La secchia rapita (1930)/Canto undecimo
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CANTO UNDECIMO
ARGOMENTO
Il conte di Culagna entra in furore,
e sfida a duellar Titta prigione.
Ma, sciolto che lo vede, ei perde il core,
e cerca di fuggir dal paragone.
Vi si conduce al fine: e perditore
un nastro rosso il fa de la tenzone.
De la vittoria sua spande la nuova
Titta, e pentito poi se ne ritrova.
1
Poiché la fama al fin con mille prove
mostrò l’infamie sue scoperte al conte,
e gli fece veder come si trove
con la corona d’Atteone in fronte,
contra la moglie irato in forme nuove
si volse a vendicar l’ingiurie e l’onte;
e per farla morir con vituperio
l’accusò di veleno e d’adulterio.
2
Per tutto il campo allor si fe’ palese
quel ch’era prima occulto o almeno in forse.
La donna francamente si difese,
e le querele in lui tutte ritorse;
e fe’ rider ognun quando s’intese
com’ella seppe al suo periglio opporse,
e d’inganno pagar l’ingannatore,
ch’ebbe poscia a cacar l’anima e ’l core.
3
Il conte che si vede andar fallato
contra la moglie il suo primier disegno,
pensa di vendicarsi in altro lato,
e volge contra Titta ogni suo sdegno.
Sa che, per ritrovarsi imprigionato,
per forza ha da tener le mani a segno.
Lo chiama traditor solennemente;
e aggiugne che se ’l nega, ei se ne mente;
4
e che gliel proverá con lancia e spada
in chiuso campo a publico duello;
e perché la disfida attorno vada,
la fa stampar distinta in un cartello;
e vantasi d’aver trovata strada
da non potere in qual si voglia appello
d’abbattimento o giusto o temerario
sottoporsi al mentir de l’avversario.
5
Ma gli amici di Titta avendo intesa
la disfida, s’uniro in suo favore;
e feron sí che la sua causa presa
e terminata fu senza rigore:
anzi, perch’ei serviva in quella impresa
contra Bologna e ’l papa suo signore,
fu scarcerato come ghibellino
senza fargli pagar pur un quattrino.
6
Sciolto ch’ei fu, rivolse ogni pensiero
a la battaglia, pronto e risoluto;
preparò l’armi e preparò il destriero,
né consiglio aspettò, né chiese aiuto.
Poco avanti da Roma un cavaliero
nel campo modanese era venuto,
di casa Toscanella, Attilio detto:
e fu da lui per suo padrino eletto.
7
Questi era un tal piccin pronto ed accorto,
inventor di facezie e astuto tanto,
che non fu mai giudeo sí scaltro e scorto
che non perdesse in paragone il vanto.
Uccellava i poeti, e per diporto
spesso n’avea qualche adunata a canto;
ma con modi sí lesti e sí faceti,
che tutti si partían contenti e lieti.
8
In armi non avea fatto gran cose,
però ch’in Roma allor si costumava
fare a le pugna, e certe bellicose
genti il governator le castigava.
Ma egli ebbe un cor d’Orlando; e si dispose
d’ire a la guerra, perché dubitava
de’ birri, avendo in certo suo accidente
scardassata la tigna a un insolente.
9
Il conte allor che vide al vento sparsi
tutti i disegni e ’l suo pensier fallace,
cominciò con gli amici a consigliarsi
se v’era modo alcun di far la pace.
Vorrebbe aver taciuto, e ritrovarsi
fuor de la perigliosa impresa audace;
ché sente il cor che teme e si ritira,
e manca l’ardimento in mezzo a l’ira.
10
Ma il conte di Miceno e ’l Potta stesso
e Gherardo e Manfredi e ’l buon Roldano
gli furo intorno; e ’l vituperio espresso,
dov’ei cadea, gli fêr distinto e piano.
Indi promiser tutti essergli appresso,
e la pugna spartir di propria mano;
ond’ei riprese core, e per padrino
s’elesse il conte di San Valentino.
11
Questi, che ne la scherma avea grand’arte,
subito gl’insegnò colpi maestri
da ferire il nemico in ogni parte,
e modi da parar securi e destri;
indi rivide l’armi a parte a parte
del cavaliero e i guernimenti equestri.
Ma un petto senza cor, che l’aria teme,
non l’armerían cento arsenali insieme.
12
La notte a la battaglia precedente,
che fra i due cavalier seguir dovea,
volgendo il conte l’affannata mente
al periglio mortal ch’egli correa,
ricominciò a pensar tutto dolente
di nol voler tentar, s’egli potea:
e innanzi l’alba i suoi chiamò fremendo,
un gran dolor di ventre aver fingendo.
13
Il padrin, che dormía poco lontano,
tutto confuso si destò a quell’atto;
con panni caldi e una lucerna in mano
Bertoccio suo scudier v’accorse ratto:
e ’l barbier de la villa e ’l sagrestano
di Sant’Ambrogio v’arrivaro a un tratto;
e ’l provido barbier, ch’intese il male,
gli fe’ subitamente un serviziale.
14
Ed egli, per non dar di sé sospetto,
cheto se ’l prese e si mostrò contento;
ma fingendo che poi non fésse effetto,
né prendesse il dolore alleggiamento,
chiamò gli amici e i servidori al letto,
e disse che volea far testamento;
onde mandò per Mortalin notaio,
che venne con la carta e ’l calamaio.
15
La prima cosa lasciò l’alma a Dio,
e lasciò il corpo a quell’eccelsa terra,
dov’era nato; e per legato pio
danari in bianco e quantitá di terra.
Indi tratto da folle e van desio
a dispensar gli arredi suoi da guerra,
lasciò la lancia al re di Tartaria
e lo scudo al soldan de la Soria;
16
la spada a Federico imperatore
ed al popol romano il corsaletto;
a la reina del mar d’Adria, onore
del secol nostro, un guanto e un braccialetto;
l’altro lasciollo a la cittá del Fiore;
e al greco imperator lasciò l’elmetto:
ma il cimier, che portar solea in battaglia,
ricadeva al signor di Cornovaglia.
17
Lasciò l’onore a la cittá del Potta,
poi fe’ del resto il suo padrino erede.
D’intorno al letto suo s’era ridotta
gran turba intanto, chi a seder, chi in piede;
fra’ quali stando il buon Roldano allotta,
che non prestava a le sue ciance fede,
gli diceva a l’orecchia tratto tratto:
— Conte, tu sei vituperato a fatto.
18
Non vedi che costor t’han conosciuto
che per tema tu fai de l’ammalato?
Salta su presto, e non far piú rifiuto;
ché tu svergogni tutto il parentato.
Noi spartiremo e ti daremo aiuto
subito che l’assalto è incominciato. —
Il conte si ristrigne e si lamenta,
e si vorría levar; ma non s’attenta.
19
Di tenda in tenda intanto era volata
la fama di quell’atto, e ognun ridea.
Renoppia che non era ancor levata,
un paggio gli mandò, che gli dicea
che stava per servirlo apparecchiata,
e accompagnarlo in campo; e ben credea
ch’egli si porterebbe in tal maniera,
ch’ella n’avrebbe poscia a gire altiera.
20
Quest’ambasciata gli trafisse il core,
e destò la vergogna addormentata:
e cominciaro in lui viltá ed onore
a combatter la mente innamorata.
S’alza a sedere, e dice che ’l dolore
mitigato ha il favor de la sua amata,
e s’adatta a vestir; ma la viltade
finge che ’l dolor torni, e giú ricade.
21
E la pittrice giá de l’oriente,
pennelleggiando il ciel de’ suoi colori,
abbelliva le strade al dí nascente,
e Flora le spargea di vaghi fiori;
quindi usciva del sole il carro ardente,
e di raggi e di luce e di splendori
vestiva l’aria, il mar, la piaggia e ’l monte,
e la notte cadea da l’orizonte:
22
quando comparve il conte di Miceno
col medico Cavalca in compagnia.
Il medico a l’orina in un baleno
conobbe il mal che l’infelice avía;
e, fattosi recare un fiasco pieno
di vecchia e dilicata malvagia,
gli ne fece assaggiar tre gran bicchieri;
ed ei pronto gli bebbe e volontieri.
23
Cominciò il vino a lavorar pian piano,
e a riscaldar il cor timido e vile,
e a mandar al cervel piú di lontano
stupido e incerto il suo vapor sottile:
onde il conte gridò ch’era giá sano,
che ’l dolor gli avea tolto il vin gentile,
e balzando del letto i panni chiese,
e tosto si vestí l’usato arnese.
24
Indi tratto fremendo il brando fuora,
tagliò Zefiro in pezzi e l’aura estiva,
e se non era il suo padrino, allora
a la battaglia senz’altr’armi ei giva.
L’almo liquor che i timidi rincora
puote assai piú che la virtú nativa;
ben profetò di lui l’antica gente,
ch’era, sovra ogni re, forte e possente.
25
Or mentre s’arma, ecco Renoppia viene,
e ’l coraggio gli adoppia e la baldanza;
che con dolci parole e luci piene
d’amor gli fa d’accompagnarlo instanza.
Egli che ’l foco acceso ha ne le vene,
commosso da desio fuor di speranza
e da furor di vino, ambo i ginocchi
a terra inchina; e dice a que’ begli occhi:
26
— O del cielo d’amor ridenti stelle,
onde de la mia vita il corso pende;
d’amorosa fortuna ardenti e belle
ruote dove mia sorte or sale, or scende:
imagini del sol, vive facelle
di quel foco gentil che l’alme incende,
il cui raggio, il cui lampo, il cui splendore
ogn’intelletto abbaglia, arde ogni core:
27
occhi de l’alma mia, pupille amate,
lucidi specchi ove beltá vagheggia
sé stessa; archi celesti ond’infocate
quadrella avventa Amor ch’in voi guerreggia;
de le vostre sembianze onde il fregiate,
cosí splende il mio cor, cosí lampeggia,
ch’ei non invidia al ciel le stelle sue,
benché sian tante e voi non piú che due.
28
Come ai raggi del sole arde d’amore
la terra e spiega la purpurea veste;
cosí ai vostri be’ raggi arde il mio core,
e di vaghi pensier tutto si veste.
Quest’alma si solleva al suo fattore,
e ammira in voi di quella man celeste
le meraviglie, e dal mortal si svelle;
o degli occhi del ciel luci piú belle.
29
Rimiratemi voi con lieto ciglio,
del cieco viver mio lumi fidati,
siate voi testimoni al mio periglio,
e scorgetemi voi co’ guardi amati;
ché fia vana ogni forza, ogni consiglio:
cadrá l’empio e fellon ne’ propri aguati,
e non che di pugnar con lui mi caglia,
ma sfiderò l’inferno anco a battaglia. —
30
Cosí detto, risorge; e ’l destrier chiede,
tutto foco ne gli atti e ne’ sembianti;
e fa stupire ognun che l’ode e vede
sí diverso da quel ch’egli era innanti.
Ma Titta armato giá dal capo al piede,
con armi e piume nere e neri ammanti,
in campo era comparso, accompagnato
dal solo suo padrin, senz’altri a lato.
31
La desïosa turba intenta aspetta
che venga il conte, e mormorando freme;
s’empiono i palchi intorno, e folta e stretta
corona siede in su le sbarre estreme;
e dai casi seguiti omai sospetta
che ’l conte ceda, e la sua fama preme.
Quando a un tempo s’udîr trombe diverse
da quella parte, e ’l padiglion s’aperse.
32
Ed ecco, da cinquanta accompagnato
de’ primi de l’esercito possente,
il conte comparir ne lo steccato
con sopravesta bianca e rilucente,
sopra un caval pomposamente armato
che generato par di foco ardente:
sbuffa, anitrisce, il fren morde, e la terra
zappa col piede e fa col vento guerra.
33
Disarmata ha la fronte, armato il petto,
nude le mani: e sopra un bianco ubino
gli va innanzi Renoppia, e ’l ricco elmetto
gli porta; e ’l buon Gherardo il brando fino,
il brando famosissimo e perfetto
di don Chisotto; e ’l fodro ha il suo padrino.
Ha Voluce lo scudo, e seco a canto
Roldan la lancia, e Giacopino un guanto;
34
l’altro ha Bertoldo; e l’uno e l’altro sprone
gli portano Lanfranco e Galeotto;
e ’l conte Alberto in cima d’un bastone
la cuffia da infodrar l’elmo di sotto:
ma dietro a tutti fuor del padiglione
l’interprete Zannin venía di trotto
sopra d’un asinel, portando in fretta
l’orinale, una ombrella e una scopetta.
35
Armato il cavalier di tutto punto,
e compartito il sole ai combattenti,
diede il segno la tromba: e tutto a un punto
si mossero i destrier come due venti.
Fu il cavalier roman nel petto giunto,
ma l’armi sue temprate e rilucenti
ressero; e ’l conte a quell’incontro strano
la lancia si lasciò correr per mano.
36
Ei fu colto da Titta a la gorgiera,
tra il confin de lo scudo e de l’elmetto,
d’una percossa sí possente e fiera,
che gli fece inarcar la fronte e ’l petto.
Si schiodò la goletta, e la visiera
s’aperse, e diede lampi il corsaletto;
volaro i tronchi al ciel de l’asta rotta,
e perdé staffe e briglia il conte allotta.
37
Caduta la visiera il conte mira,
e vede rosseggiar la sopravesta;
e: — Oimè son morto, — e’ grida, e ’l guardo gira
a gli scudieri suoi con faccia mesta.
— Aita, che giá ’l cor l’anima spira,
replica in voce fioca, aita presta. —
Accorrono a quel suon cento persone,
e mezzo morto il cavano d’arcione.
38
Il portano a la tenda, e sopra un letto
gli cominciano l’armi e i panni a sciorre.
Il chirurgo cavar gli fa l’elmetto,
e il prete a confessarlo in fretta corre.
Tutti gli amici suoi morto in effetto
il tengono: e ciascun parla e discorre
che non era da porre a tal cimento
un uom privo di forza e d’ardimento.
39
Ma Titta poi che l’avversario vede
per morto riportar ne le sue tende,
passeggia il campo a suon di trombe, e riede
dove la parte sua lieta l’attende:
fastoso è sí che di valor non cede
a Marte stesso; e de l’arcion discende,
e scrive pria che disarmar la chioma,
e spedisce un corriero in fretta a Roma.
40
Scrive ch’un cavalier d’alto valore
di quelle parti, uom tanto principale
che forse non ve n’era altro maggiore
né ch’a lui fosse di possanza eguale,
avuto avea di provocarlo core,
e di prender con lui pugna mortale;
e ch’esso degli eserciti in cospetto
gli avea passato al primo incontro il petto.
41
Spedí il corriero a Gaspar Salviani
decan de l’academia de’ Mancini,
che ne desse l’aviso ai Frangipani
signor di Nemi e ai loro amici Ursini,
e al cavalier del Pozzo e ai due romani
famosi ingegni, il Cesi e ’l Cesarini;
et al non men di lor dotto e cortese
Sforza gentil Pallavicin marchese;
42
che tutti disser poi ch’egli era matto,
quando s’intese ciò ch’era seguito.
Intanto avean spogliato il conte, a fatto
dal terror de la morte instupidito;
e gían cercando due chirurghi a un tratto
il colpo onde dicea d’esser ferito:
né ritrovando mai rotta la pelle,
ricominciâr le risa e le novelle.
43
Il conte dicea lor: — Mirate bene,
perché la sopravesta è insanguinata;
e non dite cosí per darmi spene,
ché giá l’anima mia sta preparata:
venga la sopravesta. — E quella viene,
né san cosa trovar di che segnata
sia, né ch’a sangue assomigliar si possa,
eccetto un nastro o una fetuccia rossa,
44
ch’allacciava da collo, e sciolta s’era
e pendea giú per fino a la cintura.
Conobber tutti allor distinta e vera
la ferita del conte e la paura.
Egli accortosi al fin di che maniera
s’era abbagliato, l’ha per sua ventura;
e ne ringrazia Dio, levando al cielo
ambe le mani e ’l cor con puro zelo.
45
E a Titta e a la moglier sua perdonando,
si scorda i falli lor sí gravi e tanti
e fa voto d’andar pellegrinando
a Roma a visitar quei luoghi santi,
e dare in tanto a la milizia bando
per meglio prepararsi a nuovi vanti.
Cosí il monton, che cozza, si ritira,
e torna poi con maggior colpo ed ira.
46
Ma come a Roma poi gisse e trattasse
in camera col papa a grand’onore,
e l’alloggio per forza ivi occupasse
ne l’albergo real d’un mio signore;
e quindi poscia in Bulgaria levasse
con la possanza sua, col suo valore
a quel becco del Turco un nuovo stato,
fia da piú degno stil forse cantato:
47
ché versi non ho io tanto sonori,
che bastino a cantar sí belle cose.
E torno a Titta; che giá uscendo fuori,
poi che a la tenda sua l’armi depose,
pel campo se ne gía sbuffando orrori
con sembianze superbe e dispettose;
quando accertato fu che la ferita
del conte nel cercar s’era smarrita.
48
Qual leggiero pallon di vento pregno
per le strade del ciel sublime alzato,
se incontra ferro acuto o acuto legno,
si vede ricader vizzo e sfiatato;
tale il romano altier, che fea disegno
d’essersi con quel colpo immortalato,
sgonfiossi a quell’aviso, e di cordoglio
parve un topo caduto in mezzo a l’oglio.
49
Ma il padrin, ch’era accorto, il confortava,
e dicea: — Titta mio, non dubitare:
non è bravo oggidí se non chi brava,
e, come diciam noi, chi sa sfiondare.
Se per vinto e per morto or or si dava
il conte, e al padiglion si fea portare;
perché non possiam noi per tale ancora
nominarlo a le genti in campo e fuora?
50
A te deve bastar ch’egli sia vinto
al primo colpo tuo: ché s’ei non muore,
non fu il tuo fin ch’ei rimanesse estinto,
ma sol di rimaner tu vincitore.
Lascia correr la fama; o vero o finto
che sia questo successo, egli è a tuo onore;
ed io farò che immortalato resti
da la musa gentil di Fulvio Testi.
51
Fulvio col conte ha non vulgari sdegni,
e canterá di te l’armi e gli amori:
dirá l’alte bellezze e i fregi degni
ch’ornan colei ch’idolatrando adori;
le compagnie d’ufficio, i censi e i pegni
che per lei festi giá su i primi fiori;
e i casali e le vigne e gli altri beni
c’hai spesi in vagheggiar gli occhi sereni.
52
Gran contento agli amanti e gran diletto,
che possano veder le luci amate,
che portano squarciati i panni al petto
per godere il tesor di lor beltate!
Povero e ignudo Amor senza farsetto
dipinse con ragion l’antica etate;
che spoglia chi per lui s’affligge e suda,
e lo fa vago sol di carne ignuda.
53
Fra i successi d’amor canterá l’armi
e l’imprese c’hai fatte in questa guerra;
e con sonori e bellicosi carmi
eternerá la tua memoria in terra.
E giá di rimirar la fama parmi
trombeggiando volar di terra in terra,
e contra ’l papa di tua mano ai venti
la bandiera spiegar de’ malcontenti. —
54
Cosí ragiona il Toscanella e ride,
e Titta ride anch’ei per compagnia;
ma l’amaro dal cor non si divide,
ché non sa ricoprir sí gran bugia.
Stette pensando un pezzo; e poi che vide
di non poter scusar la sua follia,
di far morire il conte entrò in pensiero
per sostener ch’egli avea scritto il vero.
55
S’armò d’un giacco e con la spada a lato
l’andò subitamente a ritrovare.
Il conte a Sant’Ambrogio era passato,
e stava con que’ preti a ragionare.
Titta gli fece dir per un soldato
ch’uscisse fuor, che gli volea parlare.
Il conte caricò la sua balestra,
e s’affacciò di sopra a una finestra;
56
e a Titta domandò quel che chiedea.
Ed ei rispose che venisse giuso:
il conte si scusò che non potea;
e vedendo che l’uscio era ben chiuso,
disse che, se trattar seco volea,
trattasse quivi o ch’egli andasse suso.
Titta allor furiando si scoperse,
e l’oltraggiò con villanie diverse.
57
Ma il conte rispondea con lieta ciera:
— Voi siete un uom di pessima natura,
a tener l’ira una giornata intiera;
io deposi la mia con l’armatura.
Non occorre a far qui l’anima fiera
con spampanate per mostrar bravura;
io v’ho reso buon conto in campo armato,
e son stato con voi ne lo steccato.
58
Quand’anch’io irato fui con l’armi in mano,
voi dovevate allor sfogarvi a fatto.
Or, Titta mio, voi v’affannate in vano,
ch’io non ho tolto a sbizzarrire un matto.
Andate, e come avrete il cervel sano
tornate; e so che mi farete patto.
Io non ho da partir nulla con voi,
però dormite e riparlianci poi. —
59
Titta ricominciò: — Becco, poltrone,
t’insegnerò ben io; vien fora, vieni. —
Piú non rispose il conte a quel sermone,
ma destò anch’egli al fine i suoi veleni:
e scoccò la balestra, e d’un bolzone
il colse a punto al sommo de le reni
sí fieramente che lo stese in terra;
e saltò fuori a discoperta guerra,
60
gridando: — Per la gola te ne menti,
romaneschetto, furbacciotto, spia. —
Titta aveva offuscati i sentimenti,
e a gran fatica il suo parlar sentía.
Ma saltaron color ch’eran presenti
subito in mezzo, e ognun gli dipartía;
e condussero Titta al padiglione
dilombato e che giá quasi carpone.
61
Quivi dal Toscanella ei fu burlato,
che dovendo levare al ciel le mani
d’aver l’emulo suo vituperato,
fosse entrato in umor bizzarri e strani
di volerlo ancor morto; e stuzzicato
sí l’avesse con atti e detti insani,
che d’una rana imbelle e senza morso
l’avesse al fin mutato in tigre, in orso.
62
— Se tu disprezzi la vittoria, disse,
che puoi tu dir s’ella da te s’invola?
Chi va cercando e suscitando risse,
non sa che la fortuna è donna e vola. —
Tenea Titta le luci in terra fisse
mesto ed immoto, e non facea parola.
Ma tempo è ormai di richiamar gli accenti
ai fatti de gli eserciti possenti.