La tempesta (Shakespeare-Rusconi)/Atto quinto

Atto quinto

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William Shakespeare - La tempesta (1612)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1858)
Atto quinto
Atto quarto Nota

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ATTO QUINTO



SCENA I.

Dinanzi alla cella di Prospero.

Entrano Prospero, colla sua veste da mago, ed Ariele.

Prosp. Adesso il mio disegno è giunto al suo fine; i miei incantesimi non fallano; gli spiriti obbediscono; e il tempo vola leggiero col suo fardello. A qual punto è il dì?

Ar. Vicino alla sua sest’ora, termine in cui mi promettesti che le nostre fatiche cesserebbero.

Prosp. Così promisi allorchè prima suscitai la tempesta. Ma dimmi, mio gentile spirito, in quale stato lasciasti il re e i suoi?

Ar. Prigionieri, signore, e smarriti, siccome m’ingiungesti, entro il boschetto di cedri che protegge la tua grotta dai venti: di là un passo non possono muovere che tu nol voglia. Il re, suo fratello, ed il fratello tuo, son là tutti in preda ad un dolor frenetico; e il resto de’ compagni, pieno d’ambascia e di spavento, geme su di loro. A Gonzalo, il buon vecchio, le lagrime scorrono lungo la barba grigia, come nell’inverno le goccie della pioggia passano tra i fusti delle canne. Infine i tuoi incantesimi nascono su di essi con tanta violenza, che se potessi ora vederli, ne avresti pietà.

Prosp. Lo credi?

Ar. Pietà io pure ne avrei, se fossi della specie umana.

Prosp. Ed io ancora diverrò sensibile, io ancora lo diverrò. Oh! come? tu, che altro non sei che un soffio d’aere, tu avrai ricevuto un’impressione, avrai il sentimento delle loro pene; ed io, creatura della loro razza, che com’essi ho in retaggio passioni e dolori, non ne sarò più commosso? Quantunque le loro crude ingiustizie m’abbiano vivamente ferito il cuore, assumerò le parti della ragione contro quelle della collera. Perdonare è opera più nobile e più rara, che non vendicarsi; e poichè essi si pentono, non insisterò di più. Va a liberarli, Ariele: scioglierò ogni prestigio, e renderò ad ognuno le perdute facoltà.

Ar. Volo a cercarli, signore.     (esce)

Prosp. Voi, Silfi delle colline e dei ruscelli, de’ vitrei laghi e dei boschetti; e voi, che sulle arene scorrete con piè che non lascia [p. 275 modifica]orma, e leggiermente seguite Nettuno festeggiato dalle sue onde, o fuggite percossi dalla sua sferza; voi, vulgo di spiriti, che sulla verde zolla tracciate al chiaror della luna que’ circoli magici da cui poi rifugge la pecora innocente; voi, amabili Intelligenze, la gioia delle quali si sveglia la sera al suon solenne del coprifuoco, e che sopra un raggio di sole aleggiando vi compiacete nell’incolorare di vostra vita i più odorati fiori; voi tutti non siete che fragili ministri: e nondimeno, da voi aiutato, potrei eclissare il dì nel suo meriggio, chiamare i venti ribelli, e far ruggire la guerra fra le verdi acque del mare e l’azzurra vôlta del firmamento. Mercè vostra io posi fuoco al fragoroso folgore, fendei la robusta quercia di Giove, scrollai il promontorio di macigno sulla sua base di granito, e divelsi dalle radici il cedro e il pino. Sì, le tombe spalancate alla mia voce lasciarono uscire gli ospiti loro sciolti dai sonni di morte; tanto potente era questa mia arte! Ma ora qui io l’abiuro; nè più da voi, o spiriti, chiederò altro che concenti di musiche celesti, quali adesso v’impongo per compiere i miei disegni, e ritornare a quei travagliati le facoltà che gli incantesimi avean loro tolte. Ciò fatto, spezzerò la mia verga, e la seppellirò nel seno della terra; e, più lungi che mai non andasse l’umano navigatore, tufferò sotto le acque il mio libro magico.               (comincia una musica solenne)

(Rientra Ariele; dopo di lui Alonso con movimenti da frenetico, seguito da Gonzalo; Sebastiano e Antonio in pari maniera s’avanzano, scortati da Adriano e da Francisco. Tutti vanno nel circolo che Prospero ha descritto, e ivi stanno affascinati; lo che Prospero veggendo così favella.)

Prosp. Una musica solenne, i suoni più propri a calmare una immaginazione in delirio, sanino gli spiriti vostri, che ora inutili agenti commuovono. Sostate costà! un fascino vi avvince! — Virtuoso Gonzalo, uomo venerabile, i miei occhi, presi di simpatia alla vista delle tue lagrime, s’inumidiscono di pianto. — Il prestigio si scioglie a gradi a gradi; e come vedesi l’aurora insinuarsi fra la notte, e fugar dolcemente le tenebre, le chiarezze rinascenti di lor ragione dissipano i letargici vapori da cui queste erano avviluppate. O mio caro Gonzalo, mio generoso salvatore, amico leale del principe che accompagni, ricompenserò nella mia patria i tuoi servigi in parole e in opere. — Tu, Alonso, tu adoprasti ben crudelmente con mia figlia e me. Tuo fratello fu uno degl’istigatori alla trama; e tu ne sei ora punito, Sebastiano, co’ tuoi tormenti. — Tu, sangue mio, tu formato della stessa mia carne, fratello, che aprendo il cuor tuo all’ambizione ne [p. 276 modifica]cacciasti il rimorso e la natura, tu che con Sebastiano (che ben anche di ciò è trafitto) volesti uccidere qui il tuo re, snaturato come sei, pur ti perdono! — Già già rifluiscono gli spiriti del pensiero, i di cui flutti riempiran ben tosto gli organi della loro ragione, e la purgheranno dell’impuro limo che testè la intorbidò. Fin qui alcun d’essi non mi ravvisa ancora, nè potrebbe riconoscermi Ariele, va, e reca le mie vestimenta da duca. (Ariele esce) Affrettati, mio Genio, chè sei vicino ad esser libero. (Ariele rientra cantando, e aiuta Prospero a vestir le insegne ducali)

Ar. «Suggo l’umore che l’ape sugge, e il calice d’un fiore mi offre comoda stanza; in esso io mi corico quando geme il gufo; di là mi slancio sull’ala della tortorella, che va in traccia della state; letizia, letizia; omai vivrò soltanto in gioia, profumandomi dei fiori che la primavera fa nascere».

Prosp. Sì, mio grazioso Ariele, tale sarà la tua vita. Sentirò con dolore la tua mancanza; ma non andrai meno libero per ciò. Su, su, al vascello del re, a’ marinari che troverai addormentati nella rada. Sveglia il Capitano e il Boatswain, e costringili a seguirti in questo luogo.

Ar. Bevo l’aria1 innanzi a me, e ritornerò prima che il vostro polso abbia battuto due colpi.     (esce)

Gonz. Tutto ciò che turba, meraviglia, addolora e confonde l’uomo, abita in quest’isola. Oh piaccia al Cielo inviarne qualche guida per liberarci!

Prosp. Re di Napoli, riconosci l’oltraggiato duca di Milano, Prospero; e per convincerti ch’è cosa viva quella che ti parla, ti stringo fra le mie braccia, e t’offro il saluto dell’amico.

Al. Sei tu Prospero? tu? O saresti invece una delle tante larve che m’han fin qui affascinato? Io mi sto incerto. I tuoi polsi battono sotto la mia mano, come quelli d’un mortale vestito di polpa e d’ossa; e dacchè ti veggo, sento che l’angoscia della mia anima... e il delirio, che temo l’abbiano offesa.... minuiscono. Se tutto questo non è sogno, accenna a grandi avvenimenti. Intanto io ti restituisco la tua duchea, e ti scongiuro di perdonarmi le mie ingiustizie. Ma come Prospero potrebbe esser vivo e trovarsi qui?

Prosp. Anzi tutto, generoso amico, lascia che abbracci la tua vecchiezza, l’inestimabile virtù della quale non può mai essere abbastanza onorata. [p. 277 modifica]

Gonz. Se quanto veggo sia verità o menzogna, non ardirei affermare.

Prosp. Memori ancora dei prestigi dell’isola, i vostri sensi non osano fidarsi alla verità delle cose reali. Ma siate tutti i ben giunti, o amici miei. Voi poi, signori (sommessamente ad Antonio e a Sebastiano), se diletto ne avessi, potrei far entrare in disgrazia del re, e smascherarvi per traditori... ma per ora nol farò...

Seb. (a parte) Un demone parla colla sua voce.

Prosp. No... E quanto a te, uomo perverso, che chiamar non potrei fratello senza contaminarmi, a te perdono ogni più reo attentato: sì, tutto perdono; nè altro richieggo che il mio ducato, che ben conosco non potresti rifiutarmi.

Al. Se Prospero veramente siete, raccontateci quali eventi salvarono i vostri giorni. Diteci come qui ne incontraste; come incontraste noi, che da tre ore appena naufragammo su questa sponda, dove perdei, o dolorosa memoria! l’amato mio figlio Ferdinando.

Prosp. Ne son dolente, signore.

Al. Irreparabile è questa perdita, e la pazienza la troverebbe al di là d’ogni suo conforto.

Prosp. Crederei piuttosto che usato non abbiate degli aiuti di questa. Io per simile perdita implorai il suo sussidio, e ne sento i dolci effetti in un riposo dolce e sereno.

Al. Voi pure faceste una tal perdita?

Prosp. E più di recente la feci; e per sopportare la mancanza di un bene sì caro non ho intorno a me che consolazioni più deboli di quelle che a voi rimangono. Ho perduto mia figlia!

Al. Una figlia? Oh Cielo! fossero entrambi vivi in Napoli il re e la regina di quello Stato! Sì, fossero! ed io invece giacessi in quel letto di fango nel quale giace mio figlio! E quando perdeste, signore, la figlia vostra?

Prosp. Nell’ultima tempesta che qui scoppiò. Ma l’incontro mio, lo veggo, ha colpito tutti di tal maraviglia, che la ragione d’ognuno invano si sforza di poterlo spiegare, e a stento si crede alla testimonianza degli occhi, o al suono delle parole. Per quanto sia grande la vostra sorpresa, siate certi ch’io son Prospero, quel duca che la violenza strappò da Milano, e che uno strano destino qui condusse, perchè sovrano divenisse di quest’isola, in cui voi naufragaste. Ciò però ad altro tempo; chè storia ell’è da narrarsi nel seguito di molti giorni, non conveniente ad un primo colloquio in un deserto. Voi siete i benvenuti, signori. Quella grotta è la mia corte. Là entro ho pochi famigli, e al di fuori non un [p. 278 modifica]solo suddito. Guardate, ve ne prego, in quell’antro; e poichè reso m’avete il mio ducato, vo’ compensarvene mostrandovi cosa che, vi sarà cara al pari d’un trono. (la grotta si spalanca e lascia vedere Ferdinando e Miranda seduti, che giuocano a scacchi)

Mir. Dolce amore, tu ti fai beffe di me.

Ferd. No, amica mia, nol vorrei per tutto il mondo.

Mir. Oh! bene il potreste anche solo per venti regni, e avreste giuocato a bel giuoco.

Al. Se questa è una delle illusioni dell’isola, due volte avrò perduto il mio caro figlio.

Seb. Il più portentoso dei prodigi!

Ferd. Sebbene i mari minaccino, essi però son pii, ed io li maledissi senza cagione. (corre ad inginocchiarsi ai piedi di Alonso)

Al. Ora tutte le benedizioni di un fortunato padre scendano su di te! Alzati, e dimmi, come qui venisti?

Mir. Oh meraviglia! quante nobili creature veggo in un punto! come bello è il genere umano; come incantatore il mondo che possiede una tal gente!

Prosp. Nuovo è anche per te!

Al. Chi è quella fanciulla con cui tu giuocavi? La conoscenza che hai con lei non può datare da più di tre ore! È ella la Dea che ne ha separati, per riunirci così?

Ferd. Signore, è una mortale; ma, grazie all’eterna Provvidenza, è mia, e per mia la presi in un tempo in cui chieder non poteva il consenso di mio padre, perocchè non credeva più di aver padre. Essa è figlia di quell’illustre duca di Milano, del quale io aveva inteso parlar tanto senza che mai visto l’avessi prima di questo giorno. È da lui che oggi ho ricevuto una seconda vita; e quest’egregia donzella oggi mi ha dato in lui un secondo padre.

Al. E ad essa io pure sarò padre. Ma oh quanto strano suonerà nella bocca d’un padre il perdono che intercedere ei debbe dalla figlia sua!

Prosp. Ristatevi, signore; non rinnoviam la memoria di mali già dimenticati.

Gonz. Se il pianto che mi sgorgava sull’alma impedito non me lo avesse, avrei parlato di già. Abbassa i tuoi sguardi, gran Dio, e fa discendere su questa giovine coppia la pioggia delle tue benedizioni, perocchè tu solo ne apristi la via che qui ci condusse.

Al. Il Cielo ti esaudisca, buon Gonzalo!

Gonz. Il duca di Milano fu dunque cacciato dal suo regno [p. 279 modifica]perchè la stirpe sua dominasse in giorno in Napoli? Oh! gli impeti della gioia vostra passino tutti i limiti d’una gioia volgare! Incidiamo con lettere d’oro quest’avvenimento sopra eterne colonne, e ricordiamo così ai posteri, come nel viaggio istesso trovassero Claribel uno sposo in Tunisi, Ferdinando una compagna in luogo ove s’era egli stesso perduto, Prospero un ducato, e ognuno di noi le smarrite facoltà dell’anima.

Al. (a Ferd. e Mir.) Datemi le vostre mani: il dolore e la disperazione cruccino per sempre il cuore che non benedice a quest’unione!

Gonz. Sia così! Amen! (rientra Ariele col Capitano del vascello e con Boatswain, che lo seguono con grande stupore) Ma guardate, signore, guardate! Ecco altri compagni. Ben l’aveva detto, che finchè patiboli in terra vi sarebbero, colui non sarebbe morto in acqua. Ebbene (a Boatswain) bestemmiatore, le cui imprecazioni allontanano dalle navi la misericordia del Cielo, non puoi ora dir motto? perdesti la lingua approdando a terra? Non sai più maledire? Di’, quali novelle?

Boat. La più lieta di tutte è, che qui rinveniamo il re co’ suoi, la succedente, che il nostro vascello, che lasciammo flagellato dall’onde e sdruscito in mille parti, mareggia ora integro e superbo come il primo giorno che navigò.

Ar. (a parte) Tutto questo, signore, io feci mentre stetti lontano da te.

Prosp. (a parte) Mio vago spirito!

Al. Questi non sono avvenimenti naturali, ma prodigi stupendi, che ad ogni istante si rinnovano! Parlate; chi vi condusse qui?

Boat. Se certo fossi di non aver sognato, signore, avrei già impreso a dirvene. Eravamo addormiti, nè so come, sul lido, allorchè strani e fieri romori di catene e di ruggiti, di gemiti e di ululati, vennero a risvegliarci. In un baleno tutti ci alziamo, e ci veggiam dinanzi la nostra bella nave che galleggiava come la regina dell’onde; vista che ne fe’ tutti balzare di gioia. Allora poi fummo separati dagli altri, e pieni di torpore qui condotti come per incanto.

Ar. (a parte) Fu ben fatto?

Prosp. (a parte) A meraviglia, mio Ariele; e sarai libero.

Al. Quest’è il più intricato labirinto in cui mai errasse piè umano! tutto qui è condotto da un potere sopranaturale, e per rischiarare le nostre menti è necessario un oracolo.

Prosp. Signore, non vi stillate l’intelletto per sciogliere questo enigma. In ora da ciò non mancherò d’appagarvi, e svolgerò a [p. 280 modifica]voi solo, onde approviate la mia prudenza, il filo di tutti questi avvenimenti. Infino a quell’ora siate tranquillo, e credete che tutta è bene. Avvicinati, spirito: (a parte) sciogli Caliban e i suoi compagni da’ miei incanti. (Ariele esce) Ebbene, qual è il vostro stato, Sire? Qui manca ancora alcuno dei vostri, che dimenticaste.

(rientra Ariele, conducendo Caliban, Stefano e Trìnculo vestiti degli abiti che avevano rubato)

Stef. Ognuno s’adopri per la salute altrui, senza curar la propria; perocchè tutto non è che fortuna in questa vita. — Coraggio, orrido mostro, coraggio!

Trìnc. Se le due spie che porto in testa non m’illudono, ecco una vaga apparizione!

Cal. O Setebos! quai pellegrini spirti! quanto bello è il mio signore! Io temo non voglia castigarmi.

Seb. Ah! ah! quali cose son queste, messer Antonio? Forsechè con oro si potrebbero acquistare?

Ant. Lo credo; e l’un d’essi è un mostro marino da vendersi, non v’ha dubbio, in giorno di fiera.

Prosp. Signori, osservate questi uomini e le loro spoglie, e giudicate se son onesti. Questo schiavo deforme ebbe a madre una strega sì potente, che poteva arrestar la luna nel suo corso, innalzare ed abbassar le maree, ed esercitare tutti gl’imperi di quella, senza partecipare alla sua essenza. Or questo mezzo demone, il quale altro non è che uno spurio rinnegato dell’Inferno, insieme con costoro avea macchinato per togliermi la vita. Dei tre, due sono che dovete riconoscer per sudditi vostri. Quanto a questo parto di tenebre, confesso che io sono il suo signore.

Cal. Sarò martoriato di punture fino a morirne.

Al. Non è quegli Stefano, il mio sempre ebbro dispensiere?

Seb. Sì; nè ha difetto d’ebbrezza. Ove trovò il vino?

Al. Trìnculo pure vacilla. Ma come ottennero il potente specifico che li ha coloriti così? Di’, (a Trìnculo) che ti fece assumere queste sembianze?

Trìnc. Oh fu ben tremendo lo stato per cui passai dacchè non vi ho veduto! e temo che l’ossa mie non ne serbino memoria per tutta la vita. Aimè, aimè! io non temerò più le vespe.

Seb. Oh! e tu, Stefano, che hai?

Stef. Allontanatevi; io non sono Stefano, ma un incubo.

Prosp. Miserabile, non volevi tu divenir re di quest’isola?

Stef. Re ben infermo ne sarei diventato.

Al. Quest’è la cosa più strana che mai gli occhi miei vedessero.               (guardando Caliban) [p. 281 modifica]

Prosp. Ed è così deforme ne’ costumi, come nella persona. — Malvagio, prendi i tuoi compagni con te, ed entra nella mia grotta. Se ti sta a cuore di ottenere il mio perdono, adornala con amore.

Cal. Obbedirò; diverrò saggio, e intercederò perdono. Qual goffo ciuco m’era io, scambiando un ubbriaco in un nume, e adorando un simil pazzo!

Prosp. Va dunque; lungi di qui.

Al. Ite, e rimettete queste spoglie dove le trovaste.

Seb. meglio ancora, dove le avete rubate.

(escono Caliban, Stefano e Trìnculo)

Prosp. Ora, Sire, invito Vostra Altezza e il vostro seguito a venire a riposarsi nella mia povera cella. Solo questa notte dimorerete in essa, e io impiegherò una parte del tempo nel racconto che voglio farvi, e che sono certo ne precipiterà il corso. Ivi io vi narrerò l’istoria della mia vita e delle mie vicissitudini in quest’isola, finchè, spuntata in cielo l’aurora, verrò ad accompagnarvi al vostro vascello, perchè facciam vela insieme verso Napoli, dove, spero, vedrem celebrate le nozze dei diletti nostri figli. Ciò fatto, me n’andrò alla mia Milano; e là il terzo de’ miei pensieri sarà quello del sepolcro.

Al. Ardo del desiderio d’intendere la narrazione delle vostre avventure. L’orecchio la debbe divorare con avidità.

Prosp. Non ometterò nulla; e dimani vi prometto placido il mare e propizii i venti; e questi enfieranno con tal benigna costanza le vostre vele, che la nave su cui sarete capitanerà ben da lungi tutte le altre. Governa le brezze, mio dolce Ariele; è questo il carico tuo. (a parte) Torna quindi a’ tuoi elementi; sii libero, e vivi felice! — Piacciavi, signori, di venir con me. (escono)

Epilogo proferito da Prospero.

«Ora tutti i miei incantesimi son rotti, e limitato mi trovo alle mie sole forze, che, oimè! sono ben deboli. Ora è in poter vostro o il condannarmi a viver perpetuamente in quest’isola, o l’inviarmi a Napoli. Ah! poichè ho ricuperato il mio ducato, e seppi perdonar a’ miei traditori, non vogliate ch’io rimanga su questo lido deserto incatenatovi dal vostro potere. Secondatemi invece con mano soccorritrice, e scioglietemi da’ miei ceppi: mestieri è che l’alito vostro spiri favorevole al mio corso, o il mio disegno fu vano; il mio disegno che altro non era che quello di piacervi. Intanto più non ho nè Genii per afforzarmi nella mia debolezza, [p. 282 modifica]nè incantesimi per allettare; e il fine de’ miei sforzi sarebbe la disperazione, se non mi trovassi sussidiato dalla preghiera, la cui punta valorosa apre il seno della clemenza, e la costringe a perdonare. Ora, se caro avete l’ottener mercè de’ vostri errori, compatite ai miei, e licenziatemi colla vostra benemerenza»2.




fine del dramma.

Note

  1. Metafora che esprime la celerità del corso, come divorar la via.
  2. Questo epilogo di Prospero allude a quegli antichi racconti de’ maghi, che nei loro ultimi istanti della vita entravano in grandissima disperazione, se la preghiere dei loro amici non valevano a riscattarli»