La mia vita, ricordi autobiografici/IX

Capitolo IX. Livorno

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IX.

Livorno.

(1856-1864).

Verso la fine del 1859 fu deciso il ritorno in Toscana; il babbo aveva allargato assai la cerchia dei suoi affari e insieme con un socio, il signor Augusto Pontecchi, aveva iniziato una compra e rivendita di oggetti d’arte: quadri, bronzi, pendole, ecc.

Come più volte ho accennato nel corso di queste pagine, oggi il viaggiare — anche percorrendo enormi distanze — è cosa ovvia, che a poco a poco, è entrata nelle abitudini di tutti: tanto che non c’è merciaio o scrittorucolo da due centesimi il rigo che non possa vantare il suo bravo viaggetto all’estero. Ma allora, una semplice gita da Genova a Livorno, per mare! aveva tutta la serietà e l’importanza d’una traversata del Pacifico.

I preparativi del secondo viaggio furono molto più lieti dei primi: la prima volta andavamo verso l’ignoto (!) tentando una forma nuova di operosità i cui risultamenti, visti i tempi che correvano, potevano esser dubbi: ora il babbo aveva acquistata molta pratica degli affari, conosceva bene i suoi corrispondenti e possedeva quella fiducia in sè (da non confondersi con la presunzione!) senza la quale ogni impresa incede barcollando e finisce col precipitare.

C’era di più: dopo quasi tre anni di lontananza [p. 56 modifica] stavamo per riabbracciar l’Egle che aveva avuto un bel bambino (oh mio povero eroico Ettore!) e il simpatico Andrea, la cui bottega andava a vele gonfie ed era divenuta il convegno gradito di molte illustri individualità delle lettere e delle arti, fra le quali mi piace di citare Giuseppe Pieri, il poeta Emilio Frullani, Nicolò Barabino, Michele Amari, Luigi del Moro e molti altri il cui nome in questo momento mi sfugge.

Tutti i particolari di quel ritorno mi sono impressi nel pensiero a caratteri incancellabili. Rivedo la memore notte serena tutta inargentata dal plenilunio che profondeva le sue miriadi di diamanti sulle placide acque: rivedo la mamma, tutta involtata in un molle scialle di seta bianca, col bel viso rivolto a Genova; a Genova che l’aveva guarita dai suoi malucci nervosi e aveva ricondotto sulle sue guancie, un po’ appassite dall’umido e tetro soggiorno di via delle Ruote, il fiore della giovinezza...

Il sole emergente dalle acque azzurre, in mezzo a un corruscante incendio di raggi, le grida Livorno, Livorno! e i rozzi inviti alla discesa, urlati dai barcaioli, inviti vibranti d’italianità e risonanti — finalmente! — nella dolce favella toscana, tutto mi si confonde nel pensiero in una sola dolcissima indimenticabile armonia.

Oh poter tornare a gustare quelle fresche emozioni, quei puri compiacimenti! Oh poter tornar bambini!

Il progredire in ogni arte, in ogni industria, in ogni applicazione della scienza ci ha recato e ci reca — come dubitarne? — beni inestimabili, ma quante dolcezze ci ha tolto! [p. 57 modifica]

Non sta a me il giudicare quale e quanta parte abbiano avuto la mia volontà e l’amore allo studio nella modesta fama di scrittrice che oggi va unita al mio nome. Ma è certo che molto io debbo all’ambiente in cui scorsero i miei anni giovanili, ai maestri e agli amici.

La casetta in via degli Elisi in cui andammo ad abitare era un vero gioiello: così nuova, ariosa, ed elegante! A me fu assegnata subito una bella cameretta la cui finestra dava... indovinino un un po’ i lettori! sopra un antico cimitero inglese, in cui da molti anni non si interrava più. Nulla di più poetico e — mi si perdoni l’epiteto in grazia dell’impressione immediata — di più ridente di quel giardino ombreggiato da alti cipressi, da verdi salici, tra le cui rame biancheggiavano le tombe.

Il tempio, in pietra, a cui si accedeva per mezzo di una larga gradinata corrosa dal tempo e tutta verde di edera, proteggeva i dormenti nella eterna pace, così come una buona madre vigila i suoi nati.

E fra l’edera, la pietra, i cipressi, e le tombe s’intrecciavano a profusione, pazzamente, in allacciamenti inestricabili, rose selvatiche, borraccine e certi fiori candidi, odorosissimi, che poeticamente vengono chiamati «i sospiri dei morti».

Un lettino di ferro con la coperta bianca fatta a crochet (una vera trina, opera paziente dell’Egle), una piccola toilette tutta bianca, il cassettone, il comodino [p. 58 modifica] e una gran tavola coperta di un tappeto a fondo grigio con grosse rose color rubino formarono l’arredo della mia prima camera da ragazzina.

Ragazzina, sì, e non più bimba, malgrado i miei undici anni, la grossa treccia sciolta e il vestito corto. La statura precocemente slanciata, lo sguardo indagatore e profondo, e anche un po’ — perchè ostentare della falsa modestia? — la parola pronta, vivace, quasi sempre frutto d’una rapidissima riflessione, mi crescevano, a dir poco, tre anni; tanto che la mamma e il babbo parlavano con me dei loro affari, delle loro speranze e delle inevitabili delusioni. Sapevo quali erano le imprese riuscite, conoscevo i nomi dei corrispondenti del babbo, l’indole dei rapporti che ciascuno di essi aveva con lui, e arrischiavo già i miei timidi apprezzamenti. Né si creda che io fossi una di quelle donnine in miniatura, piccoli prodigi di perfezione, così incresciosi a chi ha la disgrazia di vederseli crescere accanto. Ero, a tempo e luogo, una figliolòna turbolenta e clamorosa, capace di fare entrare il mal di capo a chi mi stava vicina.

Quasi subito dopo il nostro arrivo fui messa all’Istituto Wulliet posto nella via Santi Pietro e Paolo che nel 1870 fu ribattezzata col nome di Via dell’Indipendenza.

La bella e spaziosa strada che fa capo alla chiesa dei Santi Pietro e Paolo esiste ancora ed ancora sorride al sole il vecchio palazzo Gragnani, dov’era a pianterreno l’Istituto. Ma in quelle sale, oggi, si aggirano, vivono, soffrono e godono altre persone. La cara scuola non c’è più: i buoni maestri, il signor Giuseppe e la signora Teresa sono morti; morti due figliuoli e il resto della [p. 59 modifica] famiglia disperso pel mondo. Ed esteriormente nulla è mutato in quella strada, in quel gran casamento, sotto quelle ampie persiane grigie alzate a metà...

La famiglia Wulliet era composta del padre, un bell'uomo ancora giovane, alto e simpatico, della madre e di cinque figliuoli: Eugenio, Ettore, Ernesto, Emma ed Eugenia.

Eugenio, uno splendido giovinetto sui quindici anni, frequentava con suo fratello Ettore le scuole di San Sebastiano, ed era il sospiro segreto di tutte noi bambine. Ma egli, il giovanissimo sultano, disdegnava i nostri omaggi e faceva la ruota a una vecchia cameriera del vicinato non brutta che lo adescava con libri e regalucci.

Ettore, quietissimo, era tutto scuola e casa. Non ci guardava, — o se ci guardava — era per farci dei predicozzi o per tirarci le orecchie.

Ernesto, povero piccino, si era spezzato il filo delle reni pochi mesi dopo la sua nascita, in conseguenza di una caduta e stava sempre in una specie di carrettella automatica, tutta imbottita di guanciali che egli stesso dirigeva coi suoi braccìni sottili. Lo adoravano tutti quel bambino: e l'andare a passar qualche ora con Ernesto costituiva per noi bambini il più gradito dei premi.

Eugenia aveva cinque o sei anni appena: Emma, con la quale mi strinsi subito in una tenerissima amicizia, aveva la mia età. Non posso pensare neppur ora senza sentirmi vivamente commossa al fresco visetto birichino, al sorriso malizioso e ai begli occhioni neri di quella mia dolce amica di infanzia con la quale vissi, per cinque anni, in una continua e completa comunione d'idee, di affetti e di desiderii. [p. 60 modifica]

Ci volevamo tanto bene che un giorno, eccitate tutte e due da qualche gastigo inflittoci dalle rispettive famiglie, decidemmo di fuggire.

Dove saremmo andate, né con quali mezzi non sapevamo bene. Ma saremmo fuggite. Questo era l’essenziale. Inutile il dire che non se ne fece nulla e che il progetto andò a finire dove, in generale, vanno a finire tanti progetti delle persone grandi.

L’Istituto era maschile e femminile: ai maschi ci pensava il signor Giuseppe, aiutato in alcune ore del giorno, da un maestro d’inglese e da un maestro di disegno. Noi bambine stavamo con la signora Teresa che c’insegnava ogni lavoro muliebre, dalla rozza calzetta di cotone greggio ai più delicati lavori di fantasia. Nelle ore pomeridiane e precisamente quando i maschi erano occupati nell’inglese e nel disegno, le signorine destinate allo studio (molte non si spingevano più in là della lettura, scrittura e calcolo) passavano dal signor Giuseppe. Egli c’insegnava di tutto e con intendimenti affatto moderni. Seminava quasi che con 1a potenza delle sue attitudini pedagogiche egli precorresse i tempi. La storia patria, illustrata abilmente dalla geografia, gli elementi delle scienze naturali, formavano il tema di dilettevoli conversazioni durante le quali eravamo padrone di domandare tutti gli schiarimenti che credevamo necessarii.

C’insegnava anche il francese, l’aritmetica e la calligrafia propriamente detta: il mio «inglese» elegante lo debbo al signor Giuseppe. Ma dove il bravo maestro [p. 61 modifica] non appariva davvero animato da intendimenti moderni era nella disciplina rigida e dura. Ci trattava come tanti soldati e più d'una volta risuonavano nella classe i singhiozzi repressi delle povere bimbe troppo severamente punite.

Quanti componimenti, quante traduzioni dal famoso «Telemaco» io facevo per loro! E in compenso quanti regalucci ricevevo dalle care creature riconoscenti! Avrei dovuto rifiutarli, ma ... non li rifiutavo. Ed avevo sempre la tasca piena di anellini da due soldi, di rosarini, di margherite, di gusci di ostriche, di pennini e di caramelle d'orzo.

— Sono i miei primi guadagni — dicevo seriamente alla mamma che mi vedeva, spessissimo, passare in rassegna i miei tesori — i miei primi guadagni di scrittrice! — Oh i presentimenti degli anni infantili! Non posso precisamente affermare che i miei editori m'abbiano compensata a furia di gusci d'ostriche ... ma è certo che le ostriche non le ho avute!


All'Istituto Wulliet, come in tutti gl'Istituti privati che si rispettano, si recitava due volte l'anno e si prendevano delle lezioni di ballo che avevano tutta l'aria di vere e proprie festicciuole, perchè impartite la sera, con l'intervento delle mamme e di qualche sorellina... maggiore.

Non è a dire lo scompiglio che il ballo e le recite mettevano nei nostri cuoricini di bimbe e particolarmente nel mio! Mi si assicura che la maggior parte delle ragazze balla pel semplice gusto di ballare! Ciò non [p. 62 modifica] starebbe veramente a provare una esuberanza di sentimento e d’intelligenza, giacchè non è ammissibile che una persona in perfetto possesso del suo buon senso debba provare un vivo compiacimento a girar vertiginosamente intorno a sè stessa a suon di musica!

Io, benchè così piccina (inorridite o pie persone che leggerete queste pagine così sincere) ballavo volentieri perchè il valtzer e la polka mi davano modo di abbracciare Eugenio Wulliet e un certo Leonetto Franciosi pei quali nutrivo una vivissima simpatia, affatto differente da quella sentita per l’Emma e per qualche altra bambina. E provavo un vero dolore quando i miei piccoli cavalieri che del resto mi erano abbastanza fedeli, ballavano con altre bimbe e se le stringevano al seno. Io seguivo le coppie con uno sguardo feroce, carico di tempeste che fortunatamente non si scatenavano mai. Un sorriso delle mie rivali, un confetto, un pennino, un libro, mi calmavano immediatamente. E le recite? Oh se i maestri, o meglio gli educatori si ricordassero un po’ d’essere stati piccini e dopo un accurato esame di coscienza si decidessero a sopprimerle affatto dal loro programma!

Le recite scolastiche non hanno mai fatto alcun bene ai ragazzi, neppure, pare impossibile! quando vengono fatte a scopo di beneficenza! Non parlo degli studi interrotti a motivo delle prove, nè delle preoccupazioni delle toilettes, nè delle spese straordinarie a cui vengono obbligate le famiglie, ma della febbre vera e propria che esse mettono nelle piccole anime delle bambine.... delle bambine che debbono interpretar sentimenti e spesso passioni affatto in disaccordo con la loro età, con la loro educazione, con la loro [p. 63 modifica] nascita! E la malsana compiacenza dell’applauso! E il desiderio ardente di essere, di sembrar bella? E la vanità che s’infiltra nel giovane cuore, perfida e silenziosa, come vena d’acqua traditrice nella fragile ossatura d’un ponte? Ed è da notarsi che almeno trentacinque o quarant’anni sono, i trionfi delle minuscole attrici rimanevano circoscritti nelle mura delle scuole e in seno alle famiglie: ma oggi se ne impadronisce la stampa, che li allarga, gl’ingrandisce, li gonfia a seconda... del nome e del censo della trionfatrice...

Su questo argomento ho scritto più tardi qualche pagina non spregevole forse, ma (senza forse!) inutile. Si può guarir delle perniciose, della tubercolosi e perfino, credo, delle malattie cancerose. Ma chi oserebbe tentare la guarigione della miserabile sconfinata vanità umana?

I miei componimenti, alcuni tentativi poetici e soprattutto quella inverniciatura di coltura generale che mi veniva dalla varietà delle mie letture mi guadagnarono presto l’attenzione del signor Giuseppe e con essa una specie di orgoglioso compiacimento. Qual’è il maestro che non si senta un po’ l’autore dei progressi intellettuali del suo alunno? Questo compiacimento si rivelava pieno, indiscutibile, ogni qualvolta giungeva all’Istituto qualche pezzo grosso. Io ero sempre in ballo per leggere i componimenti, per tradurre ad alta voce dal francese in italiano, per leggere qualche bel passo di prosa classica!

Sentendo sempre parlare di Roma e dell’Italia una, indipendente, libera (si era nel 1863) scrissi un gran [p. 64 modifica] letterone al Papa per esortarlo a rinunziare al potere temporale: e mi valevo per indurlo al gran passo, di tutte le ragioni che mi suggeriva la mia logica infantile. Non era Egli il seguace di S. Pietro, il povero pescatore di Galilea? Non si chiamava il «Servo dei Servi di Dio?» Non doveva, Egli pel primo, dar l’esempio del sacrifizio e della rinunzia?

Questa lettera che mi fu trovata dalla signora Teresa in fondo alla mia borsa da lavoro, venne consegnata al signor Giuseppe che la lesse attentamente, sorridendo, diventando ora rosso, ora pallido dalla maraviglia.

— L’ha proprio scritta lei?.. — mi domandò.

— Si signore.

— Lo giuri.

— Si signore, lo giuro per il bene che voglio alla mamma.

Il giovane professore allora mi fece un gran discorso sulla storia del papato, sui diritti della Chiesa, sulla rispettabilità sovrana di cui doveva essere circondato il Santo Padre e mi congedò consigliandomi a non toccar più, scrivendo, certi tasti pericolosi e troppo sproporzionati ai miei studi e alla mia coltura.

Conservo ancora — tutto gualcito e illustrato da indecifrabili geroglifici — il vecchio «Telémaque» su cui imparai il francese e... molte altre belle cose.

Gl’innumerevoli libri da me letti fino allora trattavano certamente di amori e di passioni, spesso non pure: ma li leggevo con tanta fretta, con una smania così ardente di arrivare in fondo che essi non lasciavano alcuna traccia dannosa sulla mia fantasia. E quel che non avevano prodotto i romanzi del Dumas, i fieri [p. 65 modifica]racconti del Guerrazzi e neppure certe storie aneddottiche e passabilmente scandalose dei Borboni di Francia e di Spagna, tutti libri che si trovavano allora in casa mia, lo produsse il casto, virtuoso romanzo del Fénélon.

Gli è che quello bisognava leggerlo, rileggerlo, tradurlo, studiarlo a mente. Quindi nulla di più naturale che le descrizioni di quel mondo greco, coi suoi miti, con le sue isole incantate, col suo fulgido sole, mi s’imprimesse profondamente nell’anima.

Quant’ho sofferto con Calypso, qui ne pouvait se consoler du depart d’Ulysse! Con che emozione seguivo Télémaque nei suoi vaneggiamenti per la bella Eucaride! E come fui dolente che egli si sottraesse al fascino della giovine ninfa, fuggendo col «Sage Mentor» sotto la cui barba bianca e prolissa si nascondeva l’ancor plus sage Minerve!

Il paganesimo mi attirò potentemente con la sua trionfale bellezza di colori e di forme e per parecchio tempo non sognai più che bianche figure di dee erranti fra i mirteti d’Elicona, numi baldi e valorosi, imperanti al sole, alle acque, ai venti, ai fulmini e all’abisso — e satiri orecchiuti nascosti nel folto dei boschi...

E ricordo la gioia pazza, quasi indescrivibile che si impadronì di me, quando in un dopopranzo uggiosissimo di festa, mentre il babbo e la mamma riposavano, scovai fra una valanga di vecchi libri polverosi, l’Iliade e l’Odissea.

Io non vidi nei due volumi i poemi immortali di Omero (o di chi per lui!) ma la «continuazione,» anzi l’amplificazione del Telemaco e non è a dire con quanta febbrile avidità me li lessi e rilessi.

Ora, è certo che io non li avrei mai letti, nè gustati, [p. 66 modifica]studiati se mi fossero stati «prescritti» da un programma scolastico.

E da quel giorno io lessi e compresi tutto quanto più o meno direttamente si atteneva alla mitologia. Imparai a mente senza difficoltà l’Ode del Monti a Montgolfier, l’Educazione del Parini e un visibilio di poesie classiche di cui fino allora non m’era riuscito di capir le immagini e le similitudini più importanti.

Intanto crescevo a vista d’occhio.

Ero alta, sottile, slanciata, con due grandi occhi neri che mi illuminavano il viso pallido e fine. La mamma mi faceva vestire con molto gusto e quando le domeniche andavo in Duomo, alla messa di mezzogiorno, oppure mi trattenevo a sentir la musica in Piazza d’Armi (ora Vittorio Emanuele) mi accorgevo d’esser fatta segno a parecchie occhiate... espressive.

Fu deciso in casa che avrei fatto la prima Comunione e venni affidata, per l’istruzione religiosa, al parroco di San Pietro e Paolo, che non durò poca fatica a persuadermi di certe verità che oggi la mia fede sincera vede chiare e distinte. Insomma bene o male ne venne a capo e mi comunicai fra la commozione del babbo e della mamma e della famiglia Salomoni venuta apposta da Firenze per assistere alla cerimonia.

Del resto, niente passeggiate in carrozza, nè rinfreschi, nè inviti, nè sfoggi di veli bianchi e di ghirlande. Si fece un po’ di festa in famiglia, festa rallegrata dal cicaleggio grazioso del mio nipotino Ettore che non mi voleva chiamare (nè mi ha mai chiamato) zia. Egli aveva a Firenze altre due zie, sorelle del suo babbo, [p. 67 modifica] due rispettabili matrone dai capelli grigi e un po’ baffute: e nella sua piccola logica infantile non poteva chiamare con lo stesso nome una giovanetta dai capelli neri e dal viso che non aveva nulla di virile.

La sera del giorno memorabile andammo tutti a fare una passeggiata lungo mare, verso l’Ardenza: e il babbo trasse occasione dalla vista dello spettacolo grandioso per parlarmi a lungo di Dio e dei miei nuovi doveri di fanciulla cristiana.

Il signor Giuseppe mi regalò in quell’occasione una copia del Genio del Cristianesimo dello Chateaubriand: e quella lettura staccandomi dai miti greci che cominciarono a ispirarmi subito un leggiero disgusto, m’innamorò di tutta la grande poesia cristiana...

Allora tornò a sorridenni nel pensiero il ricordo di Montemurlo, della sua poetica chiesa, delle funzioni religiose che in essa si celebravano nei giorni festivi.

Venere, Giunone, Apollo, Giove, Nettuno e Plutone presero la fuga, inseguiti dalle processioni cristiane salmodianti gl’immortali inni davidici.

Verso la fine del 1863, fai tolta dall’Istituto Wulliet per più ragioni, una delle quali mi dette argomento del seguente bozzetto che trascrivo pari pari dal volume Le mie vacanze edito dal cav. Paolo Carrara di Milano. L’egregio editore mi perdonerà se mi approprio una pagina mia e ... non mia: ma io non saprei come più sinceramente (se non artisticamente!) finire la storia della mia prima scuola. Questo bozzetto s’intitola: La prima volta.