La tempesta (Shakespeare-Rusconi)/Atto quarto

Atto quarto

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William Shakespeare - La tempesta (1612)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1858)
Atto quarto
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ATTO QUARTO



SCENA I.

Dinanzi alla cella di Prospero.

Entrano Prospero, Ferdinando e Miranda.

Prosp. Se troppo duramente vi trattai, il prezzo che ora ricevete ben vi compensa delle pene sofferte; e con questo dono (accennando sua figlia), che ripongo fra le vostre mani, vi do una parte della mia vita, o piuttosto il solo oggetto che la vita mi faccia amare. Tutti i rigori che vi ho usato, altro non furono che sperimenti che mi piacque di fare del vostro amore; e voi ne sopportaste l’inflessibilità con meraviglioso coraggio. Qui, al cospetto del Cielo, adunque io approvo la vostra unione; e ti do, o Ferdinando, una sposa ch’è al disopra d’ogni estimazione, e dietro a cui la lode si dibatte invano.

Ferd. Ve lo credo, e lo crederei ancora contro la voce d’un oracolo.

Prosp. Ricevi mia figlia come un dono della mia mano, e come un premio che il tuo merito ha guadagnato. Ma se dovessi sciorre il suo cinto verginale prima che tutte le sante cerimonie avessero avuto luogo, non mai il Cielo farebbe scendere su di voi le sue dolci rugiade, perchè prosperasse l’affetto vostro; ma l’odio infecondo, lo sdegno feroce e la discordia pazza metterebbero a germogliare nel vostro letto d’amore sì ispide spine, che ben tosto lo avreste in implacabile abbonimento. Coltiva perciò, o giovine, la pura face del tuo fuoco sinchè la teda dell’imeneo risplenda.

Ferd. Come vero è che ho fidanza in tempi di pace, in bella prole, in vita lunga e serena; così non sarà che l’antro più fosco, il bosco più propizio ai misteri dell’amore, i più focosi trasporti a che incitar ne possa il nostro Genio cattivo, mi facciano obbliare l’onore della mia sposa, e m’inducano a profanare la purità di questo giorno fortunato.

Prosp. Nobili e generosi sensi! Siedi ora al suo fianco, e favella con lei. Su, su, Ariele; mio amabile Ariele, dove ti celi?

(entra Ariele)

Ar. Signore, eccomi a te. [p. 267 modifica]

Prosp. Mio Ariele, con amore hai adempiuti tutti i miei comandi; con amore adempirai anche a quello che sto per dire. Va, parti; raduna in questo luogo tutti gli spiriti a te soggetti, e comunica loro moti più rapidi ed aggraziati. Promisi a questa giovine coppia qualche prestigio della mia arte, e m’attengo alla promessa.

Ar. S’ha a far tosto?

Prosp. In un baleno.

Ar. Non avrai pronunziato due volte va e torna, che li vedrai tutti qui co’ loro sogghigni e le loro smorfie. Mi ami tu mio signore?

Prosp. Teneramente, mio vago Ariele. Va; nè tornar, ch’io non chiami.

Ar. Così farò.                                   (esce)

Prosp. (a Ferdinando) Tu rammenta la promessa; frena le cupide voglie; pensa che i giuramenti più solenni si struggono al fuoco della passione come arida paglia.

Ferd. Lo farò, mio signore; e la nivea freschezza di questa vergine temprerà l’ardore de’ miei sensi.

Prosp. Così sia. Ora vieni, mio Ariele; vieni colla coorte dei tuoi soggetti, e mostrati valente. (a Ferdinando) Tu intendi lo sguardo, nè proferir più motto. (odonsi i preludii d’una dolce armonia)

Entra Iride1.

Ir. Cerere, benefica Diva, abbandona per un istante le ricche tue messi di segala, d’avena, d’aureo frumento; abbandona le molli erbette delle tue colline, dove pascolar sogliono le pecore, e le interminate praterie in cui fra odorati fieni hanno stanza. Lascia le aiuole ghirlandate di peonie, di gigli, che per tuo precetto l’aprile rugiadoso dischiude, onde se ne intreccino caste corone alle tue ninfe pudiche; e i bruni boschetti, l’ombra de’ quali talenta al garzone che nelle cure dell’amore miseramente poltrì; lascia i tuoi vigneti ricinti di palizzate, e le tue aride sabbie marine contornate di roccie, ove tu ti posi a respirare le aure della sera. La regina del firmamento, di cui sono arco variopinto e messaggera, mi spedì per invitarti ad una festa su queste intatte glebe. Odi...? già ella giunge; i suoi pavoni fendono celeri il cielo. — Oh! affrettati, ubertosa Cerere, e fa onoranza alla mia signora. [p. 268 modifica]

Entra Cerere.

Cer. Salute, messaggiera dai celesti colori; salute a te, che sempre adempi a’ comandi della sposa di Giove; a te, che, spiegando le crocee ali, versi su’ miei fiori rugiada di miele e pioggie confortatrici; e che con un estremo del tuo arco turchino coroni le cime delle mie foreste, coll’altro sfiori le freschissime zolle, vestendo di ricca ciarpa le mie terre ben coltivate. Dimmi, perchè la tua regina mi chiama su questa verzura?

Ir. Per celebrare un vincolo di sincero amore, ed arricchire dei tuoi doni due amanti fortunati.

Cer. Dimmi, amabile Iride2; Venere e suo figlio accompagneranno la tua regina? Da quel giorno ch’essi tramarono l’infame frode, che fe’ di mia figlia la donna di Plutone, ho giurata di non vederli mai più?

Ir. Di ciò non ti prenda pensiero. Scontrai dianzi la Diva che solcava le nubi, intesa col volo a Pafo; e suo figlio posava nel di lei carro, tirato dalle colombe. Quei numi coi loro incantesimi corruttori aveano sperato di poter sedurre la coppia di generosi amanti che qui sta, e che il voto avea proferito di non prelibare alle dolcezze del letto coniugale prima che la teda d’Imeneo non avesse divampato. Ma indarno la voluttuosa amica di Gradivo pose in opera ogni suo allettamento: suo figlio, sì fecondo in malizie, ruppe le freccie, giurando di non mai più tendere il suo arco; e sollazzandosi ornai solo co’ suoi augelletti, non vuol starsene con lei che come fanciullo.

Cer. L’augusta regina de’ cieli, Giunone, s’avanza. Riconoscila al suo divino portamento.

Entra Giunone.

Giun. Letizia alla mia leggiadra sorella! Andianne insieme a benedire quella tenera coppia, onde tragga lieti dì, e abbia gloria nella prole.

Canzone.

Giun. «Ricchezze, dolcezze coniugali, onori, seguenza eterna di liete vicende spargano di rose il sentiero che calcate: tali sono i voti che Giuno innalza per voi». [p. 269 modifica]

Cer. «Sia per voi sempre feconda la terra, e vadan perennemente doviziosi di messi i vostri granai; carchi si pieghino sotto il dolce peso gli alberi de’ vostri verzieri, e poma e uve v’apprestino quali converrebbonsi al cielo; una eterna primavera sorrida alla vostra felicità, e vi faccia consapevoli dell’amore che Cerere vi porta».

Ferd. Oh quale augusta visione! quai celesti canti!... Crederò che siano soli spiriti questi?...

Prosp. Spiriti che la mia arte ha evocati, onde adempissero i miei voleri.

Ferd. Oh possa io vivere eternamente qui! Un padre sì sublime, una sposa sì rara, fanno di questo luogo un paradiso. (Giunone e Cerere parlano fra di loro sommessamente, e commettono ad Iride un messaggio).

Prosp. Silenzio, mio figlio. Giunone e Cerere discorrono gravemente insieme, e vi sarà qualche nuovo incantesimo. Tacete, o il prestigio è rotto.

Ir. «Voi, Naiadi, ninfe de’ serpeggianti ruscelli, colle vostre corone di giunchi e i vostri sguardi pieni d’innocenza, abbandonate l’onda tremolante dei rivi, e venite su questi verdi cespi per obbedire al cenno che v’è dato. È Giunone che ve lo comanda. Affrettatevi, caste vergini, e aiutatene a celebrare un patto di amor fedele. (le Ninfe appariscono coronate di fiori, e vestite di bianco) E voi, adusti mietitori, armati di falce e avvezzi alla sferza del sole, accorrete dai vostri solchi, e abbandonatevi in preda alla gioia. Festeggiate questo giorno; copritevi de’ vostri cappelli di segala; e intrecciate con queste giovani ninfe le vostre rustiche danze». (entra una schiera di mietitori vestiti di abiti campestri, che eseguiscono colle ninfe alcuni balli piacevoli; verso il fine di questi, Prospero subitamente si scuote, e pronunzia alcune parole; l’incanto allora si dilegua, e fra un confuso romore ogni apparizione svanisce)

Prosp. (a parte) Aveva obbliata l’empia cospirazione del brutale Caliban e de’ suoi complici contro la mia vita: l’istante della trama è venuto... All’opera...! al riparo!

Ferd. (a Miranda) Strana cosa questa! vostro padre è soggetto ad una commozione che violentemente lo travaglia.

Mir. Non mai lo vidi tanto agitato e così pieno di collera3. [p. 270 modifica]

Prosp. Tu sei commosso, mio figlio, e sembri preso da spavento! Rasserenati, Ferdinando. Ora i nostri diporti sono terminati; e i nostri attori, come già te ’l dissi, spiriti erano che in aere si dileguarono, in insensibile aere. Futili così come quelle visioni, scompariranno i superbi palagi, i templi solenni, il globo stesso; sì, questo vasto globo, e tutte le sue generazioni dileguerannosi colla rapidità di quei vani prestigi, senza lasciar di loro nè solco, nè traccia. Modellati noi siamo della vana sustanza di che s’informano i sogni, e il sonno investe il corso di nostra breve vita. — Ferdinando il mio cuore geme; compatisci alla debolezza d’un vecchio: la mia povera testa vacilla; non conturbarti per tale infermità. Rientra, se il vuoi, nella mia caverna, e riposati; io percorrerò la pendice, per calmar la mia anima agitata.

Ferd. e Mir. Possiate trovar la pace.

Prosp. Addio, miei figli, addio. (Ferdinando e Miranda escono) Celere come il pensiero... Ariele, olà, mio Ariele?

(entra Ariele)

Ar. Aleggio su’ tuoi voleri. Che mi comandi?

Prosp. Spirito, n’è mestieri afforzarci contro l’assalto di Caliban.

Ar. Sì, mio signore; e quando ti presentai Cerere ebbi intenzione di parlartene; ma temei di svegliar la tua collera.

Prosp. Dimmi, dove lasciasti quei miserabili?

Ar. Già ti esposi che trovati gli avea bollenti di ebbrezza, coll’occhio ardente, e pieno d’audacia; a tale da sdegnarsi contro il vento che soffiava loro sulle gote, da sdegnarsi contro la terra perchè resisteva ai colpi dei loro piedi. Allora ho fatto intendere il suono del mio tamburo; e a quel suono, come altrettanti giovani corridori, di cui la groppa non s’è per anco assoggettata [p. 271 modifica]all’uomo, han drizzate le orecchie, arrovellati gli occhi, e fiutato l’aere, quasi per respirare l’odor della musica. Ho quindi talmente allettato i loro timpani, che, a guisa della giovenca chiamata dalla madre, han seguite le mie melodie fra dumi e dirupi, coprendosi, per ciò fare, di punture e di sangue. Infine me ne son diviso al verde stagno che è al di là della tua grotta, co’ piedi impacciati nella melma, e contr’esso lottanti con ogni forza.

Prosp. Ben facesti, mio Ariele4: conserva ora la tua forma invisibile, e va a raccogliere nella mia grotta quei vani addobbi, e qui li porta; è l’esca a cui prenderò i traditori.

Ar. Vado, e in breve tornerò.                                   (esce)

Prosp. Un demone, sì, un demone, una natura indomabile, per la quale ogni educazione va deserta d’effetto. Tante cure gli prodigai, tanti pensieri ebbi per lui; inutilmente! E come il suo corpo divien più deforme cogli anni, così l’anima sua s’invilisce e deteriora. Vo’ castigarli tutti, sino a farli ruggir d’ambascia. (rientra Ariele con ricche vestimenta) Va; ordina il tutto su quella fune. (Prospero è invisibile; Ariele dispone gli abiti sopra una corda tesa; entrano Caliban, Stefano e Trìnculo, tutti sordidi di fango)

Cal. Te ne prego; cammina con piè sì leggiero, che la cieca talpa non possa udire dove la tua pianta si posi. Siam vicini alla sua caverna.

Stef. Mostro, il tuo Silfo, che dicevi Silfo senza malizia, non ne ha trattati meglio, che se fosse stato un folletto dei campi.

Trìnc. Mostro, vo sentendo esalazioni pestifere, di cui il mio olfatto assai si sdegna.

Stef. E il mio ancor se ne cruccia. Odi tu ciò, mostro? E se il mal talento mi prendesse contro di te, pensi tu...

Trìnc. Saresti allora un mostro perduto.

Cal. Mio buon principe, conservami sempre nella tua grazia. Sii paziente; e il tesoro a cui ti son guida, ti consolerà d’ogni disagio patito. Parla sommesso, che tutto tace ancora qui, come se fosse mezzanotte.

Trìnc. Sì; ma l’aver perduti i nostri otri nel pantano...

Stef. È cosa non solo di onta e di disonore, ma d’immenso danno.

Trìnc. E ciò mi sta più a cuore che quel gelido bagno. Fu nondimeno il vostro innocente Silfo, mostro...

Stef. Vo’ ripescar il mio otre, dovessi pure infangarmi sino agli occhi. [p. 272 modifica]

Cal. Pregoti, mio re, non fiatare... Vedi tu? ecco la bocca dell’antro: entravi senza rumore. Commetti il buon omicidio che ti farà per sempre signore di quest’isola; ed io sarò il tuo Caliban, pronto a baciarti il piede.

Stef. Dammi la mano, comincio ad aver pensieri di sangue.

Trìnc. O re Stefano! o Maestà! o degno Stefano! osserva che guardaroba è qui per te!               (accennando agli abiti)

Cal. Lascia ciò, pazzo; che è cosa vile.

Trìnc. Oh, oh! mostro, noi siamo esperti in masserizie da rigattieri... Che ne di’, Stefano?

Stef. Cedi a me quella veste, Trìnculo; per questo braccio noderoso vo’ che sia mia.

Trìnc. Tua Grazia se l’abbia.

Cal. Oh lo stolto, cui l’acqua bevuta soffoca! Che far credete incannandovi di così brutte suppellettili? Inoltriamo, e commettiamo prima l’uccisione. S’ei si risvegliasse adesso, dalla estremità dei piedi sino al cervello ne fascierebbe di punte d’aghi, da farne guaire d’una maniera ben strana.

Stef. Taci, mostro. Ecco gli abiti miei. Questa giubba m’appartiene: eccola in mia mano. Ora cangiò padrone; e perderà, temo, in breve il lustro e il pelo.

Trìnc. Prendila, prendila, nè dispiaccia alla tua Grandezza, se in noi pure è talento di queste vanità.

Stef. Ben detto, ben detto; e abbi di ciò un abito in ricompensa. Fintantochè sarò re di questo paese, l’ingegno non se ne andrà da me mal ricompensato.

Trìnc. Mostro, allunga le dita; prendi questi avanzi e fuggiamo.

Cal. Non prenderò nulla di tali cose; inutilmente gettiamo il tempo; e sarem tutti trasformati in oche di mare, od in scimmie dalla fronte calva.

Stef. Mostro, allunga le dita; aiutane a trasportar questo bottino là dove giace la nostra botte, o ti caccio dal mio regno. Presto, obbedisci.

Trìnc. E porta questo.

Stef. E questo ancora. (s’ode improvviso un rumor di caccia; entrano parecchi spiriti in forma di cani, e s’avventano sui rapitori; Prospero e Ariele gli aizzano con alacrità).

Prosp. Oh! Montano! oh!

Ar. Turco! è qui la via, Turco!

Prosp. Pluto, Pluto, su, Tantalo, mordi! (Caliban, Stefano e Trìnculo fuggono perseguitati dalle mute) Odi ora (ad Ariele) [p. 273 modifica]Va, e comanda a’ miei Genii d’imbiotare le loro giuntare slogate con calcina calda, sinchè per le convulsioni del dolore le loro membra siansi rattrappite come quelle della vecchiaia. Faccian poscia loro più punture nei corpi, che macchie non siano sulla pelle del leopardo, o del tigre della montagna.

Ar. Odi, odi com’e’ ruggono!

Prosp. Non abbiano tregua i cani. Ora tutti i miei nemici sono in mio potere. In breve ogni mia fatica avrà fine; e tu allora godrai a tuo talento gli estesi campi dell’aere. Seguimi anche un poco, e compi il tuo servigio.               (escono).



Note

  1. La seguente scena, come ben si vede, è eseguita dagli Spiriti di Prospero, e non dalle divinità che questi rappresentano.
  2. L’originale legge heavenly bow, cioè arco celestiale.
  3. Prospero si mostra qui compreso di dolorosa agitazione alla ricordanza del complotto di Caliban, che lo fa quindi moralizzare sulla vanità delle cose umane. Ha perchè sì fatto commovimento? La congiura d’un gnomo e di due marinai ubbriachi è essa tale, sottomessi come li ha fatti alla sua potenza, da incutergli timore?
    Insinuandoci più addentro nel cuore umano, ammiriamo la profonda conoscenza che il Poeta ne aveva. È sopra tutti un vizio insopportabile alle anime generose, di cui il solo pensiero vale a conturbarle, quello dell’Ingratitudine. Prospero rammentava tutti gli obblighi che a lui strigneano Caliban, a cui avea insegnato l’arte di esprimer le proprie idee, e d’usare degli agi della vita. Le sue prime riflessioni sull’ingratitudine del mostro lo guidano naturalmente ad altre più dolorose sul delitto di suo fratello; e da questi sentimenti, di cui la sua anima è piena, vien tratto in tanto abbandono. La coscienza, che i due esseri i quali aveano ricevuto da lui i due più grandi doni della vita, l’uso della ragione e l’autorità sovrana, avessero entrambi cospirato contro i giorni del loro benefattore, deve necessariamente abbattere e scoraggire un’anima che dal buono e dal bello traea tanto argomento di vita.

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  4. Il testo ha my bird, mio uccello.