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canto undecimo 201


23
     Cominciò il vino a lavorar pian piano,
e a riscaldar il cor timido e vile,
e a mandar al cervel piú di lontano
stupido e incerto il suo vapor sottile:
onde il conte gridò ch’era giá sano,
che ’l dolor gli avea tolto il vin gentile,
e balzando del letto i panni chiese,
e tosto si vestí l’usato arnese.
24
     Indi tratto fremendo il brando fuora,
tagliò Zefiro in pezzi e l’aura estiva,
e se non era il suo padrino, allora
a la battaglia senz’altr’armi ei giva.
L’almo liquor che i timidi rincora
puote assai piú che la virtú nativa;
ben profetò di lui l’antica gente,
ch’era, sovra ogni re, forte e possente.
25
     Or mentre s’arma, ecco Renoppia viene,
e ’l coraggio gli adoppia e la baldanza;
che con dolci parole e luci piene
d’amor gli fa d’accompagnarlo instanza.
Egli che ’l foco acceso ha ne le vene,
commosso da desio fuor di speranza
e da furor di vino, ambo i ginocchi
a terra inchina; e dice a que’ begli occhi:
26
     — O del cielo d’amor ridenti stelle,
onde de la mia vita il corso pende;
d’amorosa fortuna ardenti e belle
ruote dove mia sorte or sale, or scende:
imagini del sol, vive facelle
di quel foco gentil che l’alme incende,
il cui raggio, il cui lampo, il cui splendore
ogn’intelletto abbaglia, arde ogni core: