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canto undecimo 209


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     S’armò d’un giacco e con la spada a lato
l’andò subitamente a ritrovare.
Il conte a Sant’Ambrogio era passato,
e stava con que’ preti a ragionare.
Titta gli fece dir per un soldato
ch’uscisse fuor, che gli volea parlare.
Il conte caricò la sua balestra,
e s’affacciò di sopra a una finestra;
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     e a Titta domandò quel che chiedea.
Ed ei rispose che venisse giuso;
il conte si scusò che non potea;
e vedendo che l’uscio era ben chiuso,
disse che, se trattar seco volea,
trattasse quivi o ch’egli andasse suso.
Titta allor furiando si scoperse,
e l’oltraggiò con villanie diverse.
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     Ma il conte rispondea con lieta ciera:
— Voi siete un nom di pessima natura,
a tener l’ira una giornata intiera;
io deposi la mia con l’armatura.
Non occorre a far qui l’anima fiera
con spampanate per mostrar bravura;
io v’ho reso buon conto in campo armato,
e son stato con voi ne lo steccato.
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     Quand’anch’io irato fui con l’armi in mano,
voi dovevate allor sfogarvi a fatto.
Or, Titta mio, voi v’affannate in vano,
ch’io non ho tolto a sbizzarrire un matto.
Andate, e come avrete il cervel sano
tornate; e so che mi farete patto.
Io non ho da partir nulla con voi,
però dormite e riparlianci poi. —