La mia vita, ricordi autobiografici/VIII
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VIII.
A Genova.
(1857-1860)
Oggi, in mezzo a tanta fraternità d’intendimenti sociali, più o meno retti, più o meno informati a un alto ideale di giustizia e di grandezza vera — in mezzo allo spirito di solidarietà che unisce l’ultimo scolaretto di Acireale con lo studente della nobile Torino, fra la crescente febbre dei nuovi sistemi di locomozione, per cui si abbrevia ogni distanza, non sembreranno possibili le cose che andrò narrando in questo capitoletto.
Prima di tutto, all’Istituto Meriggio posto in Via Giulia, dove fui messa poco dopo il nostro arrivo, mi chiamarono la bambina foresta (forestiera) e una giovane e simpatica maestrina mi domandava se in Italia le signore portavano in capo, come le genovesi, il mesero e il pezzotto...
Rinunzio a descrivere lo sgomento da cui, nelle prime settimane, fu assalita la povera mamma.
La moneta decimale di cui ella non aveva la più piccola idea, avvezza com’era alle crazie, ai paoli, ai mezzi paoli e a’ francesconi, le nuove misure e sopratutto il dialetto di cui ella non riusciva a capire una sola parola la immersero in una costernazione indicibile.
Che cos’erano, gran Dio, quelle terribili palanche di cui la donna di servizio infiorava sempre il discorso? E quanti palmi di percalle doveva comprare per farmi i grembiulini per la scuola?
A Firenze, si misurava a braccia! Ma a Genova chi aveva mai sentito parlar di braccia, all’infuori di quelle che messer Domeneddio ci ha attaccato alle spalle?
Quanti curiosi aneddoti mi corrono, sorridenti, al pensiero, rievocando quei tempi!
Una mattina la mamma mi chiama e mi dice: — Senti l’uso curioso di questa città. Come vedi pioviscola; eppure c’è un uomo, forse un incaricato dal municipio, che va gridando per le vie: Oggi è sole!
La cosa mi sembra comica; corro alla finestra colla mamma e l’accennato grido — un po’ gutturale — torna a ferirci l’udito: Oggi è sole! Oggi è sole!
A un tratto mia madre prorompe in una gran risata e mi accenna un pover’uomo che, svoltata la salita di S. Stefano, si avanzava verso di noi con un grosso carico di agli e di cipolle urlando a squarciagola: Aggi e sciole!
⁂
Un altro malinteso, ancor più curioso, avvenne pochi giorni dopo il nostro arrivo quando la mamma si disponeva a dare i suoi ordini alla nuova donna di servizio, presentatasi allora allora e balbettante (per miracolo!) qualche frase d’italiano strapazzato.
— Voscià — disse a mia madre — desidera che prima d’ogni altra faccenda io vada ad accattare quanto occorre per il pranzo?
La mamma scattò vivamente.
— Che accattare e non accattare! — esclamò. — Noi non siamo miserabili. Ti do i denari!
— Naturalmente — ribattè la Rosina sorridendo. — Ma accatto lo stesso...
— No, per carità! — gemè la mamma spaventatissima. — Queste cose da noi non si usano. Devi pagare tutto quanto compri, capisci? Pagar tutto scrupolosamente...
Il mio intervento (cominciavo a studiacchiare da me un po’ di francese e conoscevo il valore del verbo acheter...) pose fine all’equivoco...
In brevissimo tempo riuscii a capire benone il dialetto, che dopo tutto, non è dei più difficili: e ciò senza perdere menomamente il puro accento toscano e la proprietà del linguaggio che mandavano in visibilio i miei insegnanti, e il direttore, letteralmente innamorato della «sua piccola italiana»1.
Dopo pochi mesi di scuola io fui inalzata quasi alla dignità d’insegnante d’italiano, e non avevo che ott’anni.
Leggevo ad alta voce, facevo fare gli esercizi di nomenclatura, correggevo le dettature e i brevissimi componimenti delle terze e quarte classi elementari d’allora.
Sotto la mia agile calligrafia, gli scossàli, i mandilli, i màntili, i papier, i briquetti venivan mutati in grembiuli, fazzoletti, tovaglie, muratori, fogli di carta, fiammiferi, ecc.
Mi facevan declamare, recitare poesie e perfino cantare.
La Rondinella del Grossi, l’Addio del Giusti e il Tacea la notte placida del Trovatore erano i miei cavalli di battaglia...
Una volta, però, fui sul punto di perdere il regno e, con esso, ogni prestigio di autorità.
In casa, avevo scoperto un Giusti fra la valanga di libri che riempivano due stanze del secondo piano: e non avevo tardato a farne le mie delizie. Non capivo certamente il poeta satirico: e molto meno il fine cui mirava la satira, ma quell’onda di pura toscanità mi avvolgeva, mi compenetrava con sottile e misteriosa malìa: e mi trovavo spesso, come qualche anno dopo mi avvenne a proposito di Dante, a recitarne interi componimenti senza afferrare il senso delle parole. Dotata di un senso acuto di musicalità io m’assimilavo facilmente tutto quanto e nei libri e nella natura era canto e suono. Anche oggi, nessuno meglio di me sa imitare lo sciacquìo dell’acqua sotto i ponti, i gorgheggi di certi uccelli, lo stormire del vento tra le fronde, il miagolio de’ gatti e il tubare de’ piccioni.
Per tornare al Giusti, in un caldo pomeriggio d’estate, mentre i miei dormivano, non trovai da far nulla di meglio che ricopiare sul mio quadernino di scuola: La madre educatrice e il Creatore e il suo mondo.
E la mattina dopo, portai le due poesie a scuola a una certa signorina G...., molto maggiore a me d’età, che s’ingegnò di spiegarmi il significato poco pedagogico della prima. Poi, ella stessa la ricopiò sul suo quaderno.
Qualche giorno dopo, la G.... non viene all’Istituto; ma invece di lei comparisce un terribile signore coi baffi a punta che chiede del direttore e gli dichiara (questo lo seppi dopo) che egli non può far frequentare alla propria figlia una scuola dove si ricopiano sui quaderni delle poesie immorali scritte non si sa da chi e insegnate e diffuse da una piccola forestiera, figlia certamente d’imbroglioni o di saltimbanchi! E, riassumendo, chiedeva il mio sfratto. — A questa sola condizione avrebbe rimessa la figliuola.
Il povero direttore tanto si scalmanò e pregò (la G.... era ricchissima) che il fiero uomo fini con lo scendere a consigli più miti: la bimba sarebbe tornata ma a condizione ch'io avessi ricevuto un gastigo esemplare.
Dopo un partaccione che risuona ancora al mio orecchio e nel quale non capii un bel nulla, fui rinchiusa in uno stanzino buio pieno di panieroni e di scarpe vecchie.
Nei primi momenti provai un'impressione d'indicibile terrore e pensai subito a tutti gli spettri e i diavoli di cui erano infarcite le novelle che mi avevano raccontato fino allora... Ma la rabbia e la consapevolezza della mia innocenza furono più forti della paura e cominciai a menar calci disperati all'uscio con relative spedizioni di panierini e di scarpe, il tutto accompagnato da urli tremendi.
Il direttore mi venne ad aprire in capo a cinque minuti con gli occhi stralunati supplicandomi a calmarmi. Ed io buttategli al collo le mie braccine tremanti trovai accenti così efficaci per giustificarmi, che egli mi riportò quasi trionfalmente in classe, convinto della mia innocenza.
Una bambina, certa B***, afflitta da uno zio che scontava nelle patrie galere lo scasso d'una bottega, mi domandò se quel Giusti, autore della poesia indecente era il mio barba, E io le risposi indignata:
— Sei un'asina. — Il che non valse certamente a sodisfare la sua curiosità!
Se è proprio vero che il conoscer sé stessi sia il mezzo più efficace per giungere a conoscere gli altri, e se è lecito argomentare dalla propria esperienza ciò che per altri può esser giovevole o nocivo, io non esito ad affermare che l’istruzione occasionale, specialmente pei bambini, è quella che reca frutti migliori.
Se il cervello umano si potesse paragonare a un armadio provvisto di numerosissime cassette destinate ad accoglier via via per ordine di grandezza, di qualità e d’importanza i capi di biancheria preparati dalla diligente massaia, non nego che gli attuali sistemi pedagogici non potessero avere un certo valore: e si potrebbe continuare fino alla consumazione dei secoli ad insegnar la storia, la geografia, le scienze naturali e tante altre belle cose, così come s’insegnano oggi nelle nostre scuole; saggiamente distribuite, aggruppate e ordinate, secondo un dato criterio.
Ma la mente del fanciullo è cosa un po’ differente: nè può sempre piegarsi come la grande maggioranza dei pedagogisti crede, al giornaliero, metodico, obbligatorio assorbimento del programma scolastico. Si tenta, è vero, di seguire in questo programma il così detto metodo naturale: ma le intelligenze dei fanciulli non sono tutte modellate sullo stesso stampino; nè tutte intuiscono le stesse verità nello stesso modo, nella stessa forma e nel tempo medesimo. Chi rimane più presto colpito dall’esteriorità d’una cosa, chi dalle sue relazioni o rapporti con altre cose; chi dal fenomeno vuol risalire alla legge, chi dalla legge alle sue applicazioni. Chi ha l’ingegno analitico, chi sintetico; c’è il bambino che stronca il balocco o distrugge un meccanismo per verificare le ragioni della sua estetica e del suo moto: ce n’è un altro per cui le forme sparse e diffuse hanno già un organismo completo bastante al fine che egli si propone: organismo che non giova interrogare nè analizzare, dal momento che serve; una scatola di bottoni è un esercito di soldati, tre o quattro seggiole costituiscono la cittadella e qualche sassolino rappresenta la mitraglia...
Ora, con questi dati, com’è possibile stabilire un programma fisso, a scadenza fissa, applicabile a tutti i cervellini che popolano una scuola elementare?
Prendiamo ad esempio la lezione di storia che il maestro farà ai suoi alunni di terza: (tutti fanciulli di nove o dieci anni!). Quanti di essi terranno dietro al fatto, come fatto? Pochi, pochissimi, ma ciascuno da quella narrazione afferrerà i particolari per applicarli ad un caso suo proprio.
La descrizione d’una guerra farà pensare ai soldatini di piombo, ultimo regalo del nonno, ai fulminanti che sono in vendita dal cartolaro, a un bel castello turrito visitato da poco, a una bandiera formata da due stracci, ad alcune medaglie arrugginite, ecc. — E spesso — ed è il caso più frequente! — i ragazzi penseranno a tutt’altra cosa.
La scuola elementare, così com’è costituita, serve a poco o a nulla: poichè è un fatto che la prima coltura intellettuale ciascuno se la forma da sè, occasionalmente e quasi mai sistematicamente.
Un gran giardino che si stendeva davanti alle finestre della mia casa di Genova (posta in prossimità dell’Acquasola) e che mi dissero essere stato abitato molte centinaia d’anni prima da un Infante di Spagna, fu la cagione per cui io m’interessassi a quel poetico paese, agli uomini che lo avevano governato, ai suoi costumi, alle sue leggi. Carlo V mi condusse fino a Francesco I e alla sua Corte cavalleresca, da cui non tardai molto a scendere in Italia e sulle mura di Firenze assediata appunto dagli Spagnuoli, capitanati dal bel principe d’Oranges...
E più tardi — a dodici anni appena — avevo già divorata la Marietta de’ Ricci dell’Ademollo, l’Assedio di Firenze del Guerrazzi e il Niccolò de’ Lapi del d’Azeglio, felice di trovar poetizzati uomini e avvenimenti che avevano già lasciato nella mia fantasia traccie incancellabili.
Sarei arrivata a ciò se mi ci avessero obbligata con un programma? È inutile: com’è nei balocchi e ne’ giuochi, così nelle idee: il fanciullo vuol lavorare, salire, discendere, riordinare, raggruppar da sè.
Il maestro non deve far altro che osservare; seguire, indirizzare, aiutare, deve sopratutto saper cogliere i momenti favorevoli.
Un altro potente eccitamento allo studio della storia (studio per modo di dire, poichè studiavo poco il libro di testo, leggevo molto, interrogavo moltissimo) fu la venuta dei Francesi in Italia nel 1859 e il matrimonio della Principessa Clotilde col Principe Girolamo Napoleone Bonaparte.
Come ricordo la sera di quell’arrivo! Ero addormentata nel mio lettino, quando fui riscossa da suoni marziali, canti patriottici e dalle grida: Vive l’Italie! Viva la Francia! Il babbo mi fece vestire in fretta e furia e mi condusse alla finestra per vedere sfilare le truppe alleate su cui tutti gettavano manciate di fiori e sigari. Era un delirio a cui mi associai presto anch’io urlando con la mia bella vocina di contralto: Vive la France! Vive les Français! il che mi procurò un diluvio di baci e di saluti da parte di tutti i soldati che passavano e si voltavano in su...
E così, nei giorni susseguenti, seppi il perchè dell'alleanza francese, e il lungo servaggio dell'Italia, e il nome dei suoi martiri più illustri, e le sante speranze del sospirato risorgimento.
Un signore che frequentava la casa, certo signor Paolo Rivara, mi dette a leggere le Mie Prigioni di Silvio Pellico, che io non capii per intero, ma che pure provocarono nella mia piccola anima entusiasta un'ardente tenerezza per tutti coloro che avevano patito ed eran morti per la causa santa del nostro riscatto.
La mamma, dotata d'un eccellente orecchio musicale m'insegnò a cantar la Marsigliese, di cui le traducevo il testo, alla meglio: e una sera, in casa di quel signor Rivara, la cantai, ritta su un tavolino, in presenza di molti ufficiali francesi che mi ricoprirono di baci...
Molti altri dolci ricordi, molte altre liete visioni di bellezza evoca nel mio pensiero il caro nome di Genova. Rammento, come se mi si distendesse ancora sotto gli occhi estasiati, una grande terrazza marmorea costruita sulla marina e a cui tutti potevano accedere. Ora, non so perchè, l'hanno demolita.
Oh i miei sogni di bambina fantasiosa — di bambina precoce — lungo quella bella strada di marmo, tutta illuminata dal plenilunio, che si spingeva nel mare azzurro, sotto la vôlta costellata del cielo!
Mentre la mamma, parlando con altri mi teneva per la mano, strascicandomi leggermente e dandomi di tanto in tanto della pigra o della sonnacchiosa, quanti dialoghi meravigliosi fra me e le stelle, quante domande al mare, quante dolci parole alla luna bianca e tonda che mi guardava stupita a traverso l’alberatura dei bastimenti o facendo capolino tra nuvola e nuvola!
Non so chiudere questo capitoletto su Genova senza evocare la cara e nobile figura dell’insigne geografo toscano Costantino Marmocchi, che mi voleva quasi sempre presso di sè, anche durante la malattia, che lo rapì ancor giovane e prestante agli studii suoi prediletti. In quell’epoca egli pubblicava a dispense la sua «Geografia universale,» di cui il mio babbo curava l’edizione e la diffusione.
Quante belle cose imparai da quella bocca eloquente! In quali paesi meravigliosi egli mi guidava col fascino della sua parola colorita e vibrante! Come imparai da lui ad amar l’Italia!
In un tepido pomeriggio d’autunno la cameriera mi condusse, come al solito, da lui. Trovai le donne di casa piangenti e agitate. Una giovanetta (non ricordo più con quali legami di parentela fosse avvinta al grande scienziato) mi condusse nel giardino invitandomi a coglier tante tante rose.
Me ne empii il grembiulino, commossa io pure da un sentimento misterioso: poi salii con lei nella camera del sor Costantino, che giaceva in letto, un po’ più pallido del solito, con una gran pace diffusa sui nobili lineamenti.
— Rovescia tutte le rose sul letto — mi disse la mia compagna piangendo.
Obbedii in silenzio, alzandomi via via in punta di piedi per disporre meglio i fiori.
— Dorme? — domandai quindi sottovoce.
— Sì — mi rispose la giovane con voce soffocata — dorme da due ore per non svegliarsi.... più!
Capii e non capii, ma prima di uscire rivolsi un ultimo sguardo al mio grande amico, così silenzioso, così sorridente.
Oh certo, egli doveva essersi avviato verso i paesi meravigliosi da lui descritti con tanto calore d'affetto, con tanta luce di poesia!
Giù in sala trovai il babbo con molti altri signori che parlavano sommessi, col viso pallido e sconvolto.
- ↑ Testuale.