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148 capitolo vii.


La strada scendeva sensibilmente. Verso le otto arrivammo sull’orlo d’un ciglione. I prati erano di nuovo scomparsi. Ritornava l’erba grassa, grigia e rada, timidamente raccolta in larghe macchie che lasciavano fra loro vaste zone sterili e nude. Ci trovavamo sulla soglia del vero deserto.

Gobi in mongolo significa cavità. Il deserto è una immensa depressione nel centro della Mongolia; è la cavità, il gobi, che conteneva un mare. Noi ci trovammo sulla riva di quel mare scomparso. Era una vera riva, ripida, un gradino brusco creato dall’urto delle onde. Stavamo per entrare in una pianura più bassa: nel fondo dell’antico mare. Quella spiaggia aveva le sue insenature, i suoi capi, le sue penisolette. Avanti a noi il piano sterile si stendeva all’infinito ondulando, e pareva risollevarsi all’orizzonte per quella illusione ottica che fa sembrare l’orizzonte marino sempre più alto della riva.

Una discesa ripida, lunga venti o trenta metri, ci varò sulle sabbie dure e piane che avevano conosciuto le tempeste. E incominciammo una corsa fantastica attraverso il più strano e il più desolato paesaggio; una corsa che era un attacco ed una fuga insieme.

A mano a mano che c’inoltravamo la terra diveniva più nuda, squallida, triste. Ora piana ed eguale, ora accidentata, agitata da bruschi sollevamenti; ora formata da sabbie cristalline che scintillavano al sole, ed ora il suolo non era che un fondo schistoso d’un colore di fango compresso. Nessuna forma di vita, fatta eccezione per certe lucertole piccole e corte, di un colore così eguale a quello della terra da renderle invisibili appena si fermavano. Si sarebbero prese per dei minuscoli frantumi del suolo improvvisamente animatisi per fuggire qua e là lontano dalle ruote dell’automobile.

Le ore passavano in una monotonia mortale. Il calore, coll’avanzare del giorno, diveniva ardente. L’aria era immobile, e aspiravamo con voluttà il soffio refrigerante che la velocità ci spingeva sul volto. Passavamo dal fresco del mattino ad una tem-