La rivoluzione di Napoli nel 1848/36. Rivoluzione di Calabria
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36. Le Calabrie non avevano certo fatto difetto all’appello alla vendetta che, pronunziato nella Camera dei deputati, aveva percorsa da un capo all’altro la nazione tutta intera. Però le Calabrie sembravano stanche, e forse tanti esempi anteriori, in cui la loro voce di disperazione non aveva destato alcun’eco, le avevano fatte caute giustamente. Esse risposero al cartello di sfida del governo, ma debolmente e quasi sotto voce. Il barone Marsico uomo leale, ma di poche risorse e di niuna energia, formulò la protesta, con cui esecravasi il colpo di Stato del 15 maggio, e fu dichiarato capo di un Comitato che assumeva il governo. Questo Comitato, composto di elementi eterogenei e non rivoluzionarii, aveva ceduto alle prime impressioni e si era lasciato dominare dalle emozioni che le novelle di Napoli, fatte segnalare per telegrafo dalla guardia nazionale di Salerno il 16 maggio, avevano in loro destate. Ma rassicurato dal Bozzelli, il quale in nome del re prometteva l’inviolabilità della costituzione e la prossima riconvocazione delle Camere, non avendo coscienza delle proprie forze, non principii, non convinzione della sovranità del popolo e quindi della grandezza dell’attentato che fatto le si era, vacillò subitamente, si confuse, si smarrì nella procedura e moriva d’inazione, allorchè giunsero in Cosenza Mileto, Torregiani e Ricciardi. Questo crociato infaticabile della libertà, che la rivoluzione ha trovato sempre sulla breccia e sempre alle prime file, era partito di Napoli con un eletto numero di deputati calabresi. L’ammiraglio Baudin con un vapore inviato espressamente li aveva fatti condurre a Malta: una barca da pescatori li condusse a Messina, e da Messina in Calabria. Il piano della rivoluzione era stato ratificato a Catanzaro. Dovea essere contemporanea, doveva essere decisiva e senza ambiguità. Il potere esecutivo aveva violato la sovranità nazionale nella sua capitale e nei suoi rappresentanti: la sovranità nazionale gli ritirava il mandato e lo dichiarava decaduto. Ricciardi, preceduto da bella fama, giunse in Cosenza. Egli, Morelli, Stocco ed Eugenio de Riso avevano avviate le cose di Catanzaro, dove erasi alla perfine, dopo un comizio di popolo tenuto nella cattedrale, creato un Comitato, o Governo provvisorio cui il barone Marsico presiedeva, ed in cui erasi pure lasciato un tal Giovanni Maringola affiliato di polizia che con Gregorio Ferrara capitanavano la reazione. La voce se ne sparse in Cosenza, i cittadini più determinati recaronsi a Ricciardi, e tutti insieme al palazzo dell’intendenza dove il papaverico Comitato si adunava incontanente. Il Ricciardi, secondato da Mauro e Musolino, ragionò dello spirito pubblico di Catanzaro e Reggio; parlò dell’imminenza, della giustizia, della necessità della rivolta. L’uditorio fu compreso da subita fiamma, le speranze ridestaronsi, il cuore crebbe, la vita ricircolò. Poscia il Ricciardi si faceva ai balconi della sala ed aringava l’immenso popolo, che concitato ed avido di novelle quivi era accorso. La rivoluzione era consumata. Una voce sola era partita da quella massa: morte a Ferdinando Borbone! un sol voto prevalse in quel consiglio: il governo provvisorio. Il governo provvisorio fu annunziato immediatamente; fu scelto, fu proclamato ed eletto a presidente Ricciardi, che al popolo lo annunziò. Un grido di gioia, un plauso universale accolse la novella. Più tardi un proclama invitava i deputati colpiti dal fulmine del 15 maggio a recarsi a Cosenza pel 15 giugno onde decidere sulla forma di governo che doveva assumersi. Non che Ricciardi avesse simpatizzato per altro che per la repubblica, non avendo giammai avuto altra fede politica; ma volle declinare ogni responsabilità e credette prudente blandire le altrui opinioni onde far convergere le simpatie sulla bandiera che aveva innalzata e dissipare le paure che destava Mauro reputato socialista, anzi comunista. Questi infatti, giungendo in Cosenza con Benedetto Musolino, aveva, si può dire, incoata la rivoluzione, ne aveva significata la legalità, lo spirito. Ma le teorie essendo sospette, come di fieri democratici, non furono gradite malgrado le moderazioni con cui le esponevano. Ad ogni modo, benchè nulla si specificasse, benchè non si parlasse nè di costituzione, nè di repubblica, benchè s’indugiasse sul resto, sopra un punto tutti si accordarono e ne formarono nucleo dell’opera, l’incompatibilità e la proscrizione della casa dei Borboni. Non fu dunque la mancanza definitiva di principio che fece naufragare la rivoluzione fomentata dal Ricciardi, come le altre erano naufragate, ma l’indecisione, l’inabilità, la paura di avanzar troppo, di demolir troppo, di violentar troppi interessi e troppi pregiudizii, il desiderio di contentar tutti, di non offendere alcuna convenienza, alcuna personalità nel tempo stesso che se ne rispettavano poche; quello spirito di eccletismo insomma, quella fatalità di transigere che in generale aveva sterilito il movimento del 1848. Ricciardi comprendeva la rivoluzione, ma non era rivoluzionario. Il rivoluzionario è simile ad una macchina a vapore che si addossa alla rotaia, e datavi l’impulsione, corre, e vola. Peggio per chi si trova sul suo cammino! n’è maciullato. Egli obbedisce ad una legge inflessibile che non si è fatta, che non può cangiare, che non si può dominare: deve toccare la meta a traverso tutto; e tutto deve piegare innanzi al suo passaggio divoratore, o spezzarsi. Il rivoluzionario, per tacere dei più remoti, è Robespierre, è Napoleone, è Proudhon: questa grande trinità di ardire, di forza e di ragione che ha presa la società nel suo pugno, le ha dato lo slancio, ed ha detto: cammina. Ricciardi si perdette in una burocrazia insignificante: oltraggiò molti amor proprii trinciando da dittatore: confidò troppo in sè: ebbe la debolezza di volere incarnare nella sua persona tutta la rivoluzione, compendiarla dal principe all’usciere. Quindi molta ostinazione dal suo lato, molte gelosie dal lato dei rivoluzionarii calabresi. Il Comitato fu eclissato. Tutte le determinazioni erano prese da lui solamente: niuno era ascoltato: il segreto elevato a sistema. Le cose cominciarono perciò a zoppicare e ben presto intristirono affatto. Reggio non dette segni di vita, il Comitato di Catanzaro lasciò in piedi l’amministrazione regia nel tempo stesso che figurava esso da governo provvisorio; e l’intendente, il comandante della provincia, il procurator generale e gli altri funzionarii del re spionavano le sue operazioni ed al governo di costui comunicavanle. Intanto per tenere in riguardo Nunziante accantonato in Monteleone si mobilizzavano le guardie nazionali, e sotto il comando di Stocco da Nicastro meglio di seimila se ne accampavano tra Maida, Luninga e Filadelfia. E perchè Stocco si confessò inabile alle cose di guerra, gli si aggiunse un tal Giovanni Griffo tenente in ritiro e uomo scelleratissimo che poi li tradì. Giovanni Mosciari bravo e speditivo s’installò a Paola per impedire uno sbarco di soldatesca: Mauro si concentrò a Campotenese per gustare del comando e nulla comandare; e quarto giungeva bentosto Ribotti con i siciliani, per condurli a passeggiare da Spezzano Albanese a Cassano sotto il cannocchiale del generale Busacca, che si ubbriacava a Castrovillari. Il pensiero di unificazione era mancato; e fu davvero una sventura, perchè la rivoluzione aveva pigliate dimensioni nobili e grandiose.
Per assicurare l’esito, il parlamento siciliano aveva levato un corpo di ottocento uomini che, sotto la condotta del colonnello Ribotti piemontese, il quale si era battuto in Ispagna nelle file di Don Carlos, doveva passare il Faro e recarsi in Calabria. Molti giovani distinti e delle primarie famiglie, vaghi di fama, si erano arrolati in quel corpo. Un manipolo di artiglieri governava sei pezzi di campagna. La spedizione si raccolse in parte a Messina, desiderando toccar Reggio o Scilla, ed entrar presto in azione. Ma i vapori da guerra, che percorrevano la spiaggia, attraversarono tale disegno. Da un battello siciliano, il Giglio delle Onde, fummo condotti a Melazzo, e quivi, raggiunti quelli che venivano da Palermo, ci imbarcammo sul Vesuvio per cercare di approdare a Paola. Si partì la sera. All’indomani, al rompere dell’alba, già vedevamo le coste calabresi, e già prorompevamo in gridi di gioia; allorchè, al levarsi dell’aurora, due punti neri apparvero sull’orizzonte. Il vapore rallentò il cammino. Quei due punti s’ingrandivano, s’ingrandivano sempre più, si approssimavano, e bentosto, come qualche cosa che velava la porpora pura dell’aurora, si spiegava nell’aria. Allora non si dubitò più. Erano due vapori da guerra napolitani che ci venivano su, e che prendevano il largo per tagliarci la strada e chiuderci in mezzo. Il capitano Castiglia si accorse del pericolo, lo rivelò, e, senza metter tempo in mezzo, rivolse la prua e si tornò indietro. Ci arrestammo nelle vicinanze di Stromboli. Senza acqua, senza pane, stivati come acciughe, con un calore soffocante, in vista ad una montagna bruciata, deserta, brulla, toccata dal dito della morte, senza segno di vegetazione, inabitata, si passò una giornata di supplizio. Sul fare della sera una specie di burrasca cominciò. Allora qualcuno cominciò a favellare di ritorno; ed in fatti tra le imprecazioni di tutti, parecchi palermitani, incitati da un tal Bruno, ritiraronsi sul Giglio delle Onde ed immediatamente partirono. Se la tempesta fosse durata, forse noi pure li avremmo raggiunti per cercare ricovero a Melazzo. Ma venuta la notte, la tempesta si calmò: si partì immediatamente, e dopo poche ore eravamo innanzi a Paola. I siciliani non vollero avventurarsi a discendere perchè niun concerto erasi preso con quei di Cosenza, perchè nulla sapevasi dello stato di Paola. Due uffiziali siciliani e due napoletani andammo ad esplorare. E l’alba cominciava già a spuntare, quando tutto il corpo della spedizione con bagagli, munizioni, vetture e cannoni era a terra, accolto da applausi frenetici di gioia. Due vapori da guerra napolitani giungevano allora; ma il Vesuvio, sotto i loro sguardi, prese il largo e tornò in Sicilia.
Io dovrei qui chiudere questo racconto, perchè non mai più storpia cosa fu partorita da più imponente apparato. Ma perchè il passato è per i popoli un’eredità di sapienza, di cui debbono render conto, proseguo ed arrossisco.