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nel deserto di gobi 147


Noi ci trovavamo avanti ad edifici di quello stile. Ma erano ben lontani, certo, dal possedere l’imponenza dell’Acropoli di Lhasa. Il deserto non offre materiali da costruzione, e chi sa da dove avevano portato in quel luogo le pietre a dorso di cammello. Era la forma e non la grandezza che dava loro una severità imponente. E forse anche era soltanto il significato che a quella forma annettevamo noi, erano le analogie che essa ci suggeriva, le evocazioni della nostra mente.

Il principale edificio era un tempio Lamista, tutto bianco di calce, ornato alla sommità da un fascione rosso a fregi di terracotta, d’una grazia semplice e di sapore greco. Un fregio simile contornava la porta e le finestre trapezoidali, protette ognuna da un piccolo tetto. Lunghi tubi di bronzo sporgevano in alto per far scolare le pioggie dalla terrazza, sollevati come dei remi al bordo d’una galea. Le costruzioni intorno, molto più piccole, somigliavano al tempio; supponemmo fossero le abitazioni dei monaci. Lasciata l’automobile ci aggirammo a piedi per quei luoghi sacri. Non v’era nessuno. Sembravano abbandonati. Non udivamo una voce, non un rumore.

Stavamo per ritornare “a bordo„, quando da una porticina venne fuori un vecchio, a piccoli passi. Ci vide, e si fermò. Era alto, vestito di un costume bizzarro che gli lasciava le braccia nude, magro, con un volto rugoso da vecchia. Lo avvicinammo, lo riverimmo, lo fotografammo, gli parlammo, ed egli non si mosse e non rispose. Non mostrava nè stupore, nè paura. Pareva soltanto assorto in una meditazione profonda sul mistero del nostro essere e della nostra presenza in quei luoghi. Ci guardava senza poter comprendere. Nei suoi occhi v’era lo sforzo della concentrazione. Sarebbe stato impossibile indovinare la sua età; sembrava forte e sembrava decrepito; sul suo viso s’affossavano i solchi d’una vecchiaia incalcolabile.

Rimontati in macchina ci volgemmo correndo, e lo vedemmo ancora lì, immobile, che ci guardava sempre, quel vecchio solo che non riusciva a capire.