La rivoluzione di Napoli nel 1848/37. Esito della rivoluzione
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37. Accendere una rivoluzione è facil cosa. La rivoluzione è una poesia grandiosa, un poema in azione: e basta l’entusiasmo per darle la vita. La scienza difficile è organizzarla, incarnarla, immedesimarla alla società; in una parola, la scienza difficile è consumarla in tutte le conseguenze logiche del suo principio. Per ciò fare non basta l’ingegno e l’anima, ci vuole il genio: non bastano Mazzini e Kossuth, ci vogliono Bem e Garibaldi. La vita sociale entra in un’atmosfera straordinaria: le regole consuete quindi, se non sono irrazionali, sono inefficaci. Nelle rivoluzioni la regina della festa è la temerità. Guai a chi parla di transazione: guai a chi delira conciliazione! Queste due malattie dell’anima e della società diventano allora mortali. Se vi arrestate un istante solo nella corsa per respirare, l’antagonista vi passa sul corpo e vi schiaccia. Quale era la situazione di Calabria nel giugno 1848? Quattro corpi di soldatesca occuparono Reggio, Monteleone, Castrovillari e Rotonda. Gli uomini della rivoluzione allogarono loro di fronte quattro corpi di milizia cittadina. I generali del Borbone non si mossero, e lasciarono fare, perchè essi sapevano che la stagione delle messi approssimava, e quegli uomini non potevano restare lì a soffrire tutti i disagi della guerra, a cui non erano usi, mentre le biade deperivano. Lasciarono fare, perchè essi sapevano il tesoro dei Comitati non essere pingue, e che fra breve non potendo più pagare le masse, le quali ne abbisognavano per alimentarsi, esse si sarebbero o sciolte affatto, o assottigliate di molto. Lasciarono fare, perchè vedevano la rivoluzione non organizzata a dovere: perchè sapevano che, mentre Cosenza e Catanzaro inalberavano bandiera di guerra, Reggio nicchiava, titubava: perchè conoscevano che tra i Comitati delle tre provincie non vi era comunità d’idee, contemporaneità, intelligenza, operando ciascuno nella sua sfera e da sè: perchè vedevano la provincia stessa di Cosenza, la più pronunziata, divisa in tre campi. Lasciarono fare perchè essi travagliavano di soppiatto a minare il partito rivoluzionario, comprarlo, atterrirlo, lusingarlo, ed in tutti i casi smembrarlo o metterlo sulle uggie: perchè essi aspettavano rinforzi da Napoli, ed i vapori da guerra trafficavano incessanti a portarli: perchè essi speravano profittare di qualcuno degli incidenti impreveduti, di cui i tempi di torbidi civili sono spesso fertili: perchè la storia aveva loro insegnato che la pazienza e la disciplina non sono la virtù delle masse armate; che esse si scoraggiano presto, si demoralizzano nella inazione, si corrucciano per noia; che se esse possono ben sostenere una battaglia e vincerla, non mai uscirono vittoriose da una campagna. Qualcuno consigliò al Comitato di Cosenza, quando i siciliani giunsero colà, intendersela con quelli di Catanzaro ed inviar loro i rinforzi venuti di Sicilia; attaccare senza perdere istante il corpo di Nunziante; riunire quelli di Paola a quelli di Campotenese e piombare addosso sia a Ducarne che teneva Rotonda, sia a Busacca che chiudevasi in Castrovillari; esser meglio morir per apoplessia con una disfatta, che consumarsi come un tisico nell’inazione: una vittoria decidere della rivoluzione. Sacco, mandato dal campo di Monteleone, parlò nei medesimi sensi. Ma niente di tutto questo fu fatto; e la colpa non debbesi tutta attribuire a Ricciardi. Ribotti che conduceva i siciliani era sospettato di equivoche intenzioni. Andando ad incorporarsi con le squadre di Catanzaro, era sorvegliato, era dipendente. Egli aveva bisogno di far da sè. Rifiutò netto; e fuvvi un momento che parlossi pure di tornare indietro. Si mandò dunque ad affrontare Busacca. Il quartiere si stabilì a Spezzano Albanese, a dieci miglia da Castrovillari. Là le trattative tra Busacca e Ribotti principiarono; e principiarono con tanta impudenza da convalidare i sospetti. Eravamo in faccia al nemico; ma non perciò si mettevano dei posti avanzati, o delle sentinelle per gridare l’allarme in caso di sorpresa. Non si dava santo: non si teneva alcun consiglio: le armi erano chiuse in un magazzino senza custodia: ciascuno andava a coricarsi spensierato: tutti erano sparpagliati: qualcuno, che mostrò diffidenza, fu allontanato. Se Busacca avesse fatta una sortita di notte ci avrebbe sgozzati nel sonno tutti. Ma Busacca era sicuro del fatto suo. E quasi questo inverecondo procedere fosse stato poco, qualche giorno da poi si sloggiava dal quartiere alquanto sicuro di Spezzano, per andarsi a seppellire in Cassano dove l’aria micidiale avrebbe consumata la guerra. A Campotenese era peggio.
Domenico Mauro, poeta eccellente, ma spirito altero ed ombroso, non potendo dominare in luogo del Ricciardi, e geloso della supremazia di costui, si era allontanato, e come Commissario civile aveva traslocata la sede dell’imperio a Campotenese. Mileto aveva quivi il comando militare: ma egli passava interi i suoi giorni ad altercarsi col suo segretario; e, se lo avessero lasciato fare, avrebbe ordinata la fucilazione della metà del campo per mantenere la disciplina nell’altra metà. Requie all’uomo onesto e coraggioso! Tradito poi vilmente, fu messo a pezzi dai regii, ed il suo capo mandato in dono al pio re. Per lo che Mauro, che non comprendeva nulla di militare, si compiaceva a compararsi agli eroi di Omero, e beavasi di dormire sotto il cielo stellato, in fortini che i briganti, a foggia delle costruzioni ciclopiche, avevan quivi innalzati. Ed in vero ho bisogno anch’io d’impormi tutta la severità della storia, per non cedere al sovvenire seducente che mi dipinge i cinque o sei giorni passati in quel campo. Le scene dell'Ivanhoe, le tele di Salvator Rosa, le pagine brucianti di Schiller mi rivenivano alla mente incessanti. La guerra civile scompariva dagli occhi miei in faccia ad un paesaggio sì bello e sì vario. Io credea rammentarmi di una vita anteriore, di una vita in secoli da lungo tempo obliati. Forse era una reminiscenza di Esiodo o della Bibbia, forse nella trasmigrazione dei tempi l’anima mia non si era del tutto spogliata. Chi lo sa? Io era felice di coricare sulla terra nuda, di appoggiare il mio capo ad una pietra, dove pochi anni prima due uomini proscritti dal convito sociale l’avevano poggiata senza potervi dormire. Io era felice di salutare il lento tremular delle stelle con l’ultimo sguardo, con lo sguardo che s’immergeva e si perdeva nelle oscure regioni del sonno. Io mi sentiva al cospetto di Dio: io mi coricava sotto il padiglione gemmato della notte come sotto lo sguardo sorriso di una madre. E qualcuno di quegli uomini, che pochi giorni innanzi ci avrebbero fatto paura o ribrezzo, che forse in un angolo di foresta ci avrebbero detto: la borsa o la vita, che si vedevano separati dal mondo da una zona di sangue; quegli uomini erano a noi vicini, custodivano il nostro riposo, pronti alla morte del domani come ad una festa. Poi gli allarmi incessanti che tenevano desta l’anima sul pendio di ingolfarsi nella contemplazione dei misteri della natura. Poi quella varietà bizzarra di fisonomie forti, angolose, eloquenti; quel dolce mormorio della lingua albanese, che era una rivelazione della non compiuta decadenza di un popolo, il quale aveva conservato ancora ciò che vi ha di più vitale, la favella de’ grandi antenati. Poi quell’eccitazione perenne di novelle, di progetti, di atti di amore alla libertà, di divozione, di subite avvisaglie; e quella vista eloquente di alcuni frati e di alcuni preti, i quali avevan dato l’ultimo bacio al Cristo, il redentore morale, per venire a maneggiare il fucile, il redentore politico. Mauro non aveva torto di esaltarsi, d’inebbriarsi di poesia. Ah! perchè dovemmo svegliarci così bruscamente! Si propose intanto a Mileto istantemente di far guardare Mormanno, perchè di quivi solamente potevasi esser sorpresi da quei di Ducarne, che avevamo di fronte, a tiro di fucile, dall’altra parte del ponte che chiude le gole di Campotenese; Mauro si oppose ostinato, adducendo aversi poco più di mille uomini, per guardare un passo di monti di sole alquante spanne. Si propose di fare una uscita notturna e di sorprendere Ducarne in Rotonda. De Simone assumeva la condotta della sortita, e ne garantiva il successo con i suoi bravi albanesi. Mauro si oppose e temperò la fiacchezza con la prudenza, l’inabilità col dubbio; e gittò su Ricciardi la responsabilità dell’inazione. In effetti le munizioni sovrabbondavano a Cosenza, mancavano al campo. Questo cumulo di pretensioni, d’inezie e di tradimenti produsse il suo frutto e presto. Una notte Eugenio de Riso arriva al campo mentre tutti dormivano, e s’introduce nella tenda di Agamennone. Questo eccellente giovane era partito da Monteleone per riscaldare Ricciardi, attiepidito e perduto nel laberinto della segreteria. I rivoluzionarii di Catanzaro insistevano fieramente di finirla in un modo qualunque, perchè eglino non potevano tener oltre. Domandavano di risolverla con Busacca, onde avere rinforzi ed attaccar Nunziante, a loro di gran lunga superiore ed in numero ed in qualità di armi. Ricciardi che non comprendeva più nulla, e nulla più poteva sul comandante siciliano, accompagnò il De Riso al colonnello Longo, e diresse entrambi al Ribotti onde rompere gli indugi e pigliare una determinazione. Giunta questa deputazione a Cassano, i siciliani, che ardevano anche essi di battersi, scossero la pigrizia del Ribotti, e si conchiuse che al doman l’altro eglino avrebbero attaccato Castrovillari da un lato, e che una squadra, partita da Campotenese, lo avrebbe attaccato dall’altro. De Riso portò al campo questo accordo, e la notte stessa, un corpo di tre in quattrocento uomini, condotti da Mileto, s’incamminò alla volta di Castrovillari. L’attacco doveva cominciare a quattro ore dopo l’alba. I calabresi, a poca distanza dalla città, speravano omai sentire le artiglierie siciliane, perchè essi giungevano alla posta all’ora convenuta. Mileto, al solito, non aveva presa alcuna precauzione. Si marciava senza avanguardia ed in disordine, si avanzava temerariamente. Ma ecco, che in luogo di udire il cannoneggiare siculo, si sentono attacchi dal nemico, il quale, appiattato sotto i pampani delle vigne ed in grosso numero, li accoglie a fucilate. Ribotti non si era mosso da Cassano: ma Busacca aveva tutto saputo e preparate le accoglienze oneste a coloro che giungevano da Campotenese. Questi, così sorpresi, vacillarono un istante e si sgominarono. Ma poscia rannodati, e sopra tutto gli albanesi fatto un nucleo sul pendio di un monticello, cominciarono a rispondere al fuoco, e non un colpo dei loro fu invano tirato. Mileto scomparve. La zuffa durò per due ore. I soldati infine stanati dagli aguati e decimati, non potendo mostrare un membro senza averlo fracassato da una palla, ventre a terra strisciarono pel vigneto, e quando furono fuori la portata dei colpi, a galoppo serrato si ricoverarono nella città. I calabresi ritornarono a Campotenese, ma in minor numero, essendo stati abbandonati dai vigliacchi di Morano, che ai primi colpi se la sfumarono. Noi avevamo avuto un prigioniero ed un ferito, Tommaso Pace albanese, il quale passeggiava fra le palle come sotto una pioggia di fiori. I discendenti di Scanderberg avevano fatto il loro dovere con un’insigne bravura.
Alla nuova del tradimento del generale siciliano, la costernazione nacque nel campo. Affievolito dai numerosi congedi che si era stati in necessità di accordare, tra perchè mancavano i danari a mantenere la gente, tra perchè la mietitura delle biade imponeva il dovere di non rifiutarle alle proprie famiglie, una specie di ammutinamento si principiò a manifestare. Tutti erano scontenti: tutti domandavano o far qualche cosa o andar via. Ben presto però quella innormale situazione ebbe termine. La novella arriva tutto ad un tratto che i regii, senza colpo ferire, sono in Mormanno, che siamo presi alle spalle, e che ben presto saremmo circondati. Allora non vi fu più che fare. Lo sdegno, il disordine, l’insolenza presero il disopra: non si riconobbero più capi: non si udì più comando: eccetto gli albanesi, che condotti dal De Simone si mostrarono impassibili come lui. Tutti si apprestarono a tornare a casa, e senza aspettare la permissione si sbandarono e partirono. Quei di Mormanno ci avevano venduti. Ma l’avrebbero essi potuto, se il difficile passo per cui dovevano traversare necessariamente fosse stato guardato dai nostri? I due corpi di regii si posero in comunicazione. Ribotti fuggì co’ suoi sopra Cosenza. Delle amare parole furono scambiate tra lui e Ricciardi. Questi gli gittò più volte sulla faccia l’insulto di codardo e di traditore, che quell’altro non osò smentire, non osò vendicare. Invece riferì ai siciliani, i calabresi insospettiti essere sul punto di metterli a brani. Il terrore si sparse nella città: da un lato e dall’altro si armarono, si fu in procinto di venire alle mani. Ma chiaritasi bentosto la indegna menzogna, la calma ritornò di bel nuovo qual poteva ritornare in una città, che si attendeva da un momento all’altro ad essere occupata dai masnadieri del 15 maggio. Il vescovo, il capitano della guardia nazionale e qualche altro andarono in commissione a Busacca per invitarlo a venire a Cosenza, e calmarne la rabbia. Il Comitato, i cittadini più compromessi, ed i siciliani uscirono dalla città e si accamparono fuori per aspettare l’indomani e partire. La notte stessa però essi si avviarono verso Catanzaro. — Quivi le cose non andavano meglio, perchè non erasi meglio di accordo. La spedizione della Mongiana infatti non aveva avuto quell’esito che prometteva, benchè si facessero nove uffiziali prigionieri e si prendessero due cannoni. Ippoliti che comandava il corpo dei militi, il quale doveva chiudere in mezzo il nemico agendo di concerto con Stocco e de Riso, ostinossi a restare protestando avere ducati duemila di rendita e non volere altrui obbedire, perciò ottanta artiglieri salvavansi, ed il sussidio mandato da Nunziante prese la larga. Il 27 giugno poi, avutasi novella che i regi da Monteleone si mettevano in movimento, il partito di occupare i passi difficili, per distruggere con pochi uomini le intere bande di Ferdinando, non fu preso. Il Griffo che due giorni avanti aveva segretamente parlato con Carlo Sanseverino, emissario reale espressamente inviato da Napoli, il Griffo disseminò le masse nelle montagne lontane dalle strade che dovevano percorrere i regii, e questi si avanzarono. Centoquaranta giovani in parte studenti ostinaronsi a restare, ed appostati a Lancitola attaccarono combattimento. Altri trecento sessanta che avevano occupata la posizione di Curinga, Maida e Filadelfia fecero altrettanto, e dalle otto del mattino alle cinque della sera sostennero il fuoco contro quattromila soldati e ne uccisero sopra quattrocento. Dei nostri soccombettero pochi tra i quali Morelli, membro del Comitato ed uomo di spiriti attivi ed eccellenti. Nonpertanto, superati dal numero e dalla disciplina, i sollevati ritiraronsi e la gente di Nunziante bivaccò a Maida. Si propose a Griffo di riattaccarli la notte coi suoi freschi e desiderosi di battersi: ma il Griffo, benchè convenisse che i soldati erano demoralizzati, e che non cercavano altro che l’opportunità di arrendersi, ricusò netto. Un battaglione di soldati infatti disertò e dimandò capitolare. Non si volle ascoltarlo e se gli rifiutarono persino le vettovaglie. Allora quello si gittò dentro Pizzo e si ruppe a saccheggio e macello orribile. Il resto dei soldati, alla novella, spaventato dalla vendetta che il fatto doveva provocare, abbandonò le forti posizioni di Maida incontanente e si salvò in Monteleone. I rivoltosi sbrancati si riunivano parte a Nicastro per guardarla, parte a Tiriolo per riformarvi il campo. Quivi dal Ricciardi e dai siciliani ebbero notizia dei disastri di Cosenza. Si sarebbe stato invero a tempo ancora per rannodarsi tutti, e stretti in un corpo tornare sopra Cosenza ad affrontare Busacca, ovvero marciar sopra Reggio, la quale, malgrado gli sforzi di Stefano Romeo, Casimiro de Lieto ed i fratelli Plutino, non si era potuto sollevare completamente, ovvero andare ad attaccare Nunziante. Niente di tutto questo fu accettato da quel poltrone di Ribotti, e poichè il disegno di assaltar Monteleone cominciava a prevalere, costui sparse subito la voce che i regii erano sulla strada di Maida, e che era impossibile resistere: ciascuno perciò si salvasse come potesse. I liberali di Catanzaro si videro allora presi fra due fuochi. Nunziante e Busacca li avrebbero stretti in mezzo. Il campo si sparpagliò: quei di Nicastro per mezzo del vescovo trattarono la reddizione, ed i capi emigrarono; le masse ritornarono ai propri focolari per essere quindi a poco, malgrado i patti e le promesse, carcerate dal governo militare, ed o fucilate o gettate a morire nel fondo di orrende prigioni; i siciliani, senza attendere i vapori che i loro concittadini mandavano, s’imbarcarono sopra legni pescarecci.
E così fu uccisa la rivoluzione di Calabria! I suoi amici, i suoi operatori l’avevano resa impotente: come Desdemona era stata soffocata dal proprio marito. Uomini bravi, uomini onesti, liberi, disinteressati, oggi tutti o raminghi per terre straniere o sepolti in mude mortali. Che era mancato ai rivoluzionarii calabresi? era mancato l’accordo, l’unisono, era mancato il genio della rivoluzione. E forse il difetto non fu interamente loro, ma dei tempi: era la rachiasi del movimento europeo del 1848, che non venne alla luce con le condizioni necessarie per esser vitale. Grazie a Dio, ci siam compresi oramai, ci siam conosciuti. Il senso chiaro, la formola netta della rivoluzione del 1848 doveva essere quella di colpire sulla fronte la autorità in tutte le sue regioni, sotto tutte le sue forme. Col primo vagito essa pronunziò la parola transazione, credendosi assai forte. Il cuore la tradì. I nostri nemici più avveduti di noi, più rivoluzionarii, non hanno transatto. Hanno cospirato, hanno demoralizzati i nostri partigiani, han gittato il contagio nelle nostre file, si sono coalizzati; e la mano che ci hanno porta è stata quella del carnefice, quella di Radetzky, quella di Haynau, quella di Ferdinando di Napoli, quella di Changarnier, quella di Wingischrätz, sepolto oramai prima di morire. Avremo noi coscienza della nostra parte nell’avvenire? ci persuaderemo delle solenni parole che io ho messo alla cima di questo libro, che non vi ha mezzo rivoluzionario, che la libertà deve vincere a qualunque siasi prezzo? Dio lo voglia! Dio c’ispiri.