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84 capitolo iv.


anch’essi. Non v’era da scegliere; bisognava passare. I nostri uomini denudarono le loro gambe, ed entrarono nel pantano. Il lungo guado pareva procedesse bene. Misuravamo con gli occhi la distanza della terra asciutta, pieni di speranza. Ancora due minuti, e saremmo stati in salvo. L’acqua gorgogliava sotto i passi.

Improvvisamente l’automobile si fermò.

— Avanti, avanti! — gridò Ettore.

— Imbecilli! — esclamammo — si riposano proprio in questo momento.

— Forza! Una sosta è terribile adesso. Si affonda!

Ma i poveri cinesi non si erano fermati volontariamente. Essi comprendevano bene il pericolo. Tiravano a più non posso, gridavano concitati. Le tre bestie puntavano le zampe sotto una grandine di frustate e allungavano i colli magri. Le corde erano tese, lo chassis gemeva. Inutile. La macchina pareva inchiodata. Più volte fu rinnovato il tentativo di smuoverla, ora lentamente, ora a strattoni; in ogni modo. Bisognava cercare altri mezzi. Ci preparavamo ad attaccare delle catene agli alberi e far forza con i paranchi. Ma i cinesi, tastando sotto l’acqua con i piedi nudi, sentirono che le ruote avevano urtato qualche cosa. Pietro ci riferì:

— Grosso sasso!

Un grosso sasso? Ecco le leve di ferro. Al lavoro. Ci accingevamo a demolire anche una montagna quando, palpando con le mani in cerca d’un punto d’appoggio per le leve, i coolies sentirono che non si trattava d’un sasso. E Pietro spiegò:

— Grosse radici!

Infatti erano le radici d’un gigantesco salice, che stava poco discosto, lieto di verde e indifferente come se non avesse avuto la più lontana responsabilità. Non v’era altro da fare che tagliare le radici a colpi di accetta. Un lavoro singolare e nuovo nell’automobilismo. Chi ci avrebbe visti ci avrebbe creduti intenti alla favolosa impresa di spaccare l’acqua. I colpi scendevano regolari, rasentando un bastone piantato sul fondo a segnalare il punto da colpire.