La sottana del Diavolo/Come ebbe Filarete il suo giorno di celebrità
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Come ebbe Filarete
il suo giorno di celebrità.
Quelle moderne incitazioni a delinquere che sono i concorsi a premio dei giornaletti letterarî avevano trascinato Filarete Persico al primo passo. Con sedici anni cento lire, anche cinquanta, guadagnate senza bisogno di ricorrere a babbo e mamma rappresentano una piccola fortuna.
Oh! se si fosse trattato di faticare su ponderosi volumi per mettere insieme un lavoro serio, o dar prova di eccezionale ingegno rispondendo a un quesito astruso, Filarete ci avrebbe pensato due volte. Peggio che andar di notte poi se il concorso rivolgendosi al carattere dei concorrenti avesse messo a premio un atto di magnanimità, una prova di onesta fierezza, una vittoria ottenuta sopra sè stessi. Ma per fortuna a nessuno è mai venuto in mente di bandire simili gare.
Una novellina dunque, un fatto diverso, il pettegolezzo del giorno, o brani di vita, o imitazioni di letture, o fantasie, o sogni.... chi non trova qualche cosa del genere nel proprio cervello o nel cervello del vicino? — i due termini sono quasi uguali — . Filarete, allievo di seconda liceale, lo sapeva benissimo.
E fu precisamente una novellina pubblicata da una minuscola Rivista, con relativo minuscolo premio, la galeotta che persuase Filarete della sua vocazione a scrittore. Fatto il primo passo, per la tentazione di quelle poche lirette, il secondo si imponeva in seguito al buon esito lusingante in un colpo solo e la vanità e la cupidigia del giovinetto. I componimenti extra-scuola si ammucchiarono sul banco del Liceo occupato da Filarete; è giustizia dire che non furono poi tutti premiati e neppure tutti accettati; ma tant’è, preso l’abbrivo e il gusto, lo studente non doveva arrestarsi più.
— Te felice, — gli diceva qualcuno de’ suoi compagni minacciato da un avvenire burocratico in uno dei tanti uffici governativi. — Te felice con quella tendenza di natura a imbastire frottole e a imbastirle con tanta facilità! Il guadagno sarà per te doppio, cioè di lucro e di piacere insieme.
Questo lo pensava anche Filarete che a fare il medico non ci aveva vocazione e per l’avvocatura gli mancava la facondia, così come gli mancava il bernoccolo della matematica e l’avvedutezza propria ai commerci. Certamente, certamente, per uno che non vuole arrovellarsi il cervello nè mettersi a sgobbare di buzzo buono, niente di meglio che darsi alla letteratura. Egli si vedeva già in uno studiolo elegantemente arredato, sparso di oggetti d’arte e dei libri che i suoi confratelli gli avrebbero offerto con dediche lusinghiere, intento a seguire dietro le nuvole della sigaretta le belle immagini che poi avrebbe tradotte sulla carta.
È ben vero che uno zio, grosso negoziante in generi coloniali, crollava il capo a questi sogni di avvenire letterario e lo consigliava a scegliersi una professione meno incerta. Ma quando mai uno scrittore ha accolto i consigli di un droghiere se non per deriderlo e chiamarlo filisteo?
La madre sì, la madre stava dalla parte di Filarete. Come donna sentiva il fascino delle belle frasi allineate sulle pagine bianche di un volume elegante e come madre non aveva nessuna difficoltà, ma proprio nessuna, a credere suo figlio emulo predestinato.... oh! Dio, non di Manzoni, questo si capisce; ma tanti scrittori moderni hanno un così bel nome e, ne era convintissima, non maggior talento del suo Filarete, che valeva bene la pena di tentare.
La Rivistina dove Filarete aveva fatte le sue prime armi era già morta da un pezzo, ma siccome ogni giorno ne sorgono di nuove e tutte animate da un gagliardo soffio di speranza che le tiene in piedi tre o quattro mesi, giusto il tempo di consumare il gruzzoletto raccolto tra amici di buona volontà, qualche bozzettino, qualche articolo incorniciato fra nomi sconosciuti continuò ad alimentare le tendenze di Filarete e quando giunse il momento di scegliere definitivamente una carriera egli confermò il proposito di voler essere uomo di lettere.
— Ma che cosa si guadagna a vendere parole? — domandò ancora lo zio droghiere.
— Milioni! — rispose imperterrito il neofita che pensava in quel momento alle ricchezze di Rostand. — Vi sono scrittori in Francia che col loro lavoro si sono fabbricate dimore principesche. Dumas, Sue, Zola guadagnarono tutto quello che vollero.
Lo zio droghiere non conoscendo questi signori tacque. Ciò non vuol dire che fosse persuaso.
Non bastava tuttavia a Filarete l’ospitalità concessagli dalla stampa ebdomadaria; la sua ambizione era quella di raggiungere il possesso dei grandi giornali quotidiani i quali soli dànno rinomanza ad uno scrittore e lo mettono in diretta corrispondenza col pubblico. Da questo lato però si accorse subito che l’osso era duro da rosicchiare.
— Scrivi un romanzo, — gli disse sua madre; — dopo sarà più facile che i giornali si occupino di te.
— Scrivi una commedia, — suggerivano gli amici; — se ha successo da un giorno all’altro sei celebre.
Per non sbagliare Filarete li scrisse tutti e due: solamente la commedia fu trovata troppo sguaiata, pare impossibile, e il romanzo troppo serio.
— Se potessi indovinare il gusto del pubblico! — pensava Filarete.
E si pose a frequentare tutti i teatri di prosa, si pose a leggere tutti i libri in voga cercando di carpire il segreto che faceva andare in visibilio le masse. Cosa curiosissima! Man mano che si rendeva conto di quanto avevano scritto gli altri riconosceva subito che avrebbe potuto scriverlo anche lui, che non vi era assolutamente nulla di straordinario, poichè egli stesso aveva tante volte pensato ad argomenti consimili e se non li aveva svolti era solo perchè non si sarebbe mai immaginato che potessero ottenere sì pieno trionfo.
— Bisogna vivere col popolo, — concluse Filarete; — l’osservazione verista è quella che conduce direttamente al cuore dei lettori. Grasso sul teatro, Gorki nelle novelle.... forza ci vuole, coraggio e forza.
Temprato così Filarete scese nell’agone con un fascio di letteratura sanguinaria che la stampa delicata respinse per sè stessa e quell’altra non volle incaricarsene perchè il nome dell’autore non serviva da portabandiera a nessun partito.
— Sono troppo onesto, — pensò egli questa volta; — anche in letteratura è la camorra che trionfa: «Odi profanum vulgus et arceo».
Fu quello il tempo in cui si chiuse nella sua torre d’avorio. Maeterlink, Nietzsche, Ibsen, tutta la nebbia nordica passò attraverso il suo cervello. Ne rimase intontito e stanco per parecchi mesi. Gli accadeva allora di portare molte volte la mano alla fronte chiedendosi se non fosse per caso minacciato di una congestione cerebrale. A buon conto si ritirò un poco dalla letteratura. Fece un viaggio, prese moglie, seppellì lo zio droghiere che lo aveva lasciato erede di un discreto patrimonio; ma alla fine, come la farfalla che se pure allarga una volata nello spazio ritorna invincibilmente a girare intorno alla fiamma, egli ricascò nel calamaio.
Al guadagno non ci pensava più da quando, non una grande villa uso la villa di Rostand a Cambo, ma una villetta, una casetta sul bergamasco lasciatagli anche quella dallo zio soddisfece abbastanza la sua vanità di proprietario e l’altra vanità tornò a farsi strada nella mente disoccupata. Arrivare! Filarete voleva oramai arrivare a qualunque costo, essere celebre, farsi un nome che ogni persona appena appena colta dovesse trovarsi in dovere di conoscere. Non chiedeva denaro; al contrario, era disposto a spenderne pur di essere presentato al pubblico da un grande editore o da un critico autorevole. Era persuaso che tutto dipendesse dallo scavare la prima breccia, lanciare un articolo che facesse colpo, per cui ventiquattr’ore durante non s’avesse a parlar d’altro in tutta Italia.
Disgraziatamente, per quanto la cosa gli sembrasse agevole e per quanto a furia di preghiere e di raccomandazioni qualche suo articolo riuscisse a comparire nelle auguste colonne di un organo magno del giornalismo il pubblico non se ne diede per inteso. Il pubblico con singolare ostinazione continuava ad ignorare l’esistenza di un Filarete Persico.
Battuto ma non domo Filarete si presentò un giorno al primo editore della città con un grosso scartafaccio scritto a macchina per invogliare maggiormente la lettura:
— Ella mi sarà grato della preferenza che le do sopra gli altri editori portandole la primizia di un romanzo nuovo....
— Gratissimo. Solamente ho i tiretti del mio scrittoio che rigurgitano di romanzi in aspettativa ed ogni giorno invariabilmente ne rifiuto due o tre.
— Ma il mio è molto interessante. Non faccio per dire ci ho messo tutta l’anima.
— Non ne dubito. È d’altronde ciò che fanno tutti, ma....
— E non per speculazione, intendiamoci. Tutto il guadagno lo lascio a lei.
— Quale guadagno di grazia?
— Diamine, la vendita!
— Parla di vendita con molta disinvoltura, caro signore; ma, ecco, se è così sicuro di vendere favorisca anticipare le spese: carta, stampa, pubblicità, ecc. Sarò io che lascerò a lei tutto il guadagno, — soggiunse l’editore con un sorriso a doppio taglio.
Fu rizzato lì per lì un preventivo che fece sulle prime nicchiare Filarete. Ohibò! Egli che si era data la fatica di scrivere il romanzo doveva anche pubblicarselo a proprie spese? Che ci stanno a fare allora gli editori? Infine si decise riportando i suoi calcoli sulla vendita. Così a occhio e croce cinquecento copie dovevano andare tra parenti, amici, conoscenti, avventori del medesimo caffè, vicini di casa; senza parlare del gran pubblico che avrebbe visto il volume dal libraio e sarebbe corso, figurarsi se no!, a comperarlo. Mille copie dunque, mille e cinquecento colle provincie, duemila coll’estero.... Affaroni d’oro.
Intanto, a proposito degli avventori del caffè, Filarete incominciò a mostrarsi di una gentilezza particolare con tutti. Sempre il primo a levarsi il cappello, si affrettava a interrompere la lettura di un giornale per offrirlo a chi ne mostrasse desiderio; cedeva il suo posto alle signore ed accarezzava i bambini. Qualcuno vedendolo così compito avrebbe pur domandato il suo nome ed il cameriere, previa competente mancia, era autorizzato a dire: Il signor Filarete Persico, un grande scrittore.
— So anch’io, — argomentava tra sè Filarete, — perchè molti scrittori al giorno d’oggi non riescono a farsi conoscere. Non sanno preparare il terreno! Destrezza ci vuole, furberia, tattica, tenersi amici con tutti, abbondare in cortesie. Appunto, anche coi vicini di casa occorreva mostrarsi amabile; se prima non si era occupato di loro bisognava rimediare subito.
Viveva egli con sua moglie in una casa dei quartieri antichi, vecchia casa borghese modesta e comoda, con un giardino un po’ trascurato ma ricco di piante, alcuna delle quali quasi centenaria. Egli e sua moglie godevano un ammezzato tutto sole e verdura; a pianterreno ci stava un vecchio originale che aveva il giardino in sua dipendenza, specialmente un prolifico albero di fichi da lui sorvegliato con attenzione paterna e che formava la meraviglia e l’invidia di tutto il vicinato; non molto numeroso a dir vero perchè, astrazione fatta di una famiglia al primo piano e del signor Edoardo al secondo, il rimanente della casa conteneva gente minuta, magazzini e ripostigli.
La tattica di Filarete si dirizzò dunque su quei tre pigionali che meglio potevano rappresentare un futuro lettore del suo romanzo: il vecchio del pianterreno, la famiglia del piano nobile e il signor Edoardo, il quale occupava da solo un appartamentino da scapolo ed era un giovinotto elegante accolto nella migliore società e non privo di un certo spolvero letterario. Il vecchio tutto occupato intorno a’ suoi fichi che incominciavano a maturare faceva poco attenzione ai profondi saluti che Filarete gli dedicava al di sopra del cancelletto del giardino; la famiglia del primo piano rispondeva gentilmente ma con sostenutezza; col signor Edoardo invece la relazione fu presto fatta e siccoma Filarete aveva inteso narrare di un romanziere che deve la maggior parte della sua popolarità all’abitudine di invitare a pranzo amici e colleghi tutte le volte che mette fuori un nuovo volume, egli disse a sua moglie:
— Studia bene quella salsa di gamberi che mi hai preparata l’altro giorno: così potremo invitare a pranzo il signor Edoardo. Egli mi presenterà a qualche critico influente. Basta talora un articolo ben fatto per iniziare la fortuna di un libro.
Filarete non si arrestò qui. Egli fece stampare migliaia di cartoline col suo ritratto, nome, cognome e una piccola biografia contenente in estratto i suoi meriti e le sue glorie. E ancora: quindici giorni prima della pubblicazione del suo romanzo misteriosi cartellini incollati ai muri della città ne annunciarono il titolo suggestivo.
— Affemia! — gridò egli alla fine lasciandosi cadere lungo disteso in una poltrona, — più di così non si potrebbe fare!
Ed aveva ragione. Ma forse bisognava fare diversamente il romanzo.
Un sassolino gettato in un fosso prima di calare a fondo smuove l’acqua intorno, provoca dei circoli, evoca col suo tonfo un breve suono che spaventa i pesci ed alza a volo gli insetti attardati sulle linfe. Un colpo di fucile sparato in alto non toccherà la mèta, ma scuote l’aria fendendola con una scarica rumorosa che mette in fuga gli uccelli, attira l’attenzione del viandante e si lascia dietro una nuvola di fumo che domina per un istante lo spazio celeste. Il romanzo di Filarete invece nacque e morì senza nessuna rifrazione di circoli, senza rumore, senza nemmeno un po’ di fumo. E dire che egli si sarebbe accontentato del fumo!
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Una notte, mentre stava sognando che un editore americano gli aveva fatto la proposta di ristampare tutte le sue opere, si destò a un rumore insolito di gente che correva sopra la sua testa, cioè al primo piano, e sotto i suoi piedi, cioè al pianterreno, accompagnato da uno sbattere di finestre che si aprivano, di voci che si incrociavano e di qualche scoppio di risa. Cercò per prima cosa sua moglie; ma il letto accanto era vuoto e solo dopo infilati i pantaloni percorso l’appartamento ed uscito fuori inquieto e meravigliato sul ballatoio, trovò la signora Persico che saliva le scale piangendo o quasi.
Era accaduto un fatto singolare. Siccome il vecchio signore del pianterreno si era accorto che i suoi fichi da lui sorvegliati con tanta cura calavano regolarmente dalla sera al mattino, sospettando di ignoti ladruncoli che si introducessero nel giardino col favore delle tenebre aveva fatto preparare con tutta segretezza un congegno elettrico proprio intorno alla banchina che sottostava all’albero in modo che chiunque vi si avvicinasse senza essere prevenuto metteva in moto tutta una batteria di campanelli nello stesso tempo che una lampada nascosta fra i rami più alti si accendeva colla forza di venti candele. Una trovata ingegnosissima.
E così fu che in quella notte memoranda, non solo il proprietario dei fichi ma tutto il vicinato fu messo in allarme da una improvvisa scarica di campanelli e dalla specie di sole sorto come per incanto in cima all’albero, che illuminava tutto il giardino. L’originale inventore della burla doveva tuttavia rimanere estatico quando in luogo dei monelli da lui spiati sorprese sulla banchina, tutta tremante e sgomentata, la signora Persico e presso a lei il signor Edoardo. Erano dunque essi i ladruncoli dei fichi?...
No, il signor Edoardo, quel giovinotto elegante, non poteva prestarsi a un simile ridicolo. Qualunque altra soluzione piuttosto: un duello, due duelli, la morte, o rapire la signora Persico, ma passare per un ladro di fichi, giammai! Come però la povera donna si sfaceva in gemiti il cavalleresco complice ebbe un’idea e la lanciò subito alla testa di tutti i vicini che si avanzavano man mano agli usci ed alle finestre. «La signora Persico era sonnambula!» Egli l’aveva veduta scendere in giardino con quel passo incerto e fatale dei sonnambuli, procedere come un fantasma nelle tenebre, tendere le braccia nel vuoto.... e si era spaventato, spaventato per lei povera signora! Che fare? Avvertire il marito? Si perdeva troppo tempo. Egli era corso, il signor Edoardo, senza pensare ad altro ed era giunto proprio nel momento in cui la signora cadendo sulla banchina aveva fatto scattare la molla. Ecco.
Filarete ascoltando questa spiegazione pensò che la vita fornisce casi assai più bizzarri e complicati che non l’immaginazione dei romanzieri. Intanto la storiella della sonnambula pubblicata nei fatti diversi della stampa quotidiana fece il giro della città. Se ne impadronirono i giornali umoristici, se ne parlò in tutti i crocchi. Sul nome di Filarete si sbizzarrirono i sciaradisti: fila e rete. Molti domandavano: Ma c’è un romanziere che si chiama Filarete Persico? Chi è? Chi non è? Dopo tutto era un modo anche questo di occuparsi di lui e Filarete non se ne mostrò malcontento. Fortuna e dormi! Era proprio il fatto suo. Quando entrava ora in un caffè, tutti lo guardavano, amici perduti di vista lo fermavano in istrada per informarsi della sua salute e di quella della sua signora. Perfino il suo editore accogliendolo con un sorriso schietto gli annunciò di aver venduto due copie del suo romanzo. La gloria incominciava.