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VIII.
A Genova.
(1857-1860)
Oggi, in mezzo a tanta fraternità d’intendimenti sociali, più o meno retti, più o meno informati a un alto ideale di giustizia e di grandezza vera — in mezzo allo spirito di solidarietà che unisce l’ultimo scolaretto di Acireale con lo studente della nobile Torino, fra la crescente febbre dei nuovi sistemi di locomozione, per cui si abbrevia ogni distanza, non sembreranno possibili le cose che andrò narrando in questo capitoletto.
Prima di tutto, all’Istituto Meriggio posto in Via Giulia, dove fui messa poco dopo il nostro arrivo, mi chiamarono la bambina foresta (forestiera) e una giovane e simpatica maestrina mi domandava se in Italia le signore portavano in capo, come le genovesi, il mesero e il pezzotto...
Rinunzio a descrivere lo sgomento da cui, nelle prime settimane, fu assalita la povera mamma.
La moneta decimale di cui ella non aveva la più piccola idea, avvezza com’era alle crazie, ai paoli, ai mezzi paoli e a’ francesconi, le nuove misure e sopratutto il dialetto di cui ella non riusciva a capire una sola parola la immersero in una costernazione indicibile.
Che cos’erano, gran Dio, quelle terribili palanche di cui la donna di servizio infiorava sempre il discorso? E quanti palmi di percalle doveva comprare per farmi i grembiulini per la scuola?