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canto undecimo | 207 |
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ché versi non ho io tanto sonori,
che bastino a cantar sí belle cose.
E torno a Titta; che giá uscendo fuori,
poi che a la tenda sua l’armi depose,
pel campo se ne gía sbuffando orrori
con sembianze superbe e dispettose;
quando accertato fu che la ferita
del conte nel cercar s’era smarrita.
48
Qual leggiero pallon di vento pregno
per le strade del ciel sublime alzato,
se incontra ferro acuto o acuto legno,
si vede ricader vizzo e sfiatato;
tale il romano altier, che fea disegno
d’essersi con quel colpo immortalato,
sgonfiossi a quell’aviso, e di cordoglio
parve un topo caduto in mezzo a l’oglio.
49
Ma il padrin, ch’era accorto, il confortava,
e dicea: — Titta mio, non dubitare:
non è bravo oggidí se non chi brava,
e, come diciam noi, chi sa sfiondare.
Se per vinto e per morto or or si dava
il conte, e al padiglion si fea portare;
perché non possiam noi per tale ancora
nominarlo a le genti in campo e fuora?
50
A te deve bastar ch’egli sia vinto
al primo colpo tuo: ché s’ei non muore,
non fu il tuo fin ch’ei rimanesse estinto,
ma sol di rimaner tu vincitore.
Lascia correr la fama; o vero o finto
che sia questo successo, egli è a tuo onore;
ed io farò che immortalato resti
da la musa gentil di Fulvio Testi.