La metà del mondo vista da un'automobile/XVII

CAPITOLO XVII. — Sulla steppa

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XVI XVIII

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CAPITOLO XVII.


SULLA STEPPA

La steppa — Il telegrafo di Kainsk — Il freno arde — Omsk — La Siberia che si sveglia — La stanchezza — Ancora la steppa — Un incendio sulla prateria — Ischim.

La nostra automobile aveva trovato a Kolywan, come a tutte le tappe da Missowaja in qua, e come trovò sempre regolarmente fino alla fine del viaggio, la sua porzione quotidiana di benzina e di grassi. Non riempivamo mai completamente i serbatoi per non aggravare troppo il peso della macchina, ma ad ogni partenza avevamo a bastanza combustibile e lubrificanti per sette od ottocento chilometri.

Alle quattro del mattino, 13 Luglio, correvamo verso Kainsk lontana 340 chilometri da Kolywan. Il cielo era coperto e minaccioso. Un’ora dopo che eravamo partiti, cominciò a piovere dirottamente; ma fu un breve acquazzone. Alle sette un bel vento di levante aveva già sbaragliato le nubi, e il sole splendeva nel più bel cielo del mondo.

La strada che percorrevamo, in Europa non avrebbe meritato nemmeno il titolo di sentiero campestre; ma era solida, era piana, era eguale, e noi la trovavamo meravigliosa ad onta degli acquitrini che la fiancheggiavano, coperti da erbe altissime e folte. Da essi si levavano torme di uccelli: aironi bianchi, beccaccini, [p. 376 modifica] folaghe dal volo goffo, e vere nugole di cornacchie dal petto bigio, le quali talvolta sopraffatte dalla velocità dell’automobile, svolazzando come impazzite, finivano per urtarla, e cadevano in uno starnazzamento di agonia. Una quantità di farfalle rimaneva attaccata al radiatore, che ne era tutto costellato come una tavola da collezionista.

Noi eravamo felici di riprovare, dopo tanto tempo, la voluttà della gran corsa. Con l’orologio alla mano contavamo i pali delle verste che sfilavano velocemente: in alcuni tratti andavamo a sessanta chilometri all’ora. Ma ci trattenevano i ponticelli, una infinità di ponti minuscoli che si vedevano da lontano perchè avevano i parapetti di legno dipinti a fascie bianche, nere e rosse, che talvolta davano l’illusione di gruppi d’uomini immobili in mezzo alla campagna. Quei ponti erano così brevi, che quando le ruote anteriori scendevano la rampa d’uscita, le posteriori salivano quella d’imbocco, e non di rado accadeva che l’automobile in quella posizione urtasse col volano il tavolato, “battesse la pancia„ come dicevamo noi. Per non fargliela battere dovevamo passare quei ponti con grande cautela.

Traversavamo rapidamente dei rari villaggi. Era un altro giorno di festa. Incontravamo processioni di mujik in abiti sgargianti, camiciole di tutti i colori, cinture ornate di metalli. Avanti a loro i popi col gran piviale o la dalmatica, il capo coperto dalla mitria che ricorda per la forma la corona imperiale di Russia; e dietro le donne, dai capi avvolti in fazzoletti rossi, con le sottane corte, e gli stivaloni da uomo. Le processioni riempivano la strada, venivano avanti in lento disordine recando croci e icone, orando e cantando. Noi ci fermavamo per non disturbare le sacre cerimonie, ma la nostra precauzione era inutile. Le preghiere e gl’inni cessavano, i devoti, compresi i popi, dimenticavano per un momento il buon Dio per guardarci estatici a loro agio; tutte le icone si volgevano dalla nostra parte mostrandoci neri volti di santi bizantini incorniciati d’oro, e solo dopo un po’ la processione continuava, e i canti riprendevano più alti e [p. 377 modifica] più nutriti per farsi perdonare l’interruzione. Certo l’automobile portava dei gravi danni alla devozione. I campanari, che sbattagliavano festosamente, come vuole l’uso quando la processione è fuori, sospendevano di suonare, e, profittando della elevata posizione dei campanili, seguivano con lo sguardo l’automobile fuggente lontano con il suo strascico di polvere che si riabbatteva sui prati.

Nel pomeriggio siamo entrati nella vera regione delle steppe Sul battello a cavallo che attraversa il Tom a Tomsk. — Il motore.

— le steppe di Barabinsk — che in certi punti ci ricordavano le praterie mongole. Era però una Mongolia molto più verde, ricca d’acque, variata da ciuffi d’alberi nani — boschetti lillipuziani. Rivedevamo delle piante che giganteggiano nella taiga, e specialmente betulle, ma divenute umili nella steppa, meschine caricature di se stesse, desiderose di farsi piccole, di ritornare erba. Dei grandi stagni e dei laghi scintillavano ogni tanto all’orizzonte confusamente, e ci pareva, vedendoli da lontano, di correre verso qualche mare ignoto.

Su tutta quella sconfinata pianura si aprono specchi [p. 378 modifica]d’acqua; l’azzurro si alterna al verde; il brivido dell’onda all’immobilità della terra. Passammo per un tratto lungo le rive di un lago pittoresco, il lago d'Ubinsk: una distesa di sereno. Attraversammo su comode barche numerosi fiumi, il Tschulym presso al grosso villaggio di Pulym (un altro Tschulym che non ha nulla a che fare con quello di Atschinsk), il Kargat presso a Kargatsk, altri minori.

Nella steppa abbiamo rivisto le yurte. Erano kirghise ma non differivano in nulla da quelle mongole; quelle cupolette rappresentano probabilmente l’unica forma di edificio che resista agli impetuosi venti delle pianure: le case di tutti i popoli che amano lo spazio e la solitudine.

Verso le sette arrivavamo a Kainsk, circondata da decine di mulini a vento le cui ampie ali immobili sull’orizzonte libero sembravano grandi croci d’un cimitero di giganti. A Kainsk nessuno ci aspettava così presto. Entrammo quasi inosservati perchè v’era una fiera, e in mezzo alla fiera un circo equestre, un carosello, un baraccone di fenomeni viventi; suonavano organi e fanfare; vociavano i gridatori; e tutto il popolo aggruppato intorno a quei recinti meravigliosi volgeva le spalle alla strada per la quale arrivavamo. Ma dei soldati ci videro, si volsero, chiamarono i compagni, e in un momento la folla si trovò come ad un comando con le spalle verso i baracconi e i visi ammiratori rivolti a noi. Gli organi e le fanfare interruppero le loro armonie a mezzo, e i gridatori, dall’alto delle loro impalcature, ci guardarono con una curiosità ostile, come a dei rivali fortunati. Penetrammo per le vie deserte in cerca dell’albergo, e lo trovammo: il più meschino e il più sudicio albergo della Siberia.

Non riuscii a penetrare nell’ufficio telegrafico di Kainsk. Ne fui respinto come se fossi andato lì a lasciare, invece d’un dispaccio, una bomba di dinamite. Ero accompagnato da un giovinetto che s’era offerto di mostrarmi la strada. La porta dell’ufficio era chiusa. Bussammo, e una voce irritata gridò da dietro l’uscio: [p. 379 modifica]

— Chi siete?

Declinai nome e qualità.

— Tornate domani.

— Non posso. Parto all’alba, ed ho un telegramma da spedire.

— Andate via!

— Apritemi, vi mostrerò i miei documenti. Non spedite telegrammi?

— Sì. Ma non vi conosco.

Era dunque un ufficio per gli amici soltanto.

— Debbo telegrafare al governatore di Tomsk.

— Andate via!

La voce s’era fatta minacciosa. Insistei. L’uomo dietro la porta gridò qualche cosa che non compresi, ma che comprese il giovanotto mia guida il quale fuggì precipitosamente facendomi cenno di seguirlo. Gli chiesi:

— Che succede?

Egli rispose, sempre allontanandosi, col gesto di chi spara un fucile ed emise questi eloquenti monosillabi:

— Bum! bum!

Il mio giornale sarebbe dovuto rimanere per quella sera senza notizie della nostra corsa. “Già — pensai fra me — meglio senza notizie che senza corrispondente!„ e tornai all’albergo.


Attraversammo l’Om a Kainsk, poco fuori del paese, sopra un curioso ponte di legno che s’era abbassato, forse per delle alluvioni, fino ad essere quasi tutto sott’acqua. Lo chiamammo il ponte-guado. Erano le quattro del mattino del 4 Luglio. Riprendemmo la veloce corsa per l’immensa pianura che non avremmo più lasciato fino all’Europa: non ci aspettavano ormai altre alture che gli Urali.

Alla partenza il tempo era minaccioso. Dopo due ore pioveva a dirotto. La strada divenne improvvisamente quasi [p. 380 modifica] impraticabile. Giunti ad un passaggio a livello della ferrovia, come già avevamo fatto fra Kainsk e Krasnojarsk, chiedemmo ricovero al cantoniere. Non volevamo ricorrere ancora all’incatenamento della ruota per vincer il fango. Ho dimenticato di dire che lo stratagemma della catena aveva i suoi inconvenienti, e gravi, che lo rendevano sconsigliabile; la catena tagliava la pneumatica, e, quel che è peggio sforzava i raggi della ruota indebolendone l’attaccatura al cerchione. La ruota motrice sinistra cominciava a darci delle preoccupazioni; aveva delle fessure agli alveoli dei raggi, e talvolta scricchiolava. Rompere una ruota significava rimanere irrimediabilmente per la strada. Dovevamo andar cauti.

E del resto la Siberia ci aveva insegnato a dominare le impazienze. Ci conferiva un po’ di quel fatalismo che è il fondo del carattere slavo, e che probabilmente deriva appunto dall’abitudine di trovarsi di fronte a delle difficoltà ineluttabili imposte dall’inclemenza del clima. Si può avere qualunque urgenza laggiù, si può essere sotto la pressione del più grande bisogno, ma quando il tempo dice: Fermi! — bisogna rassegnarsi e fermarsi. La necessità di piegarsi a questa violenza, di aspettare indefinitivamente, finisce per dare serenità alla forzata rinunzia della propria indipendenza; sottomettersi a delle volontà superiori diventa un istinto; si piega docilmente e senza dolore il capo alla tempesta come all’ukase, all’inondazione come agli ordini della polizia. Agli uni e agli altri si dice: Nitchevò! — Il primo autocrate della Russia non è lo Zar: è il clima.

Quanto tempo saremmo dovuti rimanere fermi? Il cielo era oscuro, carico di pioggia come se non avesse mai piovuto. Il cantoniere della ferrovia ci diceva che avremmo trovato un sessanta verste di pessimo terreno, ma che poi la strada sarebbe divenuta buona, anche sotto la pioggia, perchè sabbiosa. Dopo un’ora vedemmo che le nuvole non correvano più da ponente a levante, ma si spingevano disordinatamente verso il sud in una fuga fantastica. Aveva dunque cambiato vento. Eravamo arrivati ad intendercene di venti siberiani più d’un compilatore di lunari. [p. 381 modifica] Vento di ponente: tempesta; vento di mezzogiorno: variabile e nebbia; vento di tramontana o di levante: sereno. Pioveva ancora, ma eravamo diventati allegri come se fosse comparso il sole. Cominciavamo ad esser noi sereni prima del cielo. Montammo in macchina, senza aspettare più oltre, e via.

Non trascorse un’ora che il tempo divenne splendido. La strada era buona, per molti tratti ottima. Andavamo velocemente. Calcolavamo di correre in certi momenti a cinquanta chilometri Un Kirghiso presso Tomsk. all’ora. Mantenevamo comodamente una media di trentacinque chilometri all’ora. Lo sconfinato panorama della steppa si svolgeva con perseverante monotonia. I villaggi erano più rari, e fatti di isbe più piccole; manca il legname in quelle regioni, e le case più povere della Siberia orientale e della Transbaikalia portate lì sarebbero sembrate palazzi. Si vedevano abitazioni minuscole dentro le quali i grossi mujik dovevano certamente star sempre seduti come i santi delle pitture giottesche. Il sole diveniva torrido.

Speravamo di arrivare senza incidenti ad Omsk, ma verso [p. 382 modifica] mezzogiorno ci trovammo in un pericolo impreveduto, che avrebbe potuto avere disastrose conseguenze. Tutto ad un tratto sentimmo un puzzo di bruciato, e subito dopo, volgendoci, vedemmo che la macchina lasciava dietro di sè un denso fumo. Il fumo usciva da sotto alla vettura.

— Il freno! — gridammo. — Il freno arde!

Conoscevamo già questo genere d’incidenti per avere il minimo dubbio sulla sua origine. Fermammo l’automobile e balzammo in terra. Le fiamme divamparono. Questa volta il caso era gravissimo. La grande velocità ci aveva impedito di accorgercene subito, a causa della ventilazione. Il fuoco, aveva dovuto svilupparsi molto prima che il suo odore giungesse a farsi sentire. Le fiamme, che erano state fino allora tenute basse dal vento della corsa e dal potentissimo soffio d’aria sviluppato dalla vorticosa rotazione del volano, s’allungarono nella calma rombando. La causa del fuoco era sempre nel soverchio attrito del freno che si chiudeva da sè, per un guasto che non potevamo conoscere senza smontare la macchina. Quella volta non soltanto il grasso lubrificante del freno s’era incendiato, ma cominciava ad ardere il piano di legno della carrozzeria. Temevamo l’imminente scoppio della benzina, della quale avevamo nei serbatoi un duecento litri. Sarebbe bastato un minimo guasto al tubo che conduce la benzina al motore, e che passava a pochi centimetri dalle fiamme, per provocare una catastrofe.

— Acqua! Acqua! Svelti! — ci gridavamo.

Le altre volte avevamo trovato facilmente dell’acqua intorno a noi. Io presi la pentola, e mi precipitai nei fossati ai lati della strada. Erano asciutti. Inutilmente cercai almeno del fango, fra l’erba. Il terreno sabbioso, era inaridito. A cinquanta passi, avanti a noi, v’era un ponticello. Là sotto avrei trovato dell’acqua, una pozza almeno. Vi corsi trafelato. Niente. Per un momento girammo concitati.

— Coraggio! — ci dicevamo.

— Gettiamogli addosso della sabbia! [p. 383 modifica]

— Degli stracci! Dove sono gli stracci?

— I vestiti!

Ed Ettore gettò sulla fiammata l’impermeabile, Borghese una pelliccia. Il grasso incendiato si spense, ma la carrozzeria ardeva ancora. Togliemmo le tavole del piano, le spegnemmo con la terra, ne raschiammo i pezzi accesi con i coltelli facendone cadere a faville tutta la superfice imbragiata. Finalmente le vampe erano domate; con degli stracci, inumiditi nella poca acqua che gocciolava dal radiatore, soffocammo i resti dell’incendio. Spiammo ogni scaturigine di fumo, e rimanemmo lì a vigilare finchè non ci sentimmo sicuri che il pericolo era scomparso. Allora demmo un gran sospiro di soddisfazione, e ci guardammo sorridendo, un po’ trasognati.

— E anche questa volta è andata bene! — esclamavamo.

— Aver portato la macchina fin qui per vederla finire in un fuoco d’artifizio in mezzo alla steppa!

— Fortuna che ce ne siamo accorti in tempo!

— Se scoppiava la benzina andavamo in aria tutti e tre!

— In macchina! In macchina, che si fa tardi! — osservò il Principe.

— A Omsk! A Omsk!

Ettore aveva già aperto completamente il freno guasto rinunziando a servirsene per l’avvenire. Rimaneva ancora il freno a mano, non così pronto come quello a pedale, ma certo egualmente efficace. E riprendemmo il viaggio.

Presso al villaggio di Jurjewo trovammo un piccolo fiume da passare. I contadini temettero forse che l’automobile rovinasse il battello, poichè non volevano a nessun costo lasciarci traghettare. “La barca — dicevano — è per gli uomini, per i cavalli e per le teleghe. Questo non è un cavallo, non è una telega, dunque non può passare„. Tutta la eloquenza di Borghese non poteva convincerli. E allora? Allora comparve alla luce la lettera del Ministro. Un quarto d’ora dopo eravamo all’altra parte del fiume. A poca distanza da Omsk riattraversammo l’Om. Una [p. 384 modifica] folla di mujik in abiti domenicali presenziava dall’altra riva la breve navigazione. La nostra apparenza e il nostro modo di locomozione sembrarono sommamente sospetti non so a quale autorità del villaggio vicino. Era un mezzo contadino col berretto da funzionario, il quale profittò d’una nostra fermata, causata dal bisogno di metter acqua nel radiatore, per andarsi a munire d’un registro e tornare di corsa. Ci stavamo rimettendo in cammino.

— Fermatevi! — ci gridò l’uomo con accento imperioso.

Lo guardammo con un’indifferenza che dovette ferire molto la sua autorità, perchè gridò indignato:

— Fermatevi, vi dico! Fermatevi!

No. Conoscevamo già molti di quei piccoli despoti da villaggio che si dànno l’aria di dirigere anche il corso dei fiumi e la fioritura dei prati, che profittano del loro potere per creare tutte le noie possibili al prossimo, ignoranti ed avidi, che in altre occasioni ci avevano domandato nome, cognome, qualità, nazionalità, spiegazioni d’ogni genere, trascrivendo solennemente le risposte sopra un taccuino e guardandoci con la severità di giudici. Uno straniero, per il fatto che passa sul loro territorio, lo trattano da colpevole. No, il brav’uomo poteva pure gridare; noi non intendevamo aumentare il numero delle fermate impreviste, subire uno stupido interrogatorio, mostrare le carte, e dare una soddisfazione a quel microtiranno.

Egli si mise a correrci dietro con tutte le forze, gridando:

— Fermatevi, in nome della legge!

Io mi alzai in piedi, mi volsi, e seriamente, gravemente, affacciandomi al disopra dei bagagli, feci al nostro persecutore la più orribile smorfia imparata nei lontani anni della scuola elementare. Egli si fermò sconcertato da tanto ardire; e noi ci allontanammo lietamente.

Alle quattro scorgemmo Omsk, in una pianura sabbiosa disseminata di giunchi a ciuffi. Fuori della città s’innalzavano grandi e singolari mulini a vento, con le ali numerose disposte come raggi in ruote gigantesche, che facevano pensare a strane [p. 385 modifica] antiche macchine da assedio. Eravamo aspettati da un ufficiale di polizia, il quale, montato in una iswoshchik, ci guidò all’albergo. In poco più di dodici ore avevamo percorso da Kainsk 390 chilometri. Era stata la più fortunata giornata di viaggio.

Arrivammo ad Omsk all’ora della passeggiata domenicale. Sui marciapiedi di legno si muoveva lenta la pacifica folla dei cittadini, che prendeva aria con quell’andatura speciale di chi indossa il migliore vestito e non vuole sciuparlo. Passavano Affondati fra Tomsk e Kolywan. ufficiali e funzionari in grande uniforme, con le loro famiglie, tenendo i bambini per la mano. Vi era quella tranquilla atmosfera di città di provincia che si riposa. Le chiese dalle cupole multicolori, spandevano un suono di campane. Tutti si fermavano vedendoci, si volgevano. Noi arrestavamo, passando, quel vasto e pigro movimento della strada. Attraversammo un bel ponte sull’Om, vicino alla confluenza con l’Irtysch; un gendarme a cavallo ci fece cenno di rallentare: il ponte non si attraversa che al passo.

Sulle rive si allineavano i docks e gli scali; contro alle [p. 386 modifica] banchine di sbarco allungavano il fianco alcuni di quei grandi ed eleganti vapori da passeggeri che in questa stagione discendono l’Irtysch fino a Tobolsk e lo risalgono fino a Semipalatinsk, per 1500 chilometri del suo corso; vicino ai piroscafi, larghe chiatte si offrivano al carico sotto alle gru. Ne avevamo un’impressione di attività e di modernità. Era quasi una rivelazione per noi. Ci pareva di essere già in piena Europa. Avevamo trovato in Irkutsk la capitale politica, in Tomsk la capitale morale e in Omsk trovavamo la capitale commerciale della Russia asiatica.

Omsk è il centro di attività produttrici enormi. Essa domina, per la sua posizione, tutta la Siberia occidentale. Raccoglie per la via dei fiumi le ricchezze della terra più feconda, e le getta sui mercati europei per la strada ferrata. Si parla di riunirla con una linea alla ferrovia del Turkestan; diventerà il cuore dell’Asia centrale. Questa vecchia città che un soffio di progresso ha ringiovanito, ha degli aspetti di città pioniera, di città che sorga adesso e che abbia fretta, di città nuova su terra nuova, senza tradizioni da vincere e senza consuetudini da rispettare. Il segno di questa vitalità che sboccia adesso, indipendente da ogni vincolo del passato, si manifesta nella diffusione delle macchine. Sulle banchine del fiume noi non vedevamo che macchine, a migliaia, pronte ad imbarcarsi per le steppe vergini del Kulundinsk e del Naiman. Erano le più moderne macchine dell’industria agraria, quelle stesse che il misoneismo respinge da tante regioni civili d’Europa. È più difficile cambiare che creare: Omsk crea. Immense distese di “terra nera„ che non furono mai toccate dal lavoro umano, vengono aperte dai doppi aratri americani, fecondate dalle più perfezionate seminatrici, coltivate con i più ingegnosi apparecchi che la civiltà inventa a questo scopo.

Omsk riceve e disperde sui nuovi campi più di venticinque milioni di franchi all’anno di macchine agricole. I Kirghisi, che non hanno mai maneggiato un attrezzo rurale, risalgono l’Irtysch fino ad Omsk per prendere delle macchine. Cominciano dal [p. 387 modifica] meglio. Molte industrie, ieri quasi ignote, laggiù cominciano a sorgere e ad avere un’importanza nel mercato mondiale. Un treno speciale, munito di frigoriferi, passa ogni giorno i confini della Siberia portando un carico di burro fresco che finisce per due terzi sulle mense inglesi, e nello scorso anno sono stati ben cento milioni di franchi di burro che la regione fra Omsk e Kurgan ha esportato. La Siberia tradizionale, la desolata terra dell’esilio, il gelido paese dei lupi affamati, non esiste più, se mai è esistita. Essa si rivela un paese più ardito della Russia e più ricco. Nessuno può dire ora, allo spettacolo del suo primo risveglio, che cosa l’avvenire le riserbi.

All’albergo fummo ricevuti cordialmente da un comitato locale della Pechino-Parigi, formato in parte di stranieri, d’inglesi, di tedeschi, di norvegesi, rappresentanti di grandi case commerciali ai quali molto si deve dell’impulso di vita nuova che agita quelle regioni. Dal balcone dell’albergo qualcuno gridò:

— Viva l’Italia!

Guardammo in su e vedemmo un signore che sventolava il cappello, e che, dopo averci salutato così dall’alto, discese a salutarci in modo più intimo. Era un corrispondente inglese mandato ad incontrarci dal Daily Mail, un simpatico collega che da Omsk ci seguì poi in ferrovia per il resto del viaggio; e divenne un caro compagno delle grandi tappe.

Decidemmo di fermarci ad Omsk due giorni. Avevamo bisogno di riposo. Viaggiando eravamo sorretti dall’eccitazione nervosa d’una vigilanza continua. Correre, anche se non avvenivano incidenti, equivaleva ad un lavoro febbrile. Quando ci fermavamo sentivamo improvvisamente pesare su di noi una prostrazione indicibile. Tutte le veglie e tutti gli sforzi passati si facevano risentire ad un tratto, insieme; pareva che tornassero a reclamare il loro compenso di riposo. La nostra media di sonno era di quattro ore al giorno. Quando arrivavamo alla tappa, ogni sera, dopo una sommaria toilette, avevamo del lungo lavoro da compiere. Borghese, con l’aiuto della polizia, si dedicava alla [p. 388 modifica] ricerca del deposito di benzina; Ettore ripuliva la macchina e la preparava al prossimo tragitto; io avevo il resoconto da scrivere, nella mia migliore calligrafia per assicurarne la trasmissione corretta, e — quel che era più lungo e più difficile — dovevo indurre gli uffici telegrafici a spedirlo. La lunghezza del dispaccio spaventava gl’impiegati; mandare un telegramma di mille o di duemila parole lo reputavano una follia della quale rifiutavano ostinatamente di rendersi complici, e cercavano mille pretesti per farmi rinunziare alla trasmissione. Non era quasi mai prima delle dieci di sera che potevamo mangiare un boccone. Dormivamo spesso in terra. Alle due, alle tre del mattino eravamo in piedi. Nel nostro lavoro v’era inoltre qualche cosa che sfibrava più della fatica materiale; ed era l’ansia, l’emozione talvolta, l’incertezza spesso, erano le vive impressioni continue, gli scoraggiamenti e le audacie, le risoluzioni ostinate, tutto l’alto e il basso d’una lotta senza tregua. Tutto questo ci aveva indotto a riposarci due giorni ad Omsk, per ripartire più freschi e più sicuri.

Fra le qualità che ammiravo nel Principe v’era la resistenza: una resistenza fisica ed una più grande morale. Egli era stanco, ma sapeva non apparirlo. Gli piaceva anche non sembrare mai stanco con gli estranei. Teneva a questo predominio su se stesso. Se vi erano dei convitati o degli ospiti, pareva che dimenticasse il letto; si corazzava in una sorridente impassibilità da diplomatico, e resisteva indefinitivamente. Appena gli estranei se ne andavano, se ne andava anche il diplomatico, e Borghese s’addormentava mormorando di non poterne più. Confesso che a Omsk io sentii colpirmi dalla stanchezza come da una malattia. Come quegli affamati che dalla gran fame non possono più mangiare, io ero arrivato a non poter più dormire. Ma avvenne la reazione, e nel modo il più strano.

Alla sera del 16 Luglio rientravo all’albergo, quando ad un tratto sentii le gambe piegarmisi sotto, e mi accorsi di camminare come un ubbriaco; nello stesso tempo la vista mi si annebbiava; vedevo il cielo divenire verde; e mi parve che i passanti [p. 389 modifica] avessero tutti una faccia livida, e poi nera; una grande oscurità si faceva intorno a me. Ebbi coscienza d’essere guardato curiosamente dalla folla. Mi appoggiai al muro passandomi una mano sulla fronte. In quel mentre un’iswoshchik vuota si avvicinava. Adunai tutte le mie forze per chiamarla: — Iswoshchik! Iswoshchik!

Intravvidi la vettura volgere obbedendo alla mia voce. Poi non ricordo più niente. Non so quel che è avvenuto. Ma non è Nella Siberia occidentale. — Il Principe Borghese in Troika.


difficile indovinarlo quando avrò detto che ritornando in me mi trovai in terra, in quello stesso posto. Ero caduto di sonno, o di stanchezza. Mi svegliai con l’impressione d’essere in un letto, e aprendo gli occhi fui per un istante molto sorpreso di vedere dei piedi stivalati muoversi nell’immediata vicinanza del mio capezzale. Poi subito ricordai: e mi sollevai un po’ confuso. L’iswoshchik era ancora lì, ferma, e mi aspettava. Quanto tempo ero rimasto inerte e senza coscienza? Chi sa? E come mai nessuno mi aveva aiutato, mi aveva raccolto dal fango? Ah, questo poi è per gli usi del paese. Se si dovessero raccogliere tutti gli [p. 390 modifica] uomini che si addormentano di sera per le vie d’una città siberiana, vi sarebbe troppo da fare. Io ero stato semplicemente scambiato per un onesto ubbriaco. La sbornia è così generale in Siberia, che è rispettabile: ed è perciò rispettata. Incontrandomi in piedi la folla poteva anche guardarmi con diffidenza o con disprezzo; incontrandomi sdraiato non poteva che stimarmi. Acquistavo come un diritto di cittadinanza. Salii sulla vettura; il cocchiere si volse e mi disse con voce affettuosa:

— Io vado adagio, padrone, ma fareste bene a tenervi forte, qui!

E m’indicò il ferro della sua spalliera.

L’automobile, fuori del guasto al freno, che fu subito riparato, non aveva bisogno di lavori. Del resto delle riparazioni importanti sarebbero state impossibili. Organizzando la corsa il Principe si era fatto spedire ad Omsk alcuni pezzi di ricambio: ma le dogane russe — o austriache, non si sa bene — li avevano trattenuti chi sa dove. Furono cambiate le pneumatiche delle ruote anteriori — che avevano fatto l’intero tragitto da Pechino — e la macchina fu ripulita da capo a fondo, visitata minutamente nelle sue parti più delicate. Ettore era entusiasta di quell’automobile che si manteneva perfettamente ad onta di tante fatiche e di tante peripezie. Ma se l’automobile fosse stata intelligente avrebbe dovuto essa mostrarsi entusiasta di Ettore che le prodigava tutte le sue cure. Egli spingeva la pazienza e lo scrupolo fino a fare ad ogni tappa delle verifiche minute e difficili che per solito gli chauffeurs non fanno che di tanto in tanto. Tutte le sere egli svitava le scatole che chiudono gelosamente gl’ingranaggi dei cambi e del differenziale, per osservare se il funzionamento era stato normale, e per rinnovarvi l’olio o il grasso entro i quali quegl’ingranaggi sono perennemente immersi. La carrozzeria, che la via di Tomsk aveva un po’ sconnesso, fu rinforzata con piastrine e viti d’acciaio.

Ad Omsk decidemmo sull’itinerario da seguire per giungere a Kazan. Vi sono due vie: una breve e una lunga. La breve, [p. 391 modifica] naturalmente, fu la prescelta dal Comitato della corsa a Parigi. Essa è la seguente: Omsk, Kurgan, Tscheljabinsk, Ufa e Kazan, e segue presso a poco la ferrovia. Ma il Comitato russo formatosi a Pietroburgo per patrocinare la corsa, consigliava di seguire la via più lunga perchè migliore, di andare cioè a Kazan per Tjumen, Jekaterimburg, Perm. Questa via gira al nord salendo fino al 58° grado di latitudine mentre l’altra arriva appena al 55° grado. Quel grande arco boreale di tre gradi di raggio non ci seduceva veramente come la linea retta che, dicono almeno i geometri, è la più corta. Ma ci rimettemmo alla sapienza del Comitato di Pietroburgo, il quale ci aveva fatto pervenire degli splendidi tracciati stradali, disegnati apposta per noi. Su questi tracciati, il solo itinerario prescelto a Pietroburgo era svolto interamente con i profili altimetrici e le distanze in verste fra villaggio e villaggio. Un lavoro di pazienza che ci fu estremamente utile. Ci sentivamo riconoscenti di questi aiuti efficaci del Comitato di Pietroburgo, ai quali si aggiungevano le cortesie infinite dei comitati minori, sorti nelle città principali per riceverci. Dovunque ci sentivamo circondati da una franca e spontanea cordialità: si sarebbe detto che i russi, non potendo togliere gli ostacoli e i pericoli dalle loro strade, facessero di tutto perchè ce li dimenticassimo.

Il giorno 16 ricevemmo la notizia che le De Dion-Bouton erano giunte a Marinsk.


Fummo pilotati fuori da Omsk, alle tre del mattino del 17, da un’automobile antica, minuscola, piuttosto simile ad una carrozzella da bébé, raro cimelio dell’automobilismo siberiano. Era montata da due dei nostri più recenti amici, membri del Comitato d’Omsk. Uno di essi, un simpatico svedese di statura colossale, indossava una strana impermeabile bianca che per la cuffia arricciata ai bordi aveva tutta l’apparenza d’un abbigliamento femminile. Egli sarebbe sembrato una signora in sortie de bal, se volgendosi non avesse mostrato, fuori della cuffia da dòmino, la più imponente delle barbe. [p. 392 modifica]

La città dormiva ancora. L’Om appariva immoto sotto al pallore rosato dell’alba: le oscure ombre dei battelli, dalle ciminiere alte e spente, s’ammassavano presso le rive tanto operose dì giorno. Usciti dall’abitato sulla strada di Tjumen, quando ogni errore non era più possibile la piccola automobile si tirò in disparte per lasciarci passare, e scambiammo saluti con le nostre guide. Nell’entusiasmo lo svedese in sortie de bal estrasse la rivoltella, ed aggiunse agli hurrah! un efficacissimo accompagnamento di detonazioni. Dopo questo saluto navale, l’automobile prese la corsa veloce sulla steppa, che sembrava proprio un mare calmo, verde.

Il cielo era sereno, limpido: si sarebbe detto un cielo italiano, se l’aria frizzante non ci avesse morso le orecchia, il sole sorgeva sull’orizzonte piano. Ritrovavamo il paesaggio eguale, infinito, malinconico, lasciato due giorni prima. Erbe, arbusti, betulle nane, giuncaglie: non vedevamo altro. Ma ne eravamo contenti, non chiedevamo di più; per noi i migliori paesaggi erano quelli che facilitavano la nostra fuga. Spingevamo la macchina alla terza e alla quarta velocità. Curvi, fendevamo l’aria che gonfiava i nostri abiti, che faceva garrire la bandiera a poppa, che rombava impetuosa intorno a noi. Ci sentivamo inebriati come per una libertà riconquistata; ci sembrava di riprendere finalmente un gran volo incominciato laggiù, nelle pianure mongole.

Incontravamo ogni tanto lunghe carovane di teleghe, i cui conducenti dormivano ancora. Sordi ai segnali, essi si svegliavano soltanto quando passavamo loro vicino. Si stropicciavano gli occhi, credendo forse di sognare, e, come tutti i carrettieri siberiani, rimanevano tanto stupefatti da non pensare neppure a calmare i loro cavalli impennati e fuggenti.

I villaggi erano rari: manca il legname per costruirli. Alcune casupole erano fatte con frasche intrecciate: sembravano dei grossi panieri. Ed era singolare udire uscire da quei panieri grida di meraviglia al nostro passaggio. Giungemmo in tre ore alla riva dell’Irtysch, sulla quale sono posti segnali di navigazione; delle boe rosse ondeggiano nella corrente. I battelli a vapore vi [p. 393 modifica] discendono fino a Tobolsk. Abbiamo trovato sul bordo del fiume una grande carovana di contadini che tornavano da Omsk dove erano stati a comperarsi delle falciatrici e delle erpici americane, ed aspettavano per passare all’altra riva. Erano tutti emigrati, oriundi delle provincie tedesche, ed avevano infatti più il tipo teutonico che il tipo slavo. Si dicevano contenti della nuova patria. Una gran parte della trasformazione della Siberia è operata da uomini di questa razza. La ruota nuova fabbricata in sette ore
da un fabbricante di teleghe e i suoi aiutanti in un villaggio russo tra Perm e Kazan.
Fotografia presa nella fucina.

Attraversammo l’Irtysch sopra una barca che aveva per motore quattro cavalli, come quella sul Tom, e che era comandata da un magnifico capitano barbuto, il quale cavalcava, frustava e gridava per mantenere il motore al trotto. Abbiamo ripreso la corsa. Trascorrevano le ore. Sfilavano i numeri delle verste. E passavamo per villaggi le cui casette hanno i tetti interamente coperti di zolle erbose, tetti fioriti; si sarebbe detto che le casupole fossero sorte dal suolo sollevando pezzi di prato. Alle dieci scorgemmo sull’orizzonte una grande colonna di fumo. [p. 394 modifica]

Era un’immensa nube, bianca agli orli, dove il sole l’illuminava, e fosca, come tempestosa, verso la terra. Si ripiegava e sfumava a ponente. Avvicinandoci la vedevamo sempre più alta, più densa, più larga. Che cosa ardeva? Non dubitammo che qualche immenso incendio stesse divorando un villaggio. Osservammo la direzione della nube e consultammo la carta. L’incendio si trovava sulla nostra via. Forse Abatsk bruciava. Ci persuademmo che Abatsk fosse in fiamme. Era là, Abatsk, proprio là.

Guardavamo con interesse angoscioso, senza parlare, quel tragico nembo che ingigantiva, che occupava a poco a poco la metà del cielo, che di quando in quando aveva delle oscillazioni lente dissolvendosi da un lato e infoltendo dall’altro. Mezz’ora dopo ci accorgemmo che era una prateria che bruciava. Le erbe essiccate, i cespugli, offrivano un inesauribile alimento al fuoco, che camminava verso ponente spinto da una brezza lieve lieve.

Trovammo Abatsk salva, ma minacciata. Il sole era scomparso. Nuvole di fumo annebbiavano il giorno, formavano su di noi una sinistra ombra d’eruzione. Vi era una luce lugubre di cataclisma. Fuori di ogni casa erano stati messi tutti i recipienti colmi d’acqua, secchi, brocche, orci. Gruppi di gente erano pronti ai pozzi. Il villaggio si trovava in istato di difesa. Tutti osservavano immobili: si sarebbe detto che aspettassero un assalto e che vigilassero dalla parte del nemico. Poco discosto dalle case degli uomini lavoravano a scavare un fossato. Numerose teleghe dai paesi vicini arrivavano portando contadini muniti di pale, di zappe, di altri attrezzi. Ma si vedeva in tutto ciò un ordine che significava quasi una preparazione. Gl’incendi, in quella stagione non debbono esser rari sulla steppa. I villaggi hanno certamente un piano di guerra per respingerli, e quando il fuoco arriva lo mettono in esecuzione con la calma di chi non è preso alla sprovvista. In pochi minuti noi ci trovammo di nuovo sotto al sole limpido.

Il viaggio rientrò nella monotonia. Trovammo qualche sabbione, che ci ricordò l’arrivo a Kiakhta, e, nel pomeriggio, [p. 395 modifica] rivedemmo alcuni boschetti di betulle. La betulla tornava a crescere, riprendeva le sue proporzioni naturali. Vicino a quei boschetti era Ischim, la nostra tappa, una cittadina bianca e silenziosa. Vi arrivammo alle tre. Avevamo percorso 355 chilometri.

Ischim è piccola, isolata nella pianura, e sembra disabitata. Una volta all’anno diventa una gran città. Tanti suoi edifici non si aprono e non vivono che in quella ricorrenza. Essa è celebre per essere il centro di una gran fiera annuale che eguaglia, dicono gli abitanti d’Ischim, quella di Nishnii-Nowgorod. Ma noi la vedevamo nella lunga epoca del suo riposo.

Un ricco mercante volle ospitarci nella sua casa. Ritrovammo le patriarcali larghezze di Kiakhta e di Irkutsk: tavola imbandita, e porta aperta agli amici e alle autorità. Mentre facevamo del nostro meglio onore alle accoglienze del nostro ospite, vennero ad avvertirci che il popolo d’Ischim desiderava vederci. Non si fa aspettare il popolo, nemmeno a Ischim, specialmente quando si contenta di così poco. E siamo discesi.

Una gran folla aveva invaso il cortile ed assediava l’automobile. Alla nostra comparsa è scrosciato un applauso. Sostenuto l’applauso con la dignità che l’occasione richiedeva, ci siamo mossi per rientrare in casa. Ma no, il popolo non è soddisfatto, diamine! Vuol vederci correre in automobile. Siamo arrivati in città così improvvisamente che nessuno ci ha ammirati. Era nostro dovere riparare a questa trascuratezza deplorevole. Siamo montati in automobile, e abbiamo in cinque minuti percorso tutte le strade. La rentrée nel cortile è stata magnifica. L’entusiasmo popolare non ebbe limiti. Io fui strappato a viva forza dal mio sedile, sollevato sulle spalle dalla folla, e portato in trionfo. Il popolo d’Ischim mi aveva scambiato per il Principe.

Urlai alla moltitudine che il Principe non ero io, e fui lasciato libero. Ma rimasi invendicato: Borghese s’era messo già in salvo.