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142 capitolo vii.


— E allora perchè vi è un ufficio? — domandai dopo un silenzio riempito di stupore.

— Perchè le distanze sono troppo grandi, e occorrono delle stazioni intermedie.

La conversazione fu interrotta dall’apparecchio: Kalgan chiamato rispondeva. Il mio dispaccio cominciò a partire.

Kalgan lo riceveva per passarlo a Pechino, Pechino lo avrebbe trasmesso a Shang-hai, Shang-hai a Hong-Kong, Hong-Kong a Singapore, Singapore ad Aden, Aden a Malta, Malta a Gibilterra, Gibilterra a Londra.

Avrebbe impiegato da otto a dieci ore per giungere a destinazione. Ma il tempo di Pong-Kiong è di otto ore in anticipo su quello dell’Europa centrale, e il telegramma sarebbe effettivamente arrivato soltanto due ore dopo della partenza. Erano le 4.15; fra le sei e le sette della sera il mio resoconto sarebbe stato nelle redazioni del Daily Telegraph e del Corriere della Sera. E al mattino dopo, i lettori inglesi ed italiani avrebbero conosciuto quel che alla vigilia era avvenuto a delle automobili nei deserti della Mongolia. Vi è qualche cosa di talmente grande nella vittoria umana sul tempo e sullo spazio, ottenuta con dei fili e delle scintille, che in certi momenti la stessa anima d’un giornalista, la più abituata ai prodigi della rapidità, è invasa da un senso di meraviglia e di orgoglio.

Verso le sei arrivarono le altre vetture. Le vedemmo venire da lontano, quando non erano che delle cose minuscole sulla sconfinata eguaglianza della terra, così lontane che sembravano immobili come navi all’orizzonte. La Spyker entrò per la prima nel recinto, dove Ettore stava mettendo in ordine la nostra automobile e dove io mi ostinavo a ridurre alla cottura un pezzo di pecora più dura d’una pneumatica. Du Taillis saltò giù dal suo sedile sollevando un sacco grigio, e gridando:

— Di chi è questa roba?

Era il bagaglio di Borghese. Aver ritrovato, dopo Pong-Kiong, anche la valigia, era il colmo della buona fortuna. E c’è della gente che si sperde nei deserti!