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152 capitolo vii.


sapiente sovrapposizione di sassi, culminata da un teschio di bue o di cavallo. Sembravano veramente innalzati alla morte. Da lontano, più di una volta, quelle costruzioni che si profilavano sul cielo terso ci parvero degli uomini, e nel teschio bianco credevamo di vedere le loro facce. Ve n’erano tante che formavano una folla. La presenza di una moltitudine, non importa di quale gente composta, era per noi una ragione di contento. Era un’interruzione della sconfinata solitudine. Nel deserto tutti gli uomini diventano cari, forse non tanto per un senso d’affratellamento umano, o per un desiderio di unione contro il pericolo, quanto per lo spettacolo confortante della vita. E guardavamo tutti quegli uomini dritti, scrutandoli; poi ci stupivamo della loro immobilità; pensavamo che forse ci avevano visti ed erano fermi per la meraviglia. Improvvisamente la solitudine si rifaceva intorno a noi, e più dolorosa, quando vedevamo quella folla divenire di pietra, e i volti trasformarsi in teschi, come per un lugubre incantesimo.

Alla base d’ogni obo erano delle striscie di carta con sopra scritte preghiere in carattere tibetano, o delle banderuole scolorite dal tempo, recanti anch’esse traccie di scritture sacre. Il mongolo nutre una superstizione piena di poesia: crede che il vento, agitando quella carta e quelle bandiere, ne faccia uscir fuori la prece scritta e la rechi a Buddha; passando lì sopra l’aria s’imbeverebbe di preghiere come s’imbeve di profumi passando sui fiori ed agitandoli. Il significato dell’incenso nelle nostre cerimonie religiose non ha qualche analogia? Noi dovevamo agli obo un beneficio: la loro presenza significava la liberazione della strada da tutti i sassi. E chi sa che l’origine della singolare usanza religiosa non debba proprio ricercarsi nella necessità di migliorare i passaggi sassosi, e che l’atto di togliere una pietra dalla via non sia divenuto un rito in mezzo ad un popolo che ad ogni atto ed ogni fatto attribuisce un senso mistico.

Dovemmo accorgerci che il radiatore, questo polmone dell’automobile, non respirava bene. Per il gran calore, la corrente