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che mi guardava stupita a traverso l’alberatura dei bastimenti o facendo capolino tra nuvola e nuvola!
Non so chiudere questo capitoletto su Genova senza evocare la cara e nobile figura dell’insigne geografo toscano Costantino Marmocchi, che mi voleva quasi sempre presso di sè, anche durante la malattia, che lo rapì ancor giovane e prestante agli studii suoi prediletti. In quell’epoca egli pubblicava a dispense la sua «Geografia universale,» di cui il mio babbo curava l’edizione e la diffusione.
Quante belle cose imparai da quella bocca eloquente! In quali paesi meravigliosi egli mi guidava col fascino della sua parola colorita e vibrante! Come imparai da lui ad amar l’Italia!
In un tepido pomeriggio d’autunno la cameriera mi condusse, come al solito, da lui. Trovai le donne di casa piangenti e agitate. Una giovanetta (non ricordo più con quali legami di parentela fosse avvinta al grande scienziato) mi condusse nel giardino invitandomi a coglier tante tante rose.
Me ne empii il grembiulino, commossa io pure da un sentimento misterioso: poi salii con lei nella camera del sor Costantino, che giaceva in letto, un po’ più pallido del solito, con una gran pace diffusa sui nobili lineamenti.
— Rovescia tutte le rose sul letto — mi disse la mia compagna piangendo.
Obbedii in silenzio, alzandomi via via in punta di piedi per disporre meglio i fiori.
— Dorme? — domandai quindi sottovoce.
— Sì — mi rispose la giovane con voce soffocata — dorme da due ore per non svegliarsi.... più!