<dc:title> La rivoluzione di Napoli nel 1848 </dc:title><dc:creator opt:role="aut">Ferdinando Petruccelli della Gattina</dc:creator><dc:date>1850</dc:date><dc:subject></dc:subject><dc:rights>CC BY-SA 3.0</dc:rights><dc:rights>GFDL</dc:rights><dc:relation>Indice:Petruccelli - La rivoluzione di Napoli nel 1848, Genova, Moretti, 1850.djvu</dc:relation><dc:identifier>//it.wikisource.org/w/index.php?title=La_rivoluzione_di_Napoli_nel_1848/38._Nuove_elezioni&oldid=-</dc:identifier><dc:revisiondatestamp>20240422085602</dc:revisiondatestamp>//it.wikisource.org/w/index.php?title=La_rivoluzione_di_Napoli_nel_1848/38._Nuove_elezioni&oldid=-20240422085602
La rivoluzione di Napoli nel 1848 - 38. Nuove elezioni Ferdinando Petruccelli della GattinaPetruccelli - La rivoluzione di Napoli nel 1848, Genova, Moretti, 1850.djvu
[p. 147modifica]38. Dopo il prospero esito del 15 maggio, il re e l’aulico consiglio avrebbero voluto sbarazzarsi affatto di quel fantasma accigliato della Costituzione, che era sempre lì in piedi, rimpetto ad essi come un rimorso. Il ministero eletto non aveva infatti altra significazione. Qualcheduno degli eroi della vittoria aveva domandato [p. 148modifica]pure, nell’orgia celebrata alla Reggia nella notte del 15 al 16, che il nuovo governo s’inaugurasse con l’atto di abolizione dello Statuto. Ma Cariati, il più abile ed il più onesto in quel ministero da tagliaborse, aveva consigliato di attendere. Egli voleva conoscere quale impressione il colpo di stato avrebbe prodotto nel paese ed in Europa. In effetti la Francia rispose col manifesto di Lamartine: il Piemonte per mezzo del suo Parlamento decretò una colonna d’infamia a re Ferdinando: l’Austria costrinse a fuggire di Vienna l’imbecille imperatore: l’Inghilterra a voce alta assunse la difesa di Sicilia: in tutta l’Europa la stampa non ebbe che una voce di esecrazione pel Caliban della monarchia e per la casa del Borbone: e la nazione si commosse intera. L’aspetto minaccevole assunto dappertutto: l’austriaco che inseguito alle calcagna fuggiva innanzi la spada gloriosa di Carlo Alberto: l’Italia superiore, che alla casa di costui addossata, alla voce d’indipendenza scuotevasi sempre più profondamente, sedarono quelle velleità intempestive di rigustare il potere assoluto, e resero cauto il ministero. Si contentarono del dominio di fatto, e lasciarono sussistere uno straccio di Carta innocente ed inoffensivo. Fecero anzi di più: fecero confessare innanzi all’Europa il devoto monarca con un proclama, lo mostrarono profondamente addolorato dell’assassinio, contrito del sangue versato, e lo spinsero a domandare l’assoluzione, che Pio IX gli mandava per espresso. Gli fecero promettere inoltre di non più spergiurare per l’avvenire, e che lo Statuto si sarebbe mantenuto inviolabile. Non bastava a re Ferdinando essere pinzocchero e carnefice, doveva aspirare anche alla gloria d’istrione! E per convalidare [p. 149modifica]che la buona fede era nel fondo dell’anima loro, si abolisce, come abbiamo detto innanzi, il programma del 5 aprile dal re sanzionato: si mutila la legge elettorale: si ordina agli intendenti di falsare nelle provincie le elezioni: si creano commissioni speciali per giudicare dei delitti di Stato: si uccide la stampa: si interdicono i circoli: si revocano i funzionarii pubblici liberali; con l’intimidazione e col danaro si corrompono i giudici: si fa il birro ed il soldato dittatore del paese, e si accorda loro mero e misto imperio su la roba e la vita dei cittadini. Tanta inverecondia colmò la pubblica indignazione. Il 14 maggio, per una gran parte della nazione, la parola repubblica o aveva un significato funesto, il significato del 1799, o non ne aveva affatto: il 16 maggio era da ogni cuore desiderata, ed universalmente, come speranza suprema, sarebbe stata accolta, se i capi rivoluzionarii l’avessero proclamata altamente. E questo radical cangiamento dei suoi principii politici il paese manifestò, senza mistero ed unanime, nelle novelle elezioni. La Camera del 15 maggio era stata sciolta, marcata alla fronte dal governo con l’epiteto di anarchica: la nazione votò per l’anarchia. Molti collegi elettorali rifiutarono procedere a nuovi comizii, dichiarando illegalmente sciolto il Parlamento: molti altri protestarono. In generale dall’urna dei suffragi uscirono quei nomi stessi che avevano formata la Camera precedente. Il ministero comprese l’importanza di quelle nomine. Erano un voto di sfiducia, una condanna: ma non si riscosse. Seguitò a dire che quei deputati erano dei repubblicani, dei comunisti, dei nemici del trono e dell’altare, dei briganti, dei promotori di guerra civile: li fece insultare [p. 150modifica]dalla sua stampa, li fece provocare dai suoi sgherri. Tentò pure la corruzione di alcuni: si mascherò con altri e parlò di conciliazione. Eran commedie, perchè la sentenza della Camera era stata pronunziata fin dal suo nascere, dal momento che l’attitudine dignitosa degli elettori fu manifesta. Un’infinità di biglietti infatti, sotto il nome dei candidati, portavano scritto: abbasso il ministero! In molti comizii un grido unanime aveva aperta la votazione, il grido di: abbasso gli assassini del 15 maggio! Dappertutto non si pagavano più imposte, non si obbediva ai pubblici funzionarii. Dappertutto la concordia fra le differenti classi era intera. In Napoli, nella città del dolore, le cose andavano anche più in là. I teatri, le strade, i caffè erano deserti: i cittadini vestiti quasi tutti a bruno. Il borghese ed il militare cercavano evitarsi, o si guardavano in cagnesco. Le sentinelle, sopra tutto degli svizzeri, eran di notte trucidate da mani invisibili. Non si fumava più. Per punire la ribalda plebaglia, che aveva dato braccio al sacco, tutti i lavori eransi interrotti. Si vedevano signori in guanti gialli portare i loro fardelli e gentili giovani tirare carretti con suppellettili od altro, e rifiutare alcuni soldi a coloro i quali non avevano altro mezzo per sussistere. L’elemosina si negava: le chiese erano vuote: la città tutta spopolata. Dopo l'Angelus non s’incontravano per le strade che pattuglie e sgualdrine. La miseria, lo squallore, la disperazione si leggeva financo sulla faccia della plebe: l’abbattimento su quella dei borghesi e lo sdegno. Si credette che lo stato di assedio fosse la cagione di quel tempestoso orizzonte, e si tolse. Ma la situazione non cangiò in nulla. La plebe ravveduta, pentita, cercava [p. 151modifica]misericordia: i clubi lavoravano. Si sollecitò l’apertura del Parlamento per calmare il parossismo. La polizia intanto, per dividere l’accordo ed atterrire i ricchi con le calunnie e col danaro, aveva principiato la sua propaganda. I giornali del governo spiegavano incessantemente il comunismo: gli agenti occulti lo inoculavano nel popolo delle campagne; e per vincere a poco a poco la loro resistenza morale, persuadevano di cominciare dai beni municipali, patrimonio comune. Fra queste lotte di vendette e di perfidie il Parlamento si aprì.