice di polizia, questo magistrato gli disse: — Vi domando ove avete preso tutti i mobili che ieri faceste portare a casa vostra? — Signore,» rispose Alnaschar, «io son pronto a dirvi la verità, ma permettetemi prima di ricorrere alla vostra clemenza, e supplicarvi a darmi parola che non mi sarà fatto nulla. — Ve la do.» soggiunse il giudice. Allora mio fratello gli manifestò senza finzioni quanto gli era accaduto, e tutto quello che fatto aveva dopo che la vecchia era stata a dire in casa sua la preghiera, fino al momento che non trovò più la giovane dama nella camera, in cui l’aveva lasciata dopo aver ucciso il negro, la schiava greca e la vecchia. Riguardo alle cose da lui fatte trasportare a casa, pregò il giudice di lasciargliene almeno una parte, in compenso delle cinquecento pezze d’oro a lui rubate.
«Il giudice, astenendosi da qualunque promessa, mandò alcuni de’ suoi sgherri alla casa di mio fratello, per levarne tutto ciò che vi si trovasse; e quando gli fu riferito che non vi restava più nulla, e che tutto era stato riposto nelle sue guardarobe, comandò tosto a mio fratello di uscire dalla città, e non tornarvi più sotto pena della vita, temendo che, se vi restasse, non andasse a lagnarsi della sua ingiustizia al califfo. Alnaschar obbedì all’ordine senza mormorare, ed uscito dalla città per rifuggirsi in un’altra, incontrò per istrada alcuni malandrini, che lo spogliarono di tutto e lo lasciarono nudo come la mano. Appena ebbi saputa la trista notizia, presi un abito, ed andato a trovarlo dov’era, lo consolai il meglio che potei, e lo ricondussi poi segretamente in città, ove ne presi cura come degli altri miei fratelli.