La madre amorosa/Atto II
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ATTO SECONDO.
SCENA PRIMA.
Camera di donna Aurelia.
Donna Aurelia, poi donna Laurina.
Aurelia. Florindo si avanza troppo, e Laurina mia non conosce l’inganno della sua passione. Tocca a me farglielo rilevare per quanto posso, per quanto mi fia possibile. Eccola. Voglia il cielo che la colpiscano le mie parole.
Laurina. Signora, eccomi ai vostri comandi.
Aurelia. Dove siete stata sinora?
Laurina. Nella mia camera.
Aurelia. A far che nella vostra camera?
Laurina. A piangere liberamente.
Aurelia. Povera figlia! voi siete afflitta; vi compatisco, e sento al vivo dentro di me medesima le vostre pene.
Laurina. Ah signora madre, voi non mi amate.
Aurelia. Sì, figlia, vi amo teneramente, e desidero di vedervi contenta.
Laurina. Se fosse vero, voi non mi affliggereste così.
Aurelia. Via, voglio consolarvi; credetemi, son pronta a farlo.
Laurina. Dite davvero, signora madre?
Aurelia. Sì, cara, sedete ed ascoltatemi.
Laurina. (Questa volta Florindo è mio). (da sè, e seggono)
Aurelia. Laurina amatissima, niuna persona di questo mondo può amarvi più della madre, e a niuno, meglio che a me, si conviene la confidenza del vostro cuore. Di me non vi siete fidata, e dall’aver operato senza il consiglio mio, sono derivati i disordini che sconcertano la nostra casa.
Laurina. Signora, il rispetto...
Aurelia. Sì, v’intendo: per rispetto non mi avete confidato gli arcani vostri, ma di questo rispetto vi siete poscia scordata, quando avete determinato di farvi sposa senza l’assenso mio.
Laurina. Voi continuate a rimproverarmi...
Aurelia. No, figlia, non vi rimprovero più. Quello ch’è stato, è stato. Parliamo adesso con libertà. Son madre al fine, e posso bene sacrificare un puntiglio, per chi sarei anche pronta di sacrificare la vita.
Laurina. Via, non mi fate piangere...
Aurelia. Eh figlia, ho tanto pianto per voi, che le vostre lacrime non arriveranno mai ad equivalere alle mie; ma non voglio che più si pianga. Ditemi con sincerità, con franchezza: siete voi innamorata?
Laurina. Sì, signora, lo sono.
Aurelia. È Florindo l’oggetto de’ vostri amori?
Laurina. Non vi è bisogno che lo ripeta. Già lo sapete.
Aurelia. Voi mi rispondete con un poco di temerità.
Laurina. Già lo vedo: voi volete alla fine mortificarmi.
Aurelia. Non è vero. Voglio soffrirvi, desidero consolarvi. Ma ditemi, in grazia, quanto tempo è che voi amate il signor Florindo?
Laurina. In verità, signora, non è più di dodici giorni.
Aurelia. E in così poco tempo avete concepito per lui un così grande affetto?
Laurina. Eppure, signora, io l’amo teneramente.
Aurelia. No, Laurina, voi non l’amate.
Laurina. Volete voi saperlo meglio di me?
Aurelia. Sì, lo conosco meglio di voi, e lo voglio far rilevare a voi stessa.
Laurina. In che maniera?
Aurelia. Voi aborrite la soggezione, siete annoiata della casa paterna, bramate di figurar nel gran mondo, bramate avere uno sposo al fianco. Florindo è il primo che vi si offre; ecco l’origine, ed ecco il fine del vostro amore.
Laurina. (Tutto il sangue mi si rivolta). (da si)
Aurelia. Laurina, voi arrossite.
Laurina. Io, signora? l’ingannate.
Aurelia. Che vi pare di questo mio vaticinio?
Laurina. Se desidero maritarmi, non fo torto a nessuno.
Aurelia. Fate torto alla vostra nascita col desiderare Florindo.
Laurina. Eccoci al punto. Voi non volete ch’io mi mariti.
Aurelia. No, anzi desidero maritarvi.
Laurina. Ma come? Non la capisco.
Aurelia. Vi troverò io uno sposo.
Laurina. Perchè volete affaticarvi a ritrovarmi uno sposo, se l’ho bello e trovato?
Aurelia. Quante volte ve l’ho da ripetere? Florindo non è per voi. (alterata)
Laurina. Ecco qui il bell’amore! Mi grida, mi mortifica.
Aurelia. Via, se amate veramente Florindo, io medesima ve lo concedo in isposo.
Laurina. Dite davvero?
Aurelia. Sì, ma voglio assicurarmi che veramente lo amiate.
Laurina. E come?
Aurelia. Ascoltatemi. Florindo è un uomo vile, nato di genitori plebei, sollevati a qualche comodo dalla fortuna.
Laurina. Per questo...
Aurelia. Ascoltatemi. Suo padre lo lasciò ricco, ma in pochi anni ha egli consumata l’eredità in crapule, in dissolutezze, in giuoco, in donne.
Laurina. Non credo...
Aurelia. Lasciatemi terminare. Egli è pieno di debiti, e se vi sposa, e la zia vi dà la dote, o in pochi dì egli la consuma, o vi conduce a parte delle di lui miserie, a piangere seco il tristo effetto d’un amore imprudente.
Laurina. Signora, avete ancor terminato?
Aurelia. Vengo alla conclusione. So che voi non vorrete credere per vera la descrizione fattavi del vostro amato Florindo, ma figuratevi per un momento ch’ei fosse tale, quale ve l’ho dipinto; lo prendereste voi per marito?
Laurina. Se tale ei fosse... certamente... non lo prenderei.
Aurelia. Lode al cielo, voi non lo amate. (s’alza) Se lo amaste davvero, l’amore vi farebbe essere più pazza ancora che voi non siete. Ecco avverato quanto vi dissi, eccovi il vostro cuore scoperto. Voi non amate Florindo, ma in lui bramate uno sposo. Ma questo sposo che voi bramate, non amereste riceverlo dalle mani di vostra madre?
Laurina. Se voi me lo aveste proposto, non lo avrei ricusato.
Aurelia. E se ora vel proponessi, sareste in grado di ricusarlo?
Laurina. Il mio dovere sarebbe, ch’io mi rassegnassi al volere della mia genitrice.
Aurelia. Lo conoscete dunque questo dovere.
Laurina. Sì, signora: non sono mai stata disobbediente.
Aurelia. Se siete ragionevole, se conoscete il vostro dovere, principiate ora ad usarlo.
Laurina. Ma come, signora?
Aurelia. Licenziate Florindo.
Laurina. Licenziar Florindo? Vi vorrebbe una ragione per farlo.
Aurelia. La ragione più forte per voi sia il comando di vostra madre.
Laurina. Ciò non potrà difendermi dai rimproveri di Florindo e dagl’insulti della zia. Vi vorrebbe qualche cosa di più.
Aurelia. Che cosa vi suggerirebbe la vostra prudenza?
Laurina. Per esempio... un altro partito migliore di questo.
Aurelia. Sì, vi ho inteso. Voi volete marito. L’avrete, ve lo prometto.
Laurina. Fin che io non l’abbia, sarò sempre molestata dal signor Florindo.
Aurelia. Sarà mia cura far ch’ei desista d’importunarvi.
Laurina. Signora, vi prego non far rumori. Si staccherà a poco a poco. Finalmente, s’egli mi ama...
Aurelia. Basta così. Tocca a me a regolarvi. (alterata)
Laurina. Ah, lo vedo. Voi mi volete oppressa, mortificata, delusa.
Aurelia. No, cara, vi amo quanto l’anima mia. Bramo la vostra quiete, la vostra pace, la vostra sola fortuna. Ma io conosco i mezzi per conseguirla. Siete stanca di viver meco? Pazienza. Anderete a vivere con uno sposo, ma per quanto egli vi ami, l’amor coniugale non potrà mai eguagliarsi all’amor materno, e nelle occasioni di qualche angustia non troverete già nel marito la tenerezza, il conforto che vi somministra una madre. V’annoia forse la soggezione, e bramosa di libertà vi lusingate ottenerla col matrimonio? Oh figlia, quanto è più duro il legame degli sponsali di quello della filiale rassegnazione. Quanto più duri e meno ragionevoli esser sogliono i comandi di un marito indiscreto... Ma non vo’ proseguire a discreditarvi uno stato al quale voi aspirate, perchè non crediate ch’io voglia tiranneggiare l’arbitrio vostro. Accompagnatevi pure, che il cielo vi benedica. Ma fatelo da vostra pari. Soffrirò perdere la vostra amabile compagnia, ma non soffrirò la perdita del decoro vostro. Lasciate uno sposo ch’è indegno di voi, ed attendetene un altro che vi convenga. Io stessa vi prometto, Laurina, di procurarvelo, e vado in questo momento ad operare per voi. Sì, cara, per voi che siete l’anima mia, per voi che amo più della mia vita medesima. E se queste viscere vi hanno data la vita, saprei ancora, salvo il decoro vostro, per voi andare incontro alla morte. (parte)
Laurina. In verità, che mi ha intenerita. Mi ha cavate le lacrime dal cuore. Povera madre! può essere più buona, più amorosa? Mi ha promesso ella stessa di trovarmi lo sposo; e son sicura che lo ritroverà. Florindo mi piace, gli voglio bene: ma se è poi tale, come me lo ha dipinto la mia genitrice, non merita ch’io lo ami, non merita ch’io lo sposi.
SCENA II.
Donna Lucrezia e detta.
Lucrezia. C’è qui la signora cognata?
Laurina. Non signora, non ci è.
Lucrezia. Voleva fargli vedere una certa carta.
Laurina. Che carta, signora?
Lucrezia. Una carta che avete da vedere anche voi.
Laurina. Dunque, se non ci è mia madre, posso vederla intanto io.
Lucrezia. Sì signora, eccola qui. Questa è l’accettazione della vostra persona in un ritiro.
Laurina. Io in un ritiro?
Lucrezia. Voi in un ritiro, quando avanti sera non diate la mano al signor Florindo.
Laurina. Perdonatemi, signora zia, in un ritiro non ci anderò.
Lucrezia. In casa più non vi voglio.
Laurina. Mi mariterò.
Lucrezia. Sì, col signor Florindo.
Laurina. E se non mi mariterò con lui, mia madre me ne troverà un altro.
Lucrezia. Fidatevi di vostra madre, e lo vedrete.
Laurina. Ella me l’ha promesso.
Lucrezia. Se avesse voglia di darvi marito, non impedirebbe che prendeste questo.
Laurina. Dice ch’è nato vile.
Lucrezia. Che importa il nascere? Le azioni si osservano. Tratta da cavaliere, è generoso e splendido, nè si fa star da nessuno.
Laurina. Dice ch’è discolo, e pieno di vizi.
Lucrezia. Non è vero. Io lo conosco. Non ve lo avrei proposto. E poi, se ha qualche vizietto, bisogna compatire la gioventù. Col matrimonio si assoderà, e voi starete da principessa.
Laurina. Ma se mia madre dice che ha consumato ogni cosa, che presto presto sarà miserabile.
Lucrezia. Oh spropositi! Da ciò si vede che vostra madre v’inganna. È ricco, ricchissimo: e poi, se vi fa ventimila scudi di contraddote.
Laurina. Son confusa... Non so che mi dire.
Lucrezia. Vostra madre pensa solo a se stessa. Quel caro conte Ottavio le fa fare tutto a suo modo.
Laurina. Certo; parlano sempre fra di loro segretamente, e mi guardano, e non vogliono ch’io senta.
Lucrezia. Vedete? Consigliano insieme, e vi rovinano. Basta, io non voglio altro impazzire. Oggi si ha da decidere: o sposa di Florindo, o in un ritiro per tutto il tempo della vita vostra. (parte)
Laurina. Io in un ritiro? Piuttosto sposar Florindo. Sì, sposarlo piuttosto, se fosse anche come me lo ha dipinto mia madre. Dica ella ciò che sa dire: avanti sera io mi sposerò con Florindo. Ma può essere ch’ella ne trovi un altro... Eh, non è così facile. Mi lusingherà: passerà il tempo. Florindo si stancherà, e mia zia mi vuol chiudere fra quattro mura. Ho da risolvere. Sì, venga il signor Florindo, ed io gli do immediatamente la mano. (parte)
SCENA III.
Altra camera.
Donna Aurelia ed il Conte Ottavio.
Ottavio. Sì, donna Aurelia, ho motivo di consolarmi.
Aurelia. Direte più che mia figlia è di cattivo temperamento?
Ottavio. No certamente. La lodo anzi, e l’ammiro. Merita bene la di lei rassegnazione, che voi cerchiate di soddisfarla.
Aurelia. Lo farò, se la sorte seconderà i miei disegni,
Ottavio. Poss’io sapere che cosa ella desideri?
Aurelia. A voi non nascondo cosa alcuna della mia famiglia. Ella vuole un marito.
Ottavio. L’averà: non è in istato di disperarlo.
Aurelia. Per farle staccar dal cuore Florindo, sarebbe necessario che avessi in pronto uno sposo da sostituire a quell’altro.
Ottavio. Avete forse patteggiato con lei sul ravvedimento di questo suo sconsigliato amore?
Aurelia. No, Conte. Mia figlia sa il suo dovere. Ella ha rinunziato all’amor di Florindo per compiacere sua madre.
Ottavio. Sia ringraziato il cielo, mi consolate davvero.
Aurelia. Conte, lo troveremo noi uno sposo per Laurina?
Ottavio. Veramente vuole il decoro, che per parte d’una figlia nobile e ricca non si vada a mendicare i partiti.
Aurelia. Mia figlia è sfortunata; e quantunque il padre le abbia lasciata una ricca dote, sino che vive la di lei zia, non può sperare di averla senza una lite.
Ottavio. Donna Laurina è giovine. Verrà il suo tempo; non abbia fretta.
Aurelia. Ma intanto...
Ottavio. Intanto, donna Aurelia, pensate meglio a voi stessa.
Aurelia. E come?
Ottavio. Prima che passino gli anni ancora verdi dell’età vostra, accompagnatevi ad uno sposo che vi ama.
Aurelia. Conte, mi amate voi veramente?
Ottavio. Sì, vi amo colla tenerezza maggiore. Son anni che vivo adoratore del vostro merito, ma la stima che ho di voi fatta, non ha mai oltraggiata quella perfetta amicizia, che mi legava allo sposo vostro. Ho ricusati vari partiti di accasamento, non ritrovando oggetto che, quanto voi, mi piacesse: ed ora che siete libera, che posso amarvi senza rimorsi al cuore, vi svelo la fiamma, e vi domando pietà.
Aurelia. Un cavaliere che per tanti anni mi ha conservato amore senza mercede, sarebbe ora disposto a continuare ad amarmi senza speranza?
Ottavio. Sarei lo stesso di prima, se lo stato vostro di vedovanza non mi lusingasse di conseguirvi.
Aurelia. E se io avessi costantemente proposto di non passare alle seconde nozze, mi abbandonereste voi colla vostra amicizia?
Ottavio. No certamente. Ma cercherei dissuadervi da un proposito strano, che mal conviene per tanti titoli alla vostra situazione presente.
Aurelia. Conte, ho fissato: non voglio più maritarmi.
Ottavio. Voi lo direte, perchè mi odiate.
Aurelia. No certamente. Vi stimo, e dirò ancora, vi amo. Se dovessi unirmi con altro sposo, giuro sull’onor mio, altri che il conte Ottavio non scieglierei. Ma torno a dirvi: ho fissato, non voglio più maritarmi.
Ottavio. Pazienza, lo sventurato son io.
Aurelia. Vi allontanerete per questo dalla mia casa?
Ottavio. Ci verrò, signora, se voi me ne darete la permissione.
Aurelia. Una lunga pratica potrebbe rendersi di osservazione.
Ottavio. Capisco. Voi mi licenziate per sempre.
Aurelia. Anzi vi desidero sempre meco. Non ho altri che voi, cui possa confidare il mio cuore. Se voi mi abbandonate, caro Conte, chi mi darà consiglio, chi mi conforterà nelle mie sventure?
Ottavio. Signora, il vostro ragionamento è sì vario, ch’io non arrivo a capirlo.
Aurelia. Se il vostro amore per me fosse cotanto forte, cotanto virtuoso, quanto voi lo vantate, ve lo farei capire ben tosto.
Ottavio. Se dubitate della fortezza dell’amor mio, ponetelo alla prova, e ne rileverete gli effetti.
Aurelia. Conte, badate bene come voi v’impegnate.
Ottavio. Son cavaliere, non son capace mancare alla mia parola.
Aurelia. Voglio che voi mi amiate, senza speranza di conseguirmi.
Ottavio. Sì, giuro di farlo.
Aurelia. Voglio che non vi allontaniate dalla mia casa, e senza dar motivo di mormorare.
Ottavio. Insegnatemi a farlo.
Aurelia. Sposatevi a Laurina mia figlia.
Ottavio. Signora, ci penserò.
Aurelia. No, voi avete a risolvere.
Ottavio. L’affare merita qualche riflesso.
Aurelia. Tutti i vostri riflessi io li ho prevenuti. Voi siete unico di casa vostra, siete nobile, siete ricco; siete in età da non differire l’accasamento per aver successione, e questa ve la potete promettere più dalla figlia, che dalla madre. Laurina brama uno sposo; ho promesso di darglielo io stessa, e quanto più presto la lego altrui, tanto più facilmente da Florindo la sciolgo, e voi siete l’unico mezzo che mi può dare la pace. Fatelo, se voi mi amate, fatelo per pietà di questa donna infelice che dite di aver amata, che or protestate di amare. Ma se mai questo medesimo amore vi consigliasse colla speranza di farmi vostra, giuro in faccia di voi, giuro a tutti i numi del cielo, di non istringere, fin che io viva, ad altro sposo la mano. Disperando di farmi vostra, avete cuore di abbandonarmi? Se il vostro amore è sincero, voi non potete farlo. Se della nostra amicizia si mormorasse con discapito del mio decoro, avreste animo di soffrirlo? Se il vostro amore è discreto, voi mi risponderete che no. Che altro mezzo vi resta adunque per dimostrarmi l’affetto vostro, e portar questo al grado eroico della virtù, che dar la mano a mia figlia? Fatelo, Conte, fatelo, se voi mi amate, e se per farlo vi resta qualche delicato riguardo di non confondere gli sguardi fra la madre e la figlia, sappiate che ho provveduto a tutto, che sono dama, che amo teneramente mia figlia: ma soprattutto amo ed apprezzo il decoro mio, il decoro vostro, e quello della vostra illustre famiglia.
Ottavio. Donna Amelia, il vostro ragionamento comprende infinite cose. Non siate tiranna meco, pretendendo che tutte in una volta le abbia a considerare. Datemi almeno poche ore di tempo.
Aurelia. Sì, la vostra domanda non può essere più discreta. Vi lascio in libertà di pensare; ma quando avrete pensato, venite alle mie stanze coll’ultima vostra determinazione, e se sia l’amor vostro di quella tempra che lo vantate, lo conoscerò dagli effetti. (parte)
SCENA IV.
Il Conte Ottavio, poi Brighella.
Ottavio. Ah Donna Amelia, voi mi ponete in un gran cimento. Dovrò sposar la figlia, perchè amo la madre? Ma se la madre ha giurato di non volermi. E bene, non potrò vivere senza di lei? Sì, ma se da me dipende la di lei pace, sono un ingrato, se non procuro di assicurargliela a costo della mia vita medesima. Finalmente donna Laurina è sua figlia, e godrò in lei una porzion di quel cuore... Eh, lusinghe vane, altro è il cuor della madre, altro è il cuor della figlia. Numi, consigliatemi voi.
Brighella. Signor Conte.
Ottavio. Che c’è?
Brighella. No la va a le nozze?
Ottavio. Che nozze?
Brighella. No la sa gnente?
Ottavio. Io non so di che parli.
Brighella. Donna Lugrezia e don Ermanno i fa cosse stupende per le nozze de so nevoda.
Ottavio. Di donna Laurina? Con chi?
Brighella. No la sa, che la sposa el sior Florindo?
Ottavio. No, Brighella, tutto è disciolto.
Brighella. La perdoni. I è là un’altra volta in camera siora donna Laurina, sior Florindo, el nodaro, i testimoni, e se fa el contratto.
Ottavio. Brighella, dici davvero?
Brighella. L’è cussì da galantomo.
Ottavio. Oh cielo! E donna Amelia che dice?
Brighella. No la se vede. Credo che nè anche la lo sappia.
Ottavio. Avvisiamola presto.
Brighella. Vorla che la trova? che ghe lo diga?
Ottavio. Sì, cercala tu, la cercherò ancor io. Ma no, fermati. (Se segue il matrimonio di donna Laurina, allora esco io dall’impegno). (da sè) Andiamo. (a Brighella)
Brighella. L’è meio; fora dei strepiti.
Ottavio. Ma la povera donna Aurelia? Averò cuore di abbandonarla? Posso impedire che sia tradita, e non lo farò? Son cavaliere, son uno che l’ama. Brighella, cercala, avvisala. Povera dama! Non si abbandoni, che non lo merita la sua bontà. (parte)
Brighella. Sto povero signor l’è cotto. Lo compatisso, e tanto lo compatisso, che faria de tutto per renderlo consolà. Gran cossa l’è sto amor! Chi nol prova, nol crede. Mi l’ho provà pur troppo, e lo so. Ho scomenzà da ragazzo, e co l’andar dei anni ho cambià el modo, ma non ho cambià la natura. Dai diese sina ai disdotto ho fatto l’amor co fa i colombini, zirando intorno alla colombina, ruzando pian pianin sotto ose, e dandoghe qualche volta una beccadina innocente. Dai disdotto sina ai vintiquattro ho fatto l’amor co fa i gatti, a forza de sgraffoni e de morsegotti. De vintiquattro me son maridà, e ho fatto come i cavai da posta. Una corsa de un’ora, e una repossada de un zorno. Adesso me tocca a far co fa i cani: una nasadina, e tirar de longo. (parte)
SCENA V.
Camera di donna Lucrezia.
Don Ermanno e Traccagnino.
Ermanno. Non voglio che dicano ch’io e donna Lucrezia siamo avari. Vuò dar fondo alla casa, e si sguazzi. Facciamo un poco d’illuminazione. Tu metterai queste due candele sulle lumiere, (a Traccagnino) e queste altre due sui candelieri.
Traccagnino. De cossa eli sti moccoli de candele, che i è cussì negri?
Ermanno. Sono di cera. Sono candele che hanno servito allo sposalizio del povero mio cognato.
Traccagnino. El li pol lassar in testamento fin a la quarta generazion. (va a metterli sulle lumiere) I oio da accender sti moccoli?
Ermanno. Signor no. È ancora presto. Si farà l’illuminazione
quando compariranno gli sposi, quando il contratto sarà sottoscritto.
Traccagnino. Lo sottoscriverali adesso el contratto?
Ermanno. Ora, in questo momento. Frattanto che il notaro scrive, voglio preparare qualche cosa per le nozze. Voglio fare quello che non ho più fatto.
Traccagnino. Bravo! Che el se fazza onor, sior patron.
Ermanno. Prendi questo mezzo paolo, e va a comprare dei confetti.
Traccagnino. Nol vol che i ghe fazza mal.
Ermanno. Eccoti un altro mezzo paolo. Va a prendere un fiaschetto di vino dolce.
Traccagnino. Oh, el vin l’è da persone ordinarie.
Ermanno. Che cosa ci vorrebbe?
Traccagnino. Della cioccolata.
Ermanno. Costa troppo.
Traccagnino. Qualche acqua fresca.
Ermanno. Oh sì. Prepara quattro o sei caraffe di acqua fresca del nostro pozzo. Il rinfresco sarà civile, e non farà male a nessuno.
Traccagnino. Acqua de pozzo? Questo l’è el rinfresco che usa anca i aseni, sior patron.
Ermanno. Vorrei spendere un altro mezzo paolo, e non so in che.
Traccagnino. Mi, sior, ve lo farò spender ben.
Ermanno. In che cosa?
Traccagnino. In t’un brazzo e mezzo de corda.
Ermanno. Da che fare?
Traccagnino. Da impiccar un avaro.
Ermanno. Chi è questo avaro? (con collera)
Traccagnino. Eh, gnente. Uno che conosso mi.
Ermanno. Zitto, che rumore è questo?
Traccagnino. In quella camera i cria.
Ermanno. Sento una voce...
Traccagnino. Questa l’è la patrona. No vôi strepiti. (parte)
Ermanno. Anderò io a vedere. (s’avvia verso la camera)
SCENA VI.
Donna Lucrezia, poi donna Laurina dalla camera di fondo.
Lucrezia. Venite meco, e lasciatela dire.
Laurina. Ah, signora zia, difendetemi.
Ermanno. Che cosa c’è?
Laurina. Mia madre grida, minaccia.
Ermanno. Nelle nostre camere non ci verrà.
Lucrezia. Non dovrebbe ardir di venirci; eppure ci sarebbe venuta, se non la tratteneva il signor Pantalone de’ Bisognosi.
SCENA VII.
Florindo dalla stessa camera, e detti.
Florindo. Giuro al cielo, non soffrirò tali insulti.
Ermanno. Che cosa è stato?
Florindo. Vostra cognata non ha prudenza.
Lucrezia. Eh, l’aggiusterò io.
Ermanno. L’aggiusteremo noi.
SCENA VIII.
Il Notaro dalla stessa camera, e detti.
Notaro. Signori, mi vogliono far fare la figura del babbuino?
Lucrezia. Con chi l’avete?
Notaro. Mi mandano a chiamare per la seconda volta, e nuovamente sono cacciato via.1
Lucrezia. Animo dunque, si termini di stipulare il contratto. Si costituisca la contraddote, e gli sposi si diano immediatamente la mano.
Florindo. Via, signora donna Laurina, porgetemi la destra.
Laurina. Eccola, signore.
SCENA IX.
Pantalone e detti.
Pantalone. Con grazia, se pol vegnir?
Ermanno. Che cosa volete voi a quest’ora?
Pantalone. Vegniva per dir una paroh a sior Florindo.
Florindo. Che volete da me, signore?
Pantalone. Ghe dirò: un certo mio debitor m’ha da dar mille ducati napolitani; non avendo bezzi, el me esebisse un pagherò fatto da ela; e mi, prima de accettar, voi sentir cossa che la dise.
Florindo. Ora non è tempo: discorreremo domani.
Lucrezia. Ha debiti il signor Florindo? (a Pantalone)
Ermanno. Se ha dei debiti, non fa per noi.
Pantalone. Sentì come che xe concepida sta obligazion. Pagherò io sottoscritto, a chi presenterà il presente viglietto, ducati mille napolitani, subito che avrò sposata la signora donna Laurina, e conseguita la di lei dote.
Lucrezia. Sposata donna Laurina?
Ermanno. E conseguita la di lei dote?
Florindo. Eh, ch’io non so nulla.
Pantalone. Questo xe so carattere. (a don Ermanno)
Ermanno. Sì, lo conosco. Altro che la contraddote!
Pantalone. Sentela, siora donna Lugrezia? El spera de remetterse co la contraddote de siora donna Laurina, e quando el l’averà sposada, el ghe moverà per averla una lite spaventosa.
Ermanno. Lite? Non vogliamo liti.
Lucrezia. Venite con me, Laurina.
Florindo. Signora mia, questa è una sopraffazione. Mille ducati di debito per me è un niente. Li pagherò avanti sera. I miei beni si sanno, la contraddote non può mancare.
Lucrezia. Benissimo, credo tutto: ma questa è la conclusione. Qui la sposa, e qui la contraddote. Quella a me, questa a voi; altrimenti, se la contraddote è fondata sull’aria, il matrimonio va a terra. Andate innanzi, Laurina.
Laurina. Sì, signora...
Lucrezia. Andate là, vi dico.
Laurina. (Ora è il tempo ch’io mi raccomandi a mia madre). (da sè)
Florindo. Partite senza mirarmi nemmeno? (a donna Laurina)
Laurina. Parto mortificata. (Mia madre mi consolerà), (da sè, e parte)
Florindo. Signora donna Lucrezia, non mi trattate così. Sappiate...
Lucrezia. Compatitemi, ne parleremo. (Senza la contraddote non si ha Laurina da maritare). (da sè, e parte)
Florindo. Così mi lascia? Signor don Ermanno, che dite voi?
Ermanno. Dico così, signore, che questa sera ne parleremo, (parte)
SCENA X.
Florindo e Pantalone.
Florindo. Mi piantano? mi deridono? Giuro al cielo, voi, signor Pantalone, mi renderete conto di tale insulto.
Pantalone. Xe mezz’ora che aspetto che la se volta a parlar con mi.
Florindo. Eccomi, che pretendereste di dire?
Pantalone. Che la se contenta de pagar sta polizza de mille ducati.
Florindo. La pagherò.
Pantalone. Quando?
Florindo. Quando mi parerà.
Pantalone. La la pagherà sala quando? Quando el giudice l’obbligherà.
Florindo. A me il giudice.
Pantalone. Se ghe piase.
Florindo. Caro signor Pantalone, sapete chi sono.
Pantalone. E ela sa chi son mi.
Florindo. Trattiamo da galantuomini, da buoni amici.
Pantalone. Son qua; volentiera, parlemo pur.
Florindo. Favorite di venir meco.
Pantalone. Vegno dove la vol.
Florindo. (Conviene ch’io l’accomodi ad ogni patto. Da questo può dipendere la mia pace e la mia fortuna). (parte)
SCENA XI.
Pantalone solo.
Anca sta volta son arrivà a tempo per sospender ste nozze. Se no giera mi, la povera donna Aurelia fava qualche sproposito. Vederemo dove che l’anderà a fenir. Florindo xe al basso, el farà dei sforzi, ma nol farà gnente. Mi son qua per la verità, per la giustizia, per la rason, e per ste cosse me farave anca taggiar a tocchi, se bisognasse.
Fine dell’Atto Secondo.
Note
- ↑ Non si dice se il notaro parta; ma più non comparisce in scena.