La scienza nuova seconda/Libro secondo/Sezione seconda/Capitolo terzo
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[CAPITOLO TERZO]
corollari d’intorno al parlare per caratteri poetici
delle prime nazioni
412La favella poetica, com’abbiamo in forza di questa logica poetica meditato, scorse per cosí lungo tratto dentro il tempo istorico, come i grandi rapidi fiumi si spargono molto dentro il mare e serbano dolci l’acque portatevi con la violenza del corso; per quello che Giamblico ci disse sopra nelle Degnitá: che gli egizi tutti i loro ritruovati utili alla vita umana riferirono a Mercurio Trimegisto; il cui detto confermammo con quell’altra degnitá: ch’«i fanciulli con l’idee e nomi d’uomini, femmine, cose, c’hanno la prima volta vedute, apprendono ed appellano tutti gli uomini, femmine, cose appresso, c’hanno con le prime alcuna simiglianza o rapporto», e che questo era il naturale gran fonte de’ caratteri poetici, co’ quali naturalmente pensarono e parlarono i primi popoli. Alla qual natura di cose umane se avesse Giamblico riflettuto e vi avesse combinato tal costume ch’egli stesso riferisce degli antichi egizi, dicemmo nelle Degnitá che certamente esso ne’ misteri della sapienza volgare degli egizi non arebbe a forza intruso i sublimi misteri della sua sapienza platonica.
413Ora, per tale natura de’ fanciulli e per tal costume de’ primi egizi, diciamo che la favella poetica, in forza d’essi caratteri poetici, ne può dare molte ed importanti discoverte d’intorno all’antichitá.
I
414Che Solone dovett’esser alcuno uomo sappiente di sapienza volgare, il quale fusse capoparte di plebe ne’ primi tempi ch’Atene era repubblica aristocratica. Lo che la storia greca pur conservò ove narra che dapprima Atene fu occupata dagli ottimati — ch’è quello che noi in questi libri dimostreremo universalmente di tutte le repubbliche eroiche, nelle quali gli eroi, ovvero nobili, per una certa loro natura creduta di divina origine, per la quale dicevano essere loro propi gli dèi, e ’n conseguenza propi loro gli auspici degli dèi, in forza de’ quali chiudevano dentro i lor ordini tutti i diritti pubblici e privati dell’eroiche cittá, ed a’ plebei, che credevano essere d’origine bestiale, e ’n conseguenza esser uomini senza dèi e perciò senza auspici, concedevano i soli usi della natural libertá (ch’è un gran principio di cose che si ragioneranno per quasi tutta quest’opera) — e che tal Solone avesse ammonito i plebei ch’essi riflettessero a se medesimi e riconoscessero essere d’ugual natura umana co’ nobili, e ’n conseguenza che dovevan esser con quelli uguagliati in civil diritto. Se non, pure, tal Solone furon essi plebei ateniesi, per questo aspetto considerati.
415Perché anco i romani antichi arebbono dovuto aver un tal Solone fra loro; tra’ quali i plebei, nelle contese eroiche co’ nobili, come apertamente lo ci narra la storia romana antica, dicevano: i padri, de’ quali Romolo aveva composto il senato (da’ quali essi patrizi erano provenuti), «noti esse caelo demissos », cioè che non avevano cotale divina origine ch’essi vantavano e che Giove era a tutti eguale. Ch’è la storia civile di quel motto
... Iupiter omnibus aequus,
dove poi intrusero i dotti quel placito: che le menti son tutte eguali e che prendono diversitá dalla diversa organizzazione de’ corpi e dalla diversa educazione civile. Con la quale riflessione i plebei romani incominciaron ad adeguare co’ patrizi la civil libertá, fino che affatto cangiarono la romana repubblica da aristocratica in popolare, come l’abbiamo divisato per ipotesi nelle Annotazioni alla Tavola cronologica, ove ragionammo in idea della legge Publilia, e ’l faremo vedere di fatto, nonché della romana, essere ciò avvenuto di tutte l’altre antiche repubbliche, e con ragioni ed autoritá dimostreremo che versalmente, da tal riflessione di Solone principiando, le plebi de’ popoli vi cangiarono le repubbliche da aristocratiche in popolari.
416Quindi Solone fu fatto autore di quel celebre motto «Nosce te ipsum», il quale, per la grande civile utilitá ch’aveva arrecato al popolo ateniese, fu iscritto per tutti i luoghi pubblici di quella cittá; e poi gli addottrinati il vollero detto per un grande avviso, quanto infatti lo è, d’intorno alle metafisiche ed alle morali cose, e funne tenuto Solone per sappiente di sapienza riposta e fatto principe de’ sette saggi di Grecia. In cotal guisa, perché da tal riflessione incominciarono in Atene tutti gli ordini e tutte le leggi che formano una repubblica democratica, perciò, per questa maniera di pensare per caratteri poetici de’ primi popoli, tali ordini e tali leggi, come dagli egizi tutti i ritruovati utili alla vita umana civile a Mercurio Trimegisto, furon tutti dagli ateniesi richiamati a Solone.
II
417Cosi dovetter a Romolo esser attribuite tutte le leggi d’intorno agli ordini.
III
418A Numa, tante d’intorno alle cose sagre ed alle divine cerimonie, nelle quali poi comparve ne’ tempi suoi piú pomposi la romana religione.
IV
419A Tulio Ostilio, tutte le leggi ed ordini della militar disciplina.
V
420A Servio Tullio, il censo, ch’è il fondamento delle repubbliche democratiche, ed altre leggi in gran numero d’intorno alla popolar libertá, talché da Tacito vien acclamato «praecipuus sanctor legum». Perché, come dimostreremo, il censo di Servio Tullio fu pianta delle repubbliche aristocratiche, col qual i plebei riportarono da’ nobili il dominio bonitario de’ campi, per cagion del quale si criarono poi i tribuni della plebe per difender loro questa parte di naturail libertá, i quali poi, tratto tratto, fecero loro conseguire tutta la libertá civile. E cosí il censo di Servio Tullio, perché indi ne incominciarono l’occasioni e le mosse, diventò censo pianta della romana repubblica popolare, come si è ragionato nell’annotazione alla legge publilia per via d’ipotesi, e dentro si dimostrerá essere stato vero di fatto.
VI
421A Tarquinio Prisco, tutte l’insegne e divise, con le quali poscia a’ tempi piú luminosi di Roma risplendette la maestá dell’imperio romano.
VII
422Cosí dovettero affiggersi alle XII Tavole moltissime leggi che dentro dimostreremo essere state comandate ne’ tempi appresso; e (come si è appieno dimostrato ne’ Principi del diritto universale ), perché la legge del dominio quiritario da’ nobili accomunato a’ plebei fu la prima legge scritta in pubblica tavola (per la quale unicamente furono criati i decemviri), per cotal aspetto di popolar libertá tutte le leggi che uguagliarono la libertá e si scrissero dappoi in pubbliche tavole furono rapportate a’ decemviri. Siane pur qui una dimostrazione il lusso greco de’ funerali, che i decemviri non dovettero insegnarlo a’ romani col proibirlo, ma dopoché i romani l’avevano ricevuto; lo che non potè avvenire se non dopo le guerre co’ tarantini e con Pirro, nelle quali s’incominciarono a conoscer co’ greci. E quindi è che Cicerone osserva tal legge portata in latino con le stesse parole con le quali era stata conceputa in Atene.
VIII
423Cosí Dragone, autore delle leggi scritte col sangue nel tempo che la greca storia, come sopra si è detto, ci narra ch’Atene era occupata dagli ottimati. Che fu, come vedremo appresso, nel tempo dell’aristocrazie eroiche, nel quale la stessa greca storia racconta che gli Eraclidi erano sparsi per tutta la Grecia, anco nell’Attica, come sopra il proponemmo nella Tavola cronologica, i quali finalmente restarono nel Peloponneso e fermarono il loro regno in Isparta, la quale truoveremo essere stata certamente repubblica aristocratica. Cotal Dragone dovett’esser una di quelle serpi della Gorgone inchiovata allo scudo di Perseo, che si truoverá significare l’imperio delle leggi; il quale scudo con le spaventose pene insassi va coloro che ’l riguardavano, siccome nella storia sagra, perché tali leggi erano essi esemplari castighi, si dicono «leges sanguinis». E di tale scudo armossi Minerva, la quale fu detta Ἀθινᾱ, come sará piú appieno spiegato appresso; e appo i chinesi, i quali tuttavia scrivono per geroglifici (che dee far maraviglia una tal maniera poetica di pensare e spiegarsi tra queste due e per tempi e per luoghi lontanissime nazioni), un dragone è l’insegna dell’imperio civile. Perché di tal Dragone non si ha altra cosa da tutta la greca storia.
IX
424Questa istessa discoverta de’ caratteri poetici ci conferma Esopo, ben posto innanzi a’ sette saggi di Grecia, come il promettemmo nelle Note alla Tavola cronologica di farlo in questo luogo vedere. Perché tal filologica veritá ci è confermata da questa storia d’umane idee: ch’i sette saggi furon ammirati dall’incominciar essi a dare precetti di morale o di civil dottrina per massime, come quel celebre di Solone (il quale ne fu il principe): «Nosce te ipsum», che sopra abbiam veduto essere prima stato un precetto di dottrina civile, poi trasportato alla metafisica e alla morale. Ma Esopo aveva innanzi dati tali avvisi per somiglianze, delle quali piú innanzi i poeti si eran serviti per ispiegarsi. E l’ordine dell’umane idee è d’osservare le cose simili, prima per ispiegarsi, dappoi per pruovare; e ciò, prima con l’esemplo che si contenta d’una sola, finalmente con l’induzione che ne ha bisogno di piú. Onde Socrate, padre di tutte le sètte de’ filosofi, introdusse la dialettica con l’induzione, che poi compiè Aristotile col sillogismo, che non regge senza un universale. Ma alle menti corte basta arrecarsi un luogo dal somigliante per essere persuase; come con una favola, alla fatta di quelle ch’aveva truovato Esopo, il buono Menenio Agrippa ridusse la plebe romana sollevata all’ubbidienza.
425Ch’Esopo sia stato un carattere poetico de’ soci ovvero famoli degli eroi, con uno spirito d’indovino lo ci discuopre il ben costumato Fedro in un prologo delle sue Favole:
Nunc fabularum cur sit inventum genus, |
come la favola della societá lionina evidentemente lo ci conferma. Perché i plebei erano detti «soci» dell’eroiche cittá, come nelle Degnitá si è avvisato, e venivano a parte delle fatighe e pericoli nelle guerre, ma non delle prede e delle conquiste. Per ciò Esopo fu detto «servo», perché i plebei, come appresso sará dimostro, erano famoli degli eroi. E ci fu narrato brutto, perché la bellezza civile era stimata dal nascere da’ matrimoni solenni, che contraevano i soli eroi, com’anco appresso si mostrerá. Appunto come fu egli brutto Tersite, che dev’essere carattere de’ plebei che servivano agli eroi nella guerra troiana, ed è da Ulisse battuto con lo scettro di Agamennone; come gli antichi plebei romani a spalle nude erano battuti da’ nobili con le verghe, «regium in morem», al narrar di Sallustio appo sant’Agostino nella Cittá di Dio, finché la legge porzia allontanò le verghe dalle spalle romane.
426Tali avvisi, adunque, utili al viver civile libero, dovetter esser sensi che nudrivano le plebi dell’eroiche cittá, dettati dalla ragion naturale. De’ quali plebei per tal aspetto ne fu fatto carattere poetico Esopo, al quale poi furon attaccate le favole d’intorno alla morale filosofia; e ne fu fatto Esopo il primo morale filosofo nella stessa guisa che Solone fu fatto sappiente, ch’ordinò con le leggi la repubblica libera ateniese. E perch’Esopo diede tali avvisi per favole, fu fatto prevenire a Solone che gli diede per massime. Tali favole si dovettero prima concepire in versi eroici, come poi v’ha tradizione che furono concepute in versi giambici (co’ quali noi qui appresso truoveremo aver parlato le genti greche), in mezzo il verso eroico e la prosa, nella quale finalmente scritte ci sono giunte.
X
427In cotal guisa a’ primi autori della sapienza volgare furono rapportati i ritruovati appresso della sapienza riposta; e i Zoroasti in Oriente, i Trimegisti in Egitto, gli Orfei in Grecia, i Pittagori nell’Italia, di legislatori prima, furono poi finalmente creduti filosofi, come Confucio oggi lo è nella China. Perché certamente i pittagorici nella Magna Grecia, come dentro si mostrerá, si dissero in significato di «nobili», che, avendo attentato di ridurre tutte le loro repubbliche da popolari in aristocratiche, tutti furono spenti. E ’l Carme aureo di Pittagora sopra si è dimostrato esser un’impostura, come gli Oracoli di Zoroaste, il Pimandro del Trimegisto, gli Orfici o i versi d’Orfeo; né di Pittagora ad essi antichi venne scritto alcuno libro d’intorno a filosofia, e Filolao fu il primo pittagorico il qual ne scrisse, all’osservare dello Scheffero, De philosophia italica.