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atto quinto 277


Gonz. Se quanto veggo sia verità o menzogna, non ardirei affermare.

Prosp. Memori ancora dei prestigi dell’isola, i vostri sensi non osano fidarsi alla verità delle cose reali. Ma siate tutti i ben giunti, o amici miei. Voi poi, signori (sommessamente ad Antonio e a Sebastiano), se diletto ne avessi, potrei far entrare in disgrazia del re, e smascherarvi per traditori... ma per ora nol farò...

Seb. (a parte) Un demone parla colla sua voce.

Prosp. No... E quanto a te, uomo perverso, che chiamar non potrei fratello senza contaminarmi, a te perdono ogni più reo attentato: sì, tutto perdono; nè altro richieggo che il mio ducato, che ben conosco non potresti rifiutarmi.

Al. Se Prospero veramente siete, raccontateci quali eventi salvarono i vostri giorni. Diteci come qui ne incontraste; come incontraste noi, che da tre ore appena naufragammo su questa sponda, dove perdei, o dolorosa memoria! l’amato mio figlio Ferdinando.

Prosp. Ne son dolente, signore.

Al. Irreparabile è questa perdita, e la pazienza la troverebbe al di là d’ogni suo conforto.

Prosp. Crederei piuttosto che usato non abbiate degli aiuti di questa. Io per simile perdita implorai il suo sussidio, e ne sento i dolci effetti in un riposo dolce e sereno.

Al. Voi pure faceste una tal perdita?

Prosp. E più di recente la feci; e per sopportare la mancanza di un bene sì caro non ho intorno a me che consolazioni più deboli di quelle che a voi rimangono. Ho perduto mia figlia!

Al. Una figlia? Oh Cielo! fossero entrambi vivi in Napoli il re e la regina di quello Stato! Sì, fossero! ed io invece giacessi in quel letto di fango nel quale giace mio figlio! E quando perdeste, signore, la figlia vostra?

Prosp. Nell’ultima tempesta che qui scoppiò. Ma l’incontro mio, lo veggo, ha colpito tutti di tal maraviglia, che la ragione d’ognuno invano si sforza di poterlo spiegare, e a stento si crede alla testimonianza degli occhi, o al suono delle parole. Per quanto sia grande la vostra sorpresa, siate certi ch’io son Prospero, quel duca che la violenza strappò da Milano, e che uno strano destino qui condusse, perchè sovrano divenisse di quest’isola, in cui voi naufragaste. Ciò però ad altro tempo; chè storia ell’è da narrarsi nel seguito di molti giorni, non conveniente ad un primo colloquio in un deserto. Voi siete i benvenuti, signori. Quella grotta è la mia corte. Là entro ho pochi famigli, e al di fuori non un