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Sezione seconda - Capitolo quarto - Corollari d'intorno all'origini delle lingue e delle lettere

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Sezione seconda - Capitolo quarto - Corollari d'intorno all'origini delle lingue e delle lettere
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[CAPITOLO QUARTO]

corollari d’intorno all’origini delle lingue e delle lettere; e, quivi dentro, l’origini de’ geroglifici, delle leggi, de’ nomi, dell’ lnsegne gentilizie, delle medaglie, delle monete; e quindi della prima lingua e letteratura del diritto natural delle genti.

428Ora dalla teologia de’ poeti o sia dalla metafisica poetica, per mezzo della indi nata poetica logica, andiamo a scuoprire l’origine delle lingue e delle lettere. D’intorno alle quali sono tante l’oppenioni quanti sono i dotti che n’hanno scritto. Talché Gerardo Giovanni Vossio nella Gramatica dice: «De literarum inventione multi multa congerunt, et fuse et confuse, ut ab iis incertus magis abeas quam veneras dudum». Ed Ermanno Ugone, De origine scribendi, osserva: «Nulla alla res est, in qua plures magisque pugnantes sententiae reperíantur, atque haec tractatio de literarum et scriptionis origine. Quantae sententiarum pugnae! Quid credas? quid non credas?». Onde Bernando da Melinckrot, De arte typographica, seguito in ciò da Ingewaldo Elingio, De historia linguae graecae, per l’incomprendevolitá della guisa, disse essere ritruovato divino.

429Ma la difficultá della guisa fu fatta da tutti i dotti per ciò: ch’essi stimarono cose separate l’origini delle lettere dall’origini delle lingue, le quali erano per natura congionte. E ’l dovevan pur avvertire dalle voci «gramatica» e «caratteri». Dalla prima, che «gramatica» si diffinisce «arte di parlare» e γράμματα sono le lettere, talché sarebbe a diffinirsi «arte di scrivere», qual Aristotile la diffiní e qual infatti ella dapprima nacque, come qui si dimostrerá che tutte le nazioni prima parlarono scrivendo, come quelle che furon dapprima mutole. Dipoi «caratteri» voglion dire «idee», «forme», «modelli», e certamente furono innanzi que’ de’ poeti che quelli de’ suoni [p. 177 modifica] articolati, come Giuseffo vigorosamente sostiene, contro Appione greco gramatico, che a’ tempi d’Omero non si erano ancor truovate le lettere dette «volgari». Oltracciò, se tali lettere fussero forme de’ suoni articolati e non segni a placito, dovrebbero appo tutte le nazioni esser uniformi, com’essi suoni articolati son uniformi appo tutte. Per tal guisa disperata a sapersi non si è saputo il pensare delle prime nazioni per caratteri poetici né ’l parlare per favole né lo scrivere per geroglifici; che dovevan esser i principi, che di lor natura han da esser certissimi, cosí della filosofia per l’umane idee, come della filologia per l’umane voci.

430In sí fatto ragionamento dovendo noi qui entrare, daremo un picciol saggio delle tante oppenioni che se ne sono avute, o incerte o leggeri o sconce o boriose o ridevoli, le quali, perocché sono tante e tali, si debbono tralasciare di riferirsi. Il saggio sia questo: che, perocché a’ tempi barbari ritornati la Scandinavia, ovvero Scanzia, per la boria delle nazioni fu detta «vagina gentium» e fu creduta la madre di tutte l’altre del mondo, per la boria de’ dotti furono d’oppenione Giovanni ed Olao Magni ch’i loro goti avessero conservate le lettere fin dal principio del mondo, divinamente ritruovate da Adamo; del qual sogno si risero tutti i dotti. Ma non pertanto si ristò di seguirgli e d’avanzargli Giovanni Goropio Becano, che la sua lingua cimbrica, la quale non molto si discosta dalla sassonica, fa egli venire dal paradiso terrestre e che sia la madre di tutte l’altre; della qual oppenione fecero le favole Giuseppe Giusto Scaligero, Giovanni Camerario, Cristoforo Brecmanno e Martino Scoockio. E pure tal boria piú gonfiò e ruppe in quella d’Olao Rudbechio nella sua opera intitolata Atlantica, che vuole le lettere greche esser nate dalle rune, e che queste sien le fenicie rivolte, le quali Cadmo rendette nell’ordine e nel suono simili all’ebraiche, e finalmente i greci l’avessero dirizzate e tornate col regolo e col compasso; e, perché il ritruovatore tra essi è detto Mercurovman, vuole che ’l Mercurio che ritruovò le lettere agli egizi sia stato goto. Cotanta licenza d’oppinare d’intorno all’origini delle lettere deve far accorto il [p. 178 modifica] leggitore a ricevere queste cose che noi ne diremo, non solo con indifferenza di vedere che arrechino in mezzo di nuovo, ma con attenzione di meditarvi e di prenderle, quali debbon essere, per principi di tutto l’umano e divino sapere della gentilitá.

431Perché da questi principi: di concepir i primi uomini della gentilitá l’idee delle cose per caratteri fantastici di sostanze animate e mutoli; di spiegarsi con atti o corpi ch’avessero naturali rapporti all’idee (quanto, per esemplo, lo hanno l’atto di tre volte falciare o tre spighe per significare «tre anni»), e sí spiegarsi con lingua che naturalmente significasse, che Platone e Giamblico dicevano essersi una volta parlata nel mondo (che deve essere stata l’antichissima lingua atlantica, la quale eruditi vogliono che spiegasse l’idee per la natura delle cose, o sia per le loro naturali propietá): da questi principi, diciamo, tutti i filosofi e tutti i filologi dovevan incominciar a trattare dell’origini delle lingue e delle lettere. Delle quali due cose, per natura, com’abbiam detto, congionte, han trattato divisamente, onde loro è riuscita tanto difficile la ricerca dell’origini delle lettere, ch’involgeva egual difficultá quanto quella delle lingue, delle quali essi o nulla o assai poco han curato.

432Sul cominciarne adunque il ragionamento, poniamo per primo principio quella filologica degnitá: che gli egizi narravano, per tutta la scorsa del loro mondo innanzi, essersi parlate tre lingue, corrispondenti nel numero e nell’ordine alle tre etá scorse pur innanzi nel loro mondo: degli dèi, degli eroi e degli uomini; e dicevano la prima lingua essere stata geroglifica o sia sagra ovvero divina; la seconda, simbolica o per segni o sia per imprese eroiche; la terza pistolare per comunicare i lontani tra loro i presenti bisogni della lor vita. Delle quali tre lingue v’hanno due luoghi d’oro appo Omero nell’Iliade, per gli quali apertamente si veggono i greci convenir in ciò con gli egizi. De’ quali uno è dove narra che Nestore visse tre vite d’uomini diversilingui: talché Nestore dee essere stato un carattere eroico della cronologia stabilita per le tre lingue corrispondenti alle tre etá degli egizi; onde tanto dovette [p. 179 modifica] significare quel motto: «vivere gli anni di Nestore» quanto «vivere gli anni del mondo». L’altro è dove Enea racconta ad Achille che uomini diversilingui cominciaron ad abitar Ilio, dopoché Troia fu portata a’ lidi del mare e Pergamo ne divenne la ròcca. Con tal primo principio congiugniamo quella tradizione, pur degli egizi, che ’l loro Theut o Mercurio ritruovò e le leggi e le lettere.

433A queste veritá aggruppiamo quell’altre: ch’appo i greci i «nomi» significarono lo stesso che «caratteri», da’ quali i padri della Chiesa presero con promiscuo uso quelle due espressioni, ove ne ragionano de dívínis characteribus e de dívinis nominibus. E «nomen» e «definitio» significano la stessa cosa, ove in rettorica si dice «quaestio nominis», con la qual si cerca la diffinizione del fatto; e la nomenclatura de’ morbi è in medicina quella parte che diffinisce la natura di essi. Appo i romani i «nomi» significarono prima e propiamente «case diramate in molte famiglie». E che i primi greci avessero anch’essi avuto i «nomi» in sí fatto significato, il dimostrano i patronimici, che significano «nomi di padri», de’ quali tanto spesso fanno uso i poeti, e piú di tutti il primo di tutti Omero (appunto come i patrizi romani da un tribuno della plebe, appo Livio, son diffiniti «qui possunt nomine ciere patrem», «che possano usare il casato de’ loro padri»), i quali patronimici poi si sperderono nella libertá popolare di tutta la restante Grecia, e dagli Eraclidi si serbarono in Isparta, repubblica aristocratica. E in ragion romana «nomen» significa «diritto». Con somigliante suono appo i greci νόμος significa «legge» e da νόμος viene νόμισμα, come avverte Aristotile, che vuol dire «moneta»; ed etimologi vogliono che da νόμος venga detto a’ latini «numus». Appo i francesi «loy» significa «legge» ed «aloy» vuol dire «moneta»; e da’ barbari ritornati fu detto «canone» cosí la legge ecclesiastica come ciò che dall’enfiteuticario si paga al padrone del fondo datogli in enfiteusi. Per la quale uniformitá di pensare i latini forse dissero «ius» il diritto e ’l grasso delle vittime ch’era dovuto a Giove, che dapprima si disse Ious, donde poi derivarono [p. 180 modifica] i genitivi «Iovis» e «iuris» (lo che si è sopra accennato); come, appresso gli ebrei, delle tre parti che facevano dell’ostia pacifica, il grasso veniva in quella dovuta a Dio, che bruciavasi sull’altare. I latini dissero «praedia», quali dovettero dirsi prima i rustici che gli urbani, perocché, come appresso farem vedere, le prime terre colte furono le prime prede del mondo; onde il primo domare fu di terre si fatte, le quali perciò in antica ragion romana si dissero «manucaptae» (dalle quali restò detto «manceps» l’obbligato all’erario in roba stabile); e nelle romane leggi restaron dette «iura praediorum» le servitú che si dicon «reali», che si costituiscono in robe stabili. E tali terre dette «manucaptae» dovettero dapprima essere e dirsi «mancipio», di che certamente dee intendersi la legge delle XII Tavole nel capo «Qui nexum faciet mancipiumque», cioè «chi fará la consegna del nodo, e con quella consegnerá il podere»; onde, con la stessa mente degli antichi latini, gl’italiani appellarono «poderi», perché acquistati con forza. E si convince da ciò che i barbari ritornati dissero «presas terrarum» i campi co’ loro termini; gli spagnuoli chiamano «prendas» l’imprese forti; gl’italiani appellano «imprese» l’armi gentilizie, e dicono «termini» in significazion di «parole» (che restò in dialettica scolastica), e l’armi gentilizie chiamano altresi «insegne», onde agli stessi viene il verbo «insegnare». Come Omero, al cui tempo non si erano ancor truovate le lettere dette «volgari», la lettera di Preto ad Euria contro Bellerofonte dice essere stata scritta «per σήματα», «per segni».

434Con queste cose tutte facciano il cumolo queste ultime tre incontrastate veritá: la prima, che, dimostrato le prime nazioni gentili tutte essere state mutole ne’ loro incominciamenti, dovettero spiegarsi per atti o corpi che avessero naturali rapporti alle loro idee; la seconda, che con segni dovettero assicurarsi de’ confini de’ lor poderi ed avere perpetue testimonianze de’ lor diritti; la terza, che tutte si sono truovate usare monete. Tutte queste veritá ne daranno qui le origini delle lingue e delle lettere e, quivi dentro, quelle de’ geroglifici, delle leggi, [p. 181 modifica] de’ nomi, dell’imprese gentilizie, delle medaglie, delle monete e della lingua e scrittura con la quale parlò e scrisse il primo diritto naturai delle genti.

435E per istabilire di tutto ciò piú fermamente i principi, è qui da convellersi quella falsa oppenione ch’i geroglifici furono ritruovati di filosofi per nascondervi dentro i loro misteri d’alta sapienza riposta, come han creduto degli egizi. Perché fu comune naturale necessitá di tutte le prime nazioni di parlare con geroglifici (di che sopra si è proposta una degnitá); come nell’Affrica l’abbiamo giá [veduto] degli egizi, a’ quali con Eliodoro, Delle cose dell’Etiopia, aggiugniamo gli etiopi, i quali si servirono per geroglifici degli strumenti di tutte l’arti fabbrili. Nell’Oriente lo stesso dovett’essere de’ caratteri magici de’ caldei. Nel settentrione dell’Asia abbiamo sopra veduto che Idantura, re degli sciti, ne’ tempi assai tardi (posta la loro sformata antichitá, nella quale avevano vinto essi egizi, che si vantavano essere gli antichissimi di tutte le nazioni), con cinque parole reali risponde a Dario il maggiore che gli aveva intimato la guerra; che furono una ranocchia, un topo, un uccello, un dente d’aratro ed un arco da saettare. La ranocchia significava ch’esso era nato dalla terra della Scizia, come dalla terra nascono, piovendo l’está, le ranocchie, e sí esser figliuolo di quella terra. Il topo significava, esso, come topo, dov’era nato aversi fatto la casa, cioè aversi fondato la gente. L’uccello significava aver ivi esso gli auspici, cioè, come vedremo appresso, che non era ad altri soggetto ch’a Dio. L’aratro significava aver esso ridutte quelle terre a coltura, e sí averle dome e fatte sue con la forza. E finalmente l’arco da saettare significava ch’esso aveva nella Scizia il sommo imperio dell’armi, da dover e poterla difendere. La qual spiegazione cosí naturale e necessaria si componga con le ridevoli ch’appresso san Cirillo lor dánno i consiglieri di Dario, e pruoverá ad evidenza generalmente che finora non si è saputo il propio e vero uso de’ geroglifici che celebrarono i primi popoli, col combinare le interpetrazioni de’ consiglieri di Dario date a’ geroglifici scitici con le lontane, raggirate e contorte c’han dato i dotti a’geroglifici egizi. De’ [p. 182 modifica] latini non ci lasciò la storia romana privi di qualche tradizione nella risposta eroica muta che Tarquinio superbo manda al figliuolo in Gabi, col farsi vedere al messaggiero troncar capi di papaveri con la bacchetta che teneva tra mani; lo che è stato creduto fatto per superbia, ove bisognava tutta la confidenza. Nel settentrione d’Europa osserva Tacito, ove ne scrive i costumi, ch’i Germani antichi non sapevano «literarum secreta», cioè che non sapevano scriver i loro geroglifici; lo che dovette durare fin a’ tempi di Federico suevo, anzi fin a quelli di Ridolfo d’Austria, da che incominciarono a scriver diplomi in iscrittura volgar tedesca. Nel settentrione della Francia vi fu un parlar geroglifico, detto «rebus de Picardie», che dovett’essere, come nella Germania, un parlar con le cose, cioè co’ geroglifici d’Idantura. Fino nell’ultima Tule e nell’ultima di lei parte, in Iscozia, narra Ettorre Boezio nella Storia della Scozia quella nazione anticamente aver scritto con geroglifici. Nell’Indie occidentali i messicani furono ritruovati scriver per geroglifici, e Giovanni di Laet nella sua Descrizione della Nuova India descrive i geroglifici degl’indiani essere diversi capi d’animali, piante, fiori, frutte, e per gli loro ceppi distinguere le famiglie; ch’è lo stesso uso appunto c’hanno l’armi gentilizie nel mondo nostro. Nell’Indie orientali i chinesi tuttavia scrivono per geroglifici.

436Cosí è sventata cotal boria de’ dotti che vennero appresso (che tanto non osò gonfiare quella de’ boriosissimi egizi): che gli altri sappienti del mondo avessero appreso da essi di nascondere la loro sapienza riposta sotto de’ geroglifici.

437Posti tali principi di logica poetica e dileguata tal boria de’ dotti, ritorniamo alle tre lingue degli egizi. Nella prima delle quali, ch’è quella degli dèi, come si è avvisato nelle Degnitá, per gli greci vi conviene Omero, che in cinque luoghi di tutti e due i suoi poemi fa menzione d’una lingua piú antica della sua, la qual è certamente lingua eroica, e la chiama «lingua degli dèi». Tre luoghi sono nell’Iliade; il primo ove narra «Briareo» dirsi dagli dèi, «Egeone» dagli uomini; il secondo, ove racconta d’un uccello, che gli dèi chiamano χαλκίδα. [p. 183 modifica] gli uomini κύμινδιν; il terzo, che ’l fiume di Troia gli dèi «Xanto», gli uomini chiamano «Scamandro». Nell’Odissea sono due: uno, che gli dèi chiamano πλαγκτάς; πἐτρας «Scilla e Cariddi» che dicon gli uomini; l’altro, ove Mercurio dá ad Ulisse un segreto contro le stregonerie di Circe, che dagli dèi è appellato μῶλυ ed è affatto niegato agli uomini di sapere. D’intorno a’ quali luoghi Platone dice molte cose, ma vanamente; talché poi Dion Crisostomo ne calogna Omero d’impostura, ch’esso intendesse la lingua degli dèi, ch’è naturalmente niegato agli uomini. Ma dubitiamo che non forse in questi luoghi d’Omero si debbano gli «dèi» intendere per gli «eroi», i quali, come poco appresso si mostrerá, si presero il nome di «dèi» sopra i plebei delle loro cittá, ch’essi chiamavan «uomini» (come a’ tempi barbari ritornati i vassalli si dissero «homines», che osserva con maraviglia Ottomano), e i grandi signori (come nella barbarie ricorsa) facevano gloria di avere maravigliosi segreti di medicina; e cosí queste non sien altro che differenze di parlari nobili e di parlari volgari. Però, senza alcun dubbio, per gli latini vi si adoperò Varrone, il quale, come nelle Degnitá si è avvisato, ebbe la diligenza di raccogliere trentamila [nomi di] dèi, che dovettero bastare per un copioso vocabolario divino, da spiegare le genti del Lazio tutte le lor bisogne umane, ch’in que’ tempi semplici e parchi dovetter esser pochissime, perch’erano le sole necessarie alla vita. Anco i greci ne numerarono trentamila, come nelle Degnitá pur si è detto, i quali d’ogni sasso, d’ogni fonte o ruscello, d’ogni pianta, d’ogni scoglio fecero deitadi, nel qual numero sono le driadi, l’amadriadi, l’orcadi, le napee; appunto come gli americani ogni cosa che supera la loro picciola capacitá fanno dèi. Talché le favole divine de’ latini e de’ greci dovetter essere i veri primi geroglifici, o caratteri sagri o divini, degli egizi.

438Il secondo parlare, che risponde all’etá degli eroi, dissero gli egizi essersi parlato per simboli, a’ quali sono da ridursi l’imprese eroiche, che dovetter essere le somiglianze mute che da Omero si dicono σήματα (i segni co’ quali scrivevan gli eroi); e ’n conseguenza dovetter essere metafore o immagini [p. 184 modifica] o simiglianze o comparazioni, che poi, con lingua articolata, fanno tutta la suppellettile della favella poetica. Perché certamente Omero, per una risoluta niegazione di Giuseffo ebreo che non ci sia venuto scrittore piú antico di lui, egli vien ad essere il primo autor della lingua greca, e, avendo noi da’ greci tutto ciò che di essa n’è giunto, fu il primo autore di tutta la gentilitá. Appo i latini le prime memorie della loro lingua son i frammenti de’ Carmi saliari, e ’l primo scrittore che ce n’è stato narrato è Livio Andronico poeta. E dal ricorso della barbarie d’Europa, essendovi rinnate altre lingue, la prima lingua degli spagnuoli fu quella che dicono «di romanzo» e, ’n conseguenza, di poesia eroica (perché i romanzieri furon i poeti eroici de’ tempi barbari ritornati); in Francia, il primo scrittore in volgar francese fu Arnaldo Daniel Pacca, il primo di tutti i provenzali poeti, che fiorí nell’undecimo secolo; e finalmente i primi scrittori in Italia furon i rimatori fiorentini e siciliani.

439Il parlare pistolare degli egizi, convenuto a spiegare le bisogne della presente comun vita tra gli lontani, dee esser nato dal volgo d’un popolo principe dell’Egitto, che dovett’esser quello di Tebe (il cui re, Ramse, come si è sopra detto, distese l’imperio sopra tutta quella gran nazione), perché per gli egizi corrisponda questa lingua all’etá degli «uomini», quali si dicevano le plebi de’ popoli eroici a differenza de’ lor eroi, come si è sopra detto. E dee concepirsi esser provenuto da libera loro convenzione, per questa eterna propietá: ch’è diritto de’ popoli il parlare e lo scriver volgare; onde Claudio imperadore avendo ritruovato tre altre lettere ch’abbisognavano alla lingua latina, il popolo romano non le volle ricevere, come gl’italiani non han ricevuto le ritruovate da Giorgio Trissino, che si sentono mancare all’italiana favella.

440Tali parlari pistolari, o sieno volgari, degli egizi si dovettero scrivere con lettere parimente volgari, le quali si truovano somiglianti alle volgari fenicie; ond’è necessario che gli uni l’avessero ricevute dagli altri. Coloro che oppinano gli egizi essere stati i primi ritruovatori di tutte le cose necessarie o utili all’umana societá, in conseguenza di ciò debbon dire [p. 185 modifica] che gli egizi l’avessero insegnate a’ fenici. Ma Clemente alessandrino, il quale dovett’esser informato meglio ch’ogni altro qualunque autore delle cose di Egitto, narra che Sancunazione o Sancuniate fenice (il quale nella Tavola cronologica sta allogato nell’etá degli eroi di Grecia) avesse scritto in lettere volgari la storia fenicia, e si il propone come primo autore della gentilitá ch’abbia scritto in volgari caratteri; per lo qual luogo hassi a dire ch’i fenici, i quali certamente furono il primo popolo mercatante del mondo, per cagione di traffichi entrati in Egitto, v’abbiano portato le lettere loro volgari. Ma senza alcun uopo d’argomenti e di congetture, la volgare tradizione ci accerta ch’essi fenici portarono le lettere in Grecia; sulla qual tradizione riflette Cornelio Tacito che le vi portarono come ritruovate da sé le lettere ritruovate da altri, che intende le geroglifiche egizie. Ma, perché la volgar tradizione abbia alcun fondamento di vero (come abbiamo universalmente pruovato tutte doverlo avere), diciamo che vi portarono le geroglifiche ricevute da altri, che non poteron essere ch’i caratteri mattematici o figure geometriche ch’essi ricevute avevano da’ caldei (i quali senza contrasto furono i primi mattematici e spezialmente i primi astronomi delle nazioni; onde Zoroaste caldeo, detto cosí perché «osservatore degli astri», come vuole il Bocharto, fu il primo sappiente del gentilesimo), e se ne servirono per forme di numeri nelle loro mercatanzie, per cagion delle quali molto innanzi d’Omero praticavano nelle marine di Grecia. Lo che ad evidenza si pruova da essi poemi d’Omero, e spezialmente dall’Odissea, perché a’ tempi d’Omero Gioseffo vigorosamente sostiene contro Appione greco gramatico che le lettere volgari non si erano ancor truovate tra’ greci. I quali, con sommo pregio d’ingegno, nel quale certamente avvanzarono tutte le nazioni, trasportarono poi tai forme geometriche alle forme de’ suoni articolati diversi, e con somma bellezza ne formarono i volgari caratteri delle lettere; le quali poscia si presero da’ latini, ch’il medesimo Tacito osserva essere state somiglianti all’antichissime greche. Di che gravissima pruova è quella ch’i greci per lunga etá, e fin agli ultimi loro tempi i latini, [p. 186 modifica] usarono lettere maiuscole per scriver numeri; che dev’esser ciò che Demarato corintio e Carmenta, moglie d’Evandro arcade, abbiano insegnato le lettere alli latini, come spiegheremo appresso che furono colonie greche, oltramarine e mediterranee, dedotte anticamente nel Lazio.

441Né punto vale ciò che molti eruditi contendono: — le lettere volgari dagli ebrei esser venute a’ greci, perocché l’appellazione di esse lettere si osserva quasi la stessa appo degli uni e degli altri; — essendo piú ragionevole che gli ebrei avessero imitata tal appellazione da’ greci che questi da quelli. Perché dal tempo ch’Alessandro magno conquistò l’imperio dell’Oriente (che dopo la di lui morte si divisero i di lui capitani), tutti convengono che ’l sermon greco si sparse per tutto l’Oriente e l’Egitto; e convenendo ancor tutti che la gramatica s’introdusse assai tardi tra essi ebrei, necessaria cosa è ch’i letterati ebrei appellassero le lettere ebraiche con l’appellazione de’ greci. Oltrecché, essendo gli elementi semplicissimi per natura, dovettero dapprima i greci battere semplicissimi i suoni delle lettere, che per quest’aspetto si dovettero dire «elementi»; siccome seguitarono a batterle i latini colla stessa gravitá (con che conservarono le forme delle lettere simiglianti all’antichissime greche): laonde fa d’uopo dire che tal appellazione di lettere con voci composte fussesi tardi introdotta tra essi greci, e piú tardi da’ greci si fusse in Oriente portata agli ebrei.

442Per le quali cose ragionate si dilegua l’oppenion di coloro che vogliono Cecrope egizio aver portato le lettere volgari a’ greci. Perché l’altra di coloro che stimano che Cadmo fenice le vi abbia portato da Egitto perocché fondò in Grecia una cittá col nome di Tebe, capitale della maggior dinastia degli egizi, si solverá appresso co’ principi della Geografia poetica; per gli quali truoverassi ch’i greci, portatisi in Egitto, per una qualche simiglianza colla loro Tebe natia avessero quella capitale d’Egitto cosí chiamata. E finalmente s’intende perché avveduti critici, come riferisce l’autor anonimo inglese nell’Incertezza delle scienze, giudicano che per la sua troppa antichitá cotal Sancuniate non mai sia stato nel mondo. Onde noi, per [p. 187 modifica] non tôrlo affatto dal mondo, stimiamo doversi porre a tempi piú bassi, e certamente dopo d’Omero; e per serbare maggior antichitá a’ fenici sopra de’greci d’intorno all’invenzion delle lettere che si dicon «volgari» (con la giusta proporzione, però, di quanto i greci furono piú ingegnosi d’essi fenici), si ha a dire che Sancuniate sia stato alquanto innanzi d’Erodoto (il quale fu detto «padre della storia de’ greci», la quale scrisse con favella volgare), per quello che Sancuniate fu detto lo «storico della veritá», cioè scrittore del tempo istorico che Varrone dice nella sua divisione de’ tempi: del qual tempo, per la divisione delle tre lingue degli egizi, corrispondente alle tre etá del mondo scorse loro dinnanzi, essi parlarono con lingua pistolare, scritta con volgari caratteri.

443Or, siccome la lingua eroica ovvero poetica si fondò dagli eroi, cosí le lingue volgari sono state introdutte dal volgo, che noi dentro ritruoveremo essere state le plebi de’ popoli eroici. Le quali lingue propiamente da’ latini furono dette «vernaculae », che non potevan introdurre quelli «vernae» che i gramatici diffiniscono «servi nati in casa dagli schiavi che si facevano in guerra», i quali naturalmente apprendono le lingue de’ popoli dov’essi nascono. Ma dentro si truoverá ch’i primi e propiamente detti «vernae» furon i famoli degli eroi nello stato delle famiglie, da’ quali poi si compose il volgo delle prime plebi dell’eroiche cittá, e furono gli abbozzi degli schiavi, che finalmente dalle cittá si fecero con le guerre. E tutto ciò si conferma con le due lingue che dice Omero: una degli dèi, altra degli uomini, che noi qui sopra spiegammo «lingua eroica» e «lingua volgare», e quindi a poco lo spiegheremo vieppiú.

444Ma delle lingue volgari egli è stato ricevuto con troppo di buona fede da tutti i filologi: ch’elleno significassero a placito; perch’esse, per queste lor origini naturali, debbon aver significato naturalmente. Lo che è facile osservare nella lingua volgar latina (la qual è piú eroica della greca volgare, e perciò piú robusta quanto quella è piú dilicata), che quasi tutte le voci ha formate per trasporti di nature o per propietá naturali o per [p. 188 modifica] effetti sensibili; e generalmente la metafora fa il maggior corpo delle lingue appo tutte le nazioni. Ma i gramatici, abbattutisi in gran numero di vocaboli che danno idee confuse e indistinte di cose, non sappiendone le origini, che le dovettero dapprima formare luminose e distinte, per dar pace alla loro ignoranza, stabilirono universalmente la massima che le voci umane articolate significano a placito, e vi trassero Aristotile con Galeno ed altri filosofi, e gli armarono contro Platone e Giamblico, come abbiam detto.

445Ma pur rimane la grandissima difficultá: come, quanti sono i popoli, tante sono le lingue volgari diverse? La qual per isciogliere, è qui da stabilirsi questa gran veritá: che, come certamente i popoli per la diversitá de’ climi han sortito varie diverse nature, onde sono usciti tanti costumi diversi; cosí dalle loro diverse nature e costumi sono nate altrettante diverse lingue: talché, per la medesima diversitá delle loro nature, siccome han guardato le stesse utilitá o necessitá della vita umana con aspetti diversi, onde sono uscite tante per lo piú diverse ed alle volte tra lor contrarie costumanze di nazioni; cosí e non altrimente son uscite in tante lingue, quant’esse sono, diverse. Lo che si conferma ad evidenza co’ proverbi, che sono massime di vita umana, le stesse in sostanza, spiegate con tanti diversi aspetti quante sono state e sono le nazioni, come nelle Degnitá si è avvisato. Quindi le stesse origini eroiche, conservate in accorcio dentro i parlari volgari, han fatto ciò che reca tanta maraviglia a’ critici bibbici: ch’i nomi degli stessi re, nella storia sagra detti d’una maniera, si leggono d’un’altra nella profana; perché l’una per avventura [considerò] gli uomini per lo riguardo dell’aspetto, della potenza; l’altra per quello de’ costumi, dell’imprese o altro che fusse stato: come tuttavia osserviamo le cittá d’Ungheria altrimente appellarsi dagli ungheri, altrimente da’ greci, altrimente da’ tedeschi, altrimente da’ turchi. E la lingua tedesca, ch’è lingua eroica vivente, ella trasforma quasi tutti i nomi delle lingue straniere nelle sue propie natie; lo che dobbiam congetturare aver fatto i latini e i greci ove ragionano di tante cose barbare con bell’aria greca e latina. [p. 189 modifica] La qual dee essere la cagione dell’oscurezza che s’incontra nell’antica geografia e nella storia naturale de’ fossili, delle piante e degli animali. Perciò da noi in quest’opera la prima volta stampata si è meditata un’Idea d’un dizionario mentale da dare le significazioni a tutte le lingue articolate diverse, riducendole tutte a certe unitá d’idee in sostanza, che, con varie modificazioni guardate da’ popoli, hanno da quelli avuto vari diversi vocaboli; del quale tuttavia facciamo uso nel ragionar questa Scienza. E ne diemmo un pienissimo saggio nel capo quarto, dove facemmo vedere i padri di famiglia, per quindeci aspetti diversi osservati nello stato delle famiglie e delle prime repubbliche, nel tempo che si dovettero formare le lingue (del qual tempo sono gravissimi gli argomenti d’intorno alle cose i quali si prendono dalle natie significazioni delle parole, come se n’è proposta una degnitá), essere stati appellati con altrettanti diversi vocaboli da quindeci nazioni antiche e moderne; il qual luogo è uno degli tre per gli quali non ci pentiamo di quel libro stampato. Il qual Dizionario ragiona per altra via l’argomento che tratta Tommaso Hayne nella dissertazione De linguarum cognatione e nell’altre De linguis in genere e Variarum linguarum harmonia. Da tutto lo che si raccoglie questo corollario: che quanto le lingue sono piú ricche di tali parlari eroici accorciati tanto sono piú belle, e per ciò piú belle perché son piú evidenti, e perché piú evidenti sono piú veraci e piú fide; e, al contrario, quanto sono piú affollate di voci di tali nascoste origini sono meno dilettevoli, perché oscure e confuse, e perciò piú soggette ad inganni ed errori. Lo che dev’essere delle lingue formate col mescolamento di molte barbare, delle quali non ci è venuta la storia delle loro origini e de’ loro trasporti.

446Ora, per entrare nella difficilissima guisa della formazione di tutte e tre queste spezie e di lingue e di lettere, è da stabilirsi questo principio: che, come dallo stesso tempo cominciarono gli dèi, gli eroi e gli uomini (perch’eran pur uomini quelli che fantasticaron gli dèi e credevano la loro natura eroica mescolata di quella degli dèi e di quella degli uomini), cosí [p. 190 modifica] nello stesso tempo cominciarono tali tre lingue intendendo sempre andar loro del pari le lettere); però con queste tre grandissime differenze: che la lingua degli dèi fu quasi tutta muta, pochissima articolata; la lingua degli eroi, mescolata egualmente e di articolata e di muta, e ’n conseguenza di parlari volgari e di caratteri eroici co’ quali scrivevano gli eroi, che σήματα dice Omero; la lingua degli uomini, quasi tutta articolata e pochissima muta, perocché non vi ha lingua volgare cotanto copiosa ove non sieno piú le cose che le sue voci. Quindi fu necessario che la lingua eroica nel suo principio fusse sommamente scomposta; ch’è un gran fonte dell’oscuritá delle favole. Di che sia esemplo insigne quella di Cadmo: egli uccide la gran serpe, ne semina i denti, da’ solchi nascono uomini armati, gitta una gran pietra tra loro, questi a morte combattono, e finalmente esso Cadmo si cangia in serpe. Cotanto fu ingegnoso quel Cadmo il qual portò le lettere a’ greci, di cui fu trammandata questa favola, che, come la spiegheremo appresso, contiene piú centinaia d’anni di storia poetica!

447In séguito del giá detto, nello stesso tempo che si formò il carattere divino di Giove, che fu il primo di tutt’i pensieri umani della gentilitá, incominciò parimente a formarsi la lingua articolata con l’onomatopea, con la quale tuttavia osserviamo spiegarsi felicemente i fanciulli. Ed esso Giove fu da’ latini, dal fragor del tuono, detto dapprima «Ious»; dal fischio del fulmine da’ greci fu detto Ζεύς; dal suono che dá il fuoco ove brucia, dagli orientali dovett’essere detto «Ur», onde venne «Urim», la potenza del fuoco; dalla quale stessa origine dovett’a’ greci venir detto οὐράνός, il cielo, ed ai latini il verbo «uro», «bruciare»; a’ quali, dallo stesso fischio del fulmine, dovette venire «cel», uno dei monosillabi d’Ausonio, ma con pronunziarlo con la «ç» degli spagnuoli, perché costí l’argutezza del medesimo Ausonio, ove di Venere cosí bisquitta:

Nata salo, suscepta solo, patre edita caelo.

[p. 191 modifica] Dentro le quali origini è da avvertirsi che, con la stessa sublimitá dell’invenzione della favola di Giove, qual abbiamo sopra osservato, incomincia egualmente sublime la locuzion poetica con l’onomatopea, la quale certamente Dionigi Longino pone tra’ fonti del sublime, e l’avvertisce, appo Omero, nel suono che diede l’occhio di Polifemo, quando vi si ficcò la trave infuocata da Ulisse, che fece otf;;

448Seguitarono a formarsi le voci umane con l’interiezioni, che sono voci articolate all’émpito di passioni violente, che ’n tutte le lingue son monosillabe. Onde non è fuor del verisimile che, da’ primi fulmini incominciata a destarsi negli uomini la maraviglia, nascesse la prima interiezione da quella di Giove, formata con la voce «pa!», e che poi restò raddoppiata «pape!», interiezione di maraviglia, onde poi nacque a Giove il titolo di «padre degli uomini e degli dèi», e quindi appresso che tutti gli dèi se ne dicessero «padri», e «madri» tutte le dèe; di che restaron ai latini le voci «Iupiter», «Diespiter», «Marspiter», «Iuno genitrix». La quale certamente le favole narranci essere stata sterile; ed osservammo, sopra, tanti altri dèi e dèe nel cielo non contrarre tra essolor matrimonio (perché Venere fu detta «concubina», non giá «moglie» di Marte), e nulla di meno tutti appellavansi «padri» (di che vi hanno alcuni versi di Lucilio, riferiti nelle Note al Diritto universale). E si dissero «padri» nel senso nel quale «patrare» dovette significare dapprima il fare, ch’è propio di Dio, come vi conviene anco la lingua santa ch’in narrando la criazione del mondo, dice che nel settimo giorno Iddio riposò «ab opere quod patrarat». Quindi dev’essere stato detto «impetrare», che si disse quasi «impatrare», che nella scienza augurale si diceva «impetrire», ch’era «riportare il buon augurio», della cui origine dicono tante inezie i latini gramatici. Lo che pruova che la prima interpetrazione fu delle leggi divine ordinate con gli auspici, cosí detta quasi «interpatratio».

449Or si fatto divino titolo, per la natural ambizione dell’umana superbia, avendosi arrogato gli uomini potenti nello stato delle famiglie, essi si appellarono «padri» (lo che forse diede [p. 192 modifica] motivo alla volgar tradizione ch’i primi uomini potenti della terra si fecero adorare per dèi); ma, per la pietá dovuta ai numi, quelli i numi dissero «dèi», ed appresso anco, presosi gli uomini potenti delle prime cittá il nome di «dèi», per la stessa pietá i numi dissero «dèi immortali», a differenza dei «dèi mortali», ch’eran tali uomini. Ma in ciò si può avvertire la goffagine di tai giganti, qual i viaggiatori narrano de los patacones. Della quale vi ha un bel vestigio in latinitá, lasciatoci nell’antiche voci «pipulum» e «pipare» nel significato di «querela» e di «querelarsi», che dovette venire dall’interiezione di lamento «pi, pi»; nel qual sentimento vogliono che «pipulum» appresso Plauto sia lo stesso che «obvagulatio» delle XII Tavole, la qual voce deve venir da «vagire», ch’è propio il piagnere de’ fanciulli. Talché è necessario dall’interiezione di spavento esser nata a’ greci la voce παιάν, incominciata da παί; di che vi ha appo essi un’aurea tradizione antichissima: ch’i greci, spaventati dal gran serpente detto Pitone, invocarono in loro soccorso Apollo con quelle voci: ιω παιaν, che prima tre volte batterono tarde, essendo illanguiditi dallo spavento, e poi, per lo giubilo perch’avevalo Apollo ucciso, gli acclamarono altrettante volte battendole preste, col dividere l’ω in due οο, e ’l dittongo αι in due sillabe. Onde nacque naturalmente il verso eroico prima spondaico e poi divenne dattilico, e ne restò quell’eterna propietá ch’egli in tutte l’altre sedi cede il luogo al dattilo, fuorché nell’ultima. E naturalmente nacque il canto, misurato dal verso eroico, agl’impeti di passioni violentissime, siccome tuttavia osserviamo nelle grandi passioni gli uomini dar nel canto e, sopra tutti, i sommamente afflitti ed allegri, come si è detto nelle Degnitá. Lo che qui detto quindi a poco recherá molto uso ove ragioneremo dell’origini del canto e de’ versi.

450S’innoltrarono a formar i pronomi, imperocché l’interiezioni sfogano le passioni propie, lo che si fa anco da soli, ma i pronomi servono per comunicare le nostre idee con altrui d’intorno a quelle cose che co’ nomi propi o noi non sappiamo appellare o altri non sappia intendere. E i pronomi, pur quasi [p. 193 modifica] tutti, in tutte le lingue la maggior parte son monosillabi; il primo de’ quali, o almeno tra’ primi, dovett’esser quello di che n’è rimasto quel luogo d’oro d’Ennio:

Aspice hoc sublime cadens, quem omnes invocant Iovem,

ov’è detto «hoc» invece di «caelum», e ne restò in volgar latino

Luciscit hoc iam

invece di «albescit caelum». E gli articoli dalla lor nascita hanno questa eterna propietá: d’andare innanzi a’ nomi a’ quali son attaccati.

451Dopo si formarono le particelle, delle quali sono gran parte le preposizioni, che pure quasi in tutte le lingue son monosillabe; che conservano col nome questa eterna propietá: di andar innanzi a’ nomi che le domandano ed a’ verbi co’ quali vanno a comporsi.

452Tratto tratto s’andarono formando i nomi; de’ quali nell’Origini della lingua latina, ritruovate in quest’opera la prima volta stampata, si novera una gran quantitá nati dentro del Lazio, dalla vita d’essi latini selvaggia, per la contadinesca, infin alla prima civile, formati tutti monosillabi, che non han nulla di origini forestiere, nemmeno greche, a riserba di quattro voci: βοῡς, οῡς, μῡς, σηψ, ch’a’ latini significa «siepe» e a’ greci «serpe». Il qual luogo è l’altro degli tre che stimiamo esser compiuti in quel libro, perch’egli può dar l’esemplo a’ dotti dell’altre lingue di doverne indagare l’origini con grandissimo frutto della repubblica letteraria; come certamente la lingua tedesca, ch’è lingua madre (perocché non vi entrarono mai a comandare nazioni straniere), ha monosillabe tutte le sue radici. Ed esser nati i nomi prima de’ verbi ci è appruovato da questa eterna propietá: che non regge orazione se non comincia da nome ch’espresso o taciuto la regga.

453Finalmente gli autori delle lingue si formarono i verbi, come osserviamo i fanciulli spiegar nomi, particelle, e tacer i verbi. Perché i nomi destano idee che lasciano fermi vestigi; le [p. 194 modifica] particelle, che significano esse modificazioni, fanno il medesimo; ma i verbi significano moti, i quali portano l’innanzi e ’l dopo, che sono misurati dall’indivisibile del presente, difficilissimo ad intendersi dagli stessi filosofi. Ed è un’osservazione fisica che di molto appruova ciò che diciamo, che tra noi vive un uomo onesto, tócco da gravissima apoplessia, il quale mentova nomi e si è affatto dimenticato de’ verbi. E pur i verbi che sono generi di tutti gli altri — quali sono «sum» dell’essere, al quale si riducono tutte l’essenze, ch’è tanto dire tutte le cose metafisiche; «sto» della quiete, «eo» del moto, a’ quali si riducono tutte le cose fisiche; «do», «dico» e «facio», a’ quali si riducono tutte le cose agibili, sien o morali o famigliari o finalmente civili — dovetter incominciare dagl’imperativi; perché nello stato delle famiglie, povero in sommo grado di lingua, i padri soli dovettero favellare e dar gli ordini a’ figliuoli ed a’ famoli, e questi, sotto i terribili imperi famigliari, quali poco appresso vedremo, con cieco ossequio dovevano tacendo eseguirne i comandi. I quali imperativi sono tutti monosillabi, quali ci son rimasti «es», «sta», «i», «da», «dic», «fac».

454Questa generazione delle lingue è conforme a’ principi cosí dell’universale natura, per gli quali gli elementi delle cose tutte sono indivisibili, de’ quali esse cose si compongono e ne’ quali vanno a risolversi, come a quelli della natura particolare umana, per quella degnitá ch’«i fanciulli, nati in questa copia di lingue e c’hanno mollissime le fibbre dell’istromento da articolare le voci, le incominciano monosillabe». Che molto piú si dee stimare de’ primi uomini delle genti, i quali l’avevano durissime, né avevano udito ancor voce umana. Di piú ella ne dá l’ordine con cui nacquero le parti dell’orazione, e ’n conseguenza le naturali cagioni della sintassi.

455Le quali cose tutte sembrano piú ragionevoli di quello che Giulio Cesare Scaligero e Francesco Sanzio ne han detto a proposito della lingua latina; come se i popoli che si ritruovaron le lingue avessero prima dovuto andare a scuola d’Aristotile, coi cui principi ne hanno amendue ragionato!