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404 capitolo xviii.


I mujik vestivano quasi tutti il camiciotto rosso, quell’indumento che piace tanto a Tolstoj.

Ma non vedevamo più in loro la bonarietà siberiana. Ci accoglievano con segni di meraviglia ostile, come se rappresentassimo l’arrivo di qualche nemico ignoto. Alcuni uomini fuggivano; altri ci guardavano torvamente, atteggiati a difesa. Delle donne ripetevano uno strano segno di scongiuro, sputando dalla nostra parte. Questo solo sarebbe bastato a significarci che entravamo fra gente d’un’altra razza, o per lo meno d’un’altra anima.

La campagna si faceva sempre più variata, ondulava leggermente, offrendoci piccole discese e piccole salite. Non potevamo riprendere la nostra corsa; la strada continuava ad esser cattiva fuori della foresta, era solcata da fossette, piena di buche, attraversata da ponticelli di legno incerti. Avvicinandoci ad una città trovammo della gente sulla strada. Anzi fu la presenza di questa gente ben vestita, di ufficiali, di signore, di studenti, fermi all’ombra d’una pineta, fra le vetture che li avevano condotti, che ci rivelò la vicinanza d’una città. Era la folla dei piccoli centri provinciali russi. Aspettava noi.

Vedendoci arrivare, si appressò e ci salutò. Mentre passavamo si levarono grida di augurio; gli uomini si scoprirono, le donne sventolavano i fazzoletti. Un giovanotto in bicicletta si mise a pedalare avanti a noi facendoci cenno di seguirlo. Discendemmo un declivio, e la città ci apparve, con i suoi tetti disseminati fra gli alberi, i suoi campanili dalla punta dorata. Era Kamyschlow. Seguimmo fedelmente il ciclista che ci pilotò attraverso le vie e le piazze, e poi per un mercato, ci fece passare un ponte, e ci lasciò dopo averci indicato la buona strada per Jekaterinburg. Senza la sua guida, fidandoci alle apparenze, avremmo probabilmente infilato la strada per Irbit. Fu una traversata rapida, che ci lasciò un confuso ricordo di quella graziosa cittadina, verso la quale sentivamo riconoscenza per il saluto inatteso gettatoci nell’aperta campagna.