Atto I

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Personaggi Atto II

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ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Camera di donna Aurelia.

Donna Aurelia e Pantalone.

Pantalone. La supplico de benigno perdon, se vegno a darghe el presente incomodo. L’affar xe de premura; e el zelo della mia servitù me conduse a sta ora importuna a incomodar vussustrissima.

Aurelia. Caro signor Pantalone, in ogni tempo vi vedo assai volentieri. La vostra buona amicizia mi ha sempre giovato, e non sarà che profittevole per me l’incomodo che ora vi siete preso.

Pantalone. Vegno a scovrirghe un certo manizo, che ho penetrà za un’ora, acciò colla so prudenza la gh’abbia tempo de remediarghe. [p. 234 modifica]

Aurelia. Sempre disgrazie. M’aiuti il cielo.

Pantalone. La sappia che siora donna Lugrezia, so cugnada, ha dà parola a sior Florindo Aretusi de darghe per muggier siora donna Laurina.

Aurelia. Come! mia figlia in isposa a quel discolo, a quel villano?

Pantalone. Certo che la sarave precipitada per tutti i versi; ma siora donna Lugrezia, che xe restada erede de tutto, e che ha da dar la dota a sta putta, no la vardaria de precipitarla, per darghe manco che sia pussibile.

Aurelia. Povero mio marito! se fosse vivo!

Pantalone. Se el fusse vivo, no ghe saria sto pericolo. Lu el gh’aveva massime da cavalier; e se l’avesse podesto, prima de morir, far testamento, l’averia provisto el so sangue. No l’averave lassà la so unica fia alla descrizion de una sorella avara, che volendo tutto per ela, no gh’ha riguardo a sagrificar una creatura innocente all’idolo maledetto dell’interesse.

Aurelia. Ma non le riuscirà sì facilmente di farlo. Laurina è mia figlia, nè mi farà quest’insulto di collocarla senza l’assenso mio.

Pantalone. So cugnada saria capace de farlo, e la gh’ha un mario avaro più de ela, che la conseggia.

Aurelia. Lo sposo sa che ci sono. Non ardirà sottoscrivere senza di me.

Pantalone. Cossa vorla che sappia un omo ordenario che ha trova i bezzi fatti da so pare, e che per rason dei so bezzi nol stima nissun? Nol sa la creanza, e nol la vol imparar.

Aurelia. Quel ch’è peggio, è un discolo, un dissoluto, giocatore, insolente. Povera mia figliuola! Sin che avrò vita, non acconsentirò certamente alla sua rovina.

Pantalone. Per mi, signora, no ghe vedo altro remedio che quello de far che la putta tegna duro, e che la diga de no.

Aurelia. Spero ch’ella non si allontanerà dal consiglio mio. Sa quanto io l’amo; l’amo più di me stessa: e morirei di dolore, se la vedessi fra le braccia d’uno che non la merita.

Pantalone. Me par de sentir zente.

Aurelia. Favoritemi guardar chi è. [p. 235 modifica]

Pantalone. La servo. (va destramente a guardare alla porta)

Aurelia. Cognata indiscreta, tu non me la farai vedere.

Pantalone. Sala chi xe?

Aurelia. Chi mai, signore?

Pantalone. Una persona, che so che no ghe despiase.

Aurelia. Mia figlia forse?

Pantalone. Eh giusto! no ghe piase altri che so fia?

Aurelia. Io non vi capisco.

Pantalone. Xe sior conte Ottavio.

Aurelia. Signor Pantalone, voi siete qualche volta bizzarro.

Pantalone. Cara zentildonna, de mi no la gh’ha d’aver suggizion. Son vecchio, son servitor antigo de casa, son omo de sto mondo. Ho prova le passion in mi, e le so compatir in ti altri. Una vedua zovene e viva come ela, xe giusto che la se torna a mandar. Sior conte Ottavio xe un cavalier ricco, nobile, e d’una età giusto a proposito per una che ha fatto qualche campagna sotto le bandiere d’amor. Siora donna Aurelia, l’ascolta un omo sincero, un amigo de cuor. La pensa al ben de so fia, ma no la trascura el proprio interesse. La procura de collocar ben la so putta; ma la procura anca ela de andar via de sta casa de matti, perchè la pase e la quiete el xe el mazor tesoro del mondo; e la natura insegna amar i propri fioli, xe vero, ma prima de tutto la insegna amar nu medesimi, e procurar la nostra umana pussibile felicità. (parte)

SCENA II.

Donna Aurelia sola.

Chi non ha avuto figliuoli, non può paragonare l’amor di questi con altro amore. Quello delle madri principalmente è il più tenero, il più interessante, poichè aggiungendosi all’affezione del sangue la memoria degli stenti, dei pericoli, dell’educazione, si radica sempre più nel cuor materno l’affetto, e lo rende preferibile al proprio bene ed alla propria vita medesima. Amo il conte Ottavio, egli è vero, ma prima di determinarmi a queste seconde nozze... Eccolo ch’egli viene. [p. 236 modifica]

SCENA III.

Il Conte Ottavio e detta.

Ottavio. Madama, scusate s’io vengo ad importunarvi.

Aurelia. Mi fate onore qualunque volta vi compiacete di favorirmi.

Ottavio. Un affar di premura mi rese più sollecito a riverirvi. Sappiate che donna Lucrezia vostra cognata...

Aurelia. Vuol maritar mia figlia, non è egli vero?

Ottavio. Sì, con Florindo Aretusi. Pare a voi che un tal matrimonio onori la vostra casa?

Aurelia. Pria che ciò segua, mi farò intendere.

Ottavio. Avvertite che non sarete a tempo.

Aurelia. Come! non sarò a tempo? Chi è di là?

SCENA IV.

Traccagnino e detti.

Traccagnino. Signora.

Aurelia. Chiamatemi la mia figliuola.

Traccagnino. L’è in camera de so siora zia.

Aurelia. Che subito venga qui.

Traccagnino. Ghel dirò, signora. Ma ho paura che subito subito no la vegnirà.

Aurelia. Perchè dici tu che la non verrà?

Traccagnino. La fa una certa cossa... e no la vegnirà, se no la l’ha fenida.

Aurelia. Che cosa fa in camera di sua zia?

Traccagnino. Zitto, che vussoria no l’ha da saver.

Aurelia. Come! non l’ho da sapere? Che discorso è il tuo?

Ottavio. Signora mia, quanto volete giocare che vostra figlia sottoscrive il contratto? (a donna Aurelia)

Aurelia. Senza di me? Traccagnino, che fa Laurina?

Traccagnino. Par proprio che sior Conte el gh’abbia dell’astrologo.

Aurelia. Scrive mia figlia? scrive? [p. 237 modifica]

Traccagnino. Za un poco la gh’aveva la penna in man. No so cossa che adesso la fazza.

Aurelia. Presto, dille che venga qui.

Traccagnino. E se no la volesse vegnir?

Aurelia. Verrò io colà; e si pentirà ella di sua disobbedienza, e farò che si penta quell’incivile di mia cognata.

Traccagnino. Oh, siora padrona, quella l’è la causa de tutto.

Aurelia. Laurina non vorrà disgustar sua madre. Sa quanto io l’amo. Dille che venga qui, che non mi obblighi a qualche scena.

Traccagnino. Ghe lo dirò, ma...

Aurelia. Che ma? che ma?

Traccagnino. Cara siora padrona, levar el sposo de man a una putta, l’è l’istesso che levar una brisiola de bocca al gatto. (parte)

SCENA V.

Donna Aurelia e il Conte Ottavio.

Aurelia. Se non viene subito, anderò io, e mi sentiranno.

Ottavio. Non mi fa specie, signora, che vostra cognata cerchi di maritare la nipote ad uno che non ha bisogno di dote; ma resto bensì scandalizzato di vostra figlia, che con sì poco di prudenza consenta a farlo senza l’assenso vostro.

Aurelia. Povera figlia! sa il cielo che cosa le hanno dato ad intendere. Ella crederà certamente ch’io sia contenta.

Ottavio. Eh, perdonatemi. Vi volea poco ad assicurarsi del piacer vostro.

Aurelia. L’avranno colta su due piedi all’improvviso.

Ottavio. Voi la difendete, perchè l’amate. Io la credo molto più maliziosa.

Aurelia. No, Conte, non lo credete. Mia figlia è una fanciulla prudente.

Ottavio. Non tanto quanto voi vi pensate. Ella ama Florindo.

Aurelia. Non può essere. Se ciò fosse, lo avrebbe detto a sua madre, [p. 238 modifica]

Ottavio. Lo avrebbe detto, se fosse una figlia savia...

Aurelia. Orsù, non dite mal di mia figlia, se fate conto di me.

Ottavio. Spiacemi... Non posso tollerare...

Aurelia. Che cosa?

Ottavio. Che voi amiate un’ingrata.

Aurelia. Laurina ingrata? Non è vero.

Ottavio. Lo vedrete...

Aurelia. Conte, basta così. Laurina è l’anima mia.

Ottavio. Spiacemi vedere che voi gettate l’affetto vostro...

Aurelia. Basta così. Cessate d’inquietarmi, vi dico.

Ottavio. Taccio per obbedirvi.

Aurelia. Non viene ancora questa fanciulla?

Ottavio. Verrà quando avrà sottoscritto, questa obbediente figliuola.

Aurelia. Anderò io, per liberarmi dalla pena che voi mi date. (in atto di partire)

Ottavio. Signora, compatitemi. Parlo così, perchè vi amo.

Aurelia. Non ama la madre, chi non sa rispettare la figlia.

Ottavio. Perdonatemi...

Aurelia. Mutate stile, se non volete ch’io vi perda affatto la stima. Apprezzo la vostra amicizia; dirò anche di più: conosco ed amo i meriti vostri; ma chi parla mal di mia figlia, sarà sempre mio capitale nemico. (parte)

SCENA VI.

Il Conte Ottavio solo.

Povera donna Aurelia! Ella è trasformata troppo nella figliuola, e non conosce i di lei difetti, e non la crede un’ingrata. Possibile che questo amore di natura giunga cotanto ad acciecare le madri? No, la natura non è mendace, non è adulatrice di se medesima. Questo amore soverchio che hanno le madri per i parti loro, è prodotto da due diverse cagioni: dalla tenerezza del cuore e dall’assuefazion dell’amore. Le grazie che crescono di giorno in giorno nei teneri bambinelli, vanno radicando l’affetto nell’animo di chiunque si fa piacere nell’educarli; quindi [p. 239 modifica] avviene che l’uomo amerà più talora un figlio non suo, allevato sotto gli propri occhi, di quello faccia un vero parto delle sue viscere, o sconosciuto, o da sè lontano. Povera donna Aurelia! mi fa pietà. Per cagione di questa sua ingrata figlia, soffre gl’insulti di sua cognata e sacrifica i più bei giorni dell’età sua. Io l’amo sinceramente, e non la posso adulare. Eppure, chi vuole delle donne la grazia, conviene necessariamente adularle: poche essendo quelle che, conoscendo il pregiudizio delle loro passioni, cerchino il disinganno ed amino la verità. (parte)

SCENA VII.

Camera di donna Lucrezia.

Donna Laurina, donna Lucrezia, don Ermanno, Florindo,
Brighella, Traccagnino ed un Notaro.

Notaro. La scrittura è terminata. Comandano ch’io la legga?

Lucrezia. Sì, leggetela.

Notaro. Vi vorrebbero due testimoni.

Ermanno. Ecco qui due galantuomini. Traccagnino, nostro servitore, e Brighella, servitor dello sposo.

Notaro. Ma... perdonino; in un contratto di nozze fra persone di qualità, pare che non convenga servirsi di due servitori per testimoni.

Ermanno. Chi volete voi che si vada cercando? Si hanno a fare le cose fra di noi privatamente. Se si chiamano testimoni di merito, pretendono rinfreschi, caffè, cioccolata: tutte cose gettate via. Se si ha da spendere un mezzo ducato, è meglio lo abbia il notaro che ha fatta la sua fatica.

Notaro. Signore, pretenderebbe di darmi mezzo ducato per un contratto di nozze?

Lucrezia. Che cosa vorreste di più? Guadagnare in un’ora mezzo ducato, vi par poco?

Florindo. Via, via, signor Notaro, avrete da far con me.

Notaro. Benissimo; non dico altro. [p. 240 modifica]

Ermanno. Figliuolo, non gettate via il vostro denaro. Vostro padre lo ha guadagnato a sudori di sangue. (a Florindo)

Laurina. Signor zio, non perdiamo tempo. Mia madre mi ha mandato a chiamare. Or ora me l’aspetto qui.

Lucrezia. Nelle mie camere non ci verrà.

Ermanno. Signore, leggete.

Notaro. Ehi, venite qui. Servirete per testimoni. Voi, come avete nome? (a Brighella)

Brighella. Brighella Cavicchio, quondam Bertoldo.

Notaro. Di che paese?

Brighella. Bergamasco. (Notaro scrive)

Notaro. Voi, come vi chiamate? (a Traccagnino)

Traccagnino. Mi no so mai d’averme chiamà da mia posta.

Notaro. Siete un bell’ignorante.

Traccagnino. No digo per lodarme, ma l’è la verità.

Notaro. Signore, con costui non faremo niente. (a don Ermanno)

Ermanno. Via, dagli il tuo nome, il tuo cognome e la patria.

Traccagnino. El nome e el cognome m’inzegnerò de darghelo, ma la patria no ghe la posso dar.

Notaro. No? perchè?

Traccagnino. Perchè Bergamo l’è troppo lontan, e po no l’è roba mia.

Notaro. Oh che pazienza!

Ermanno. Vi vuol tanto a dirgli che ti chiami Traccagnino Battocchio?

Traccagnino. No ghe vol gnente.

Notaro. Via, via, basta così. Traccagnino Battocchio. Quondam? (scrive)

Traccagnino. Signor?

Notaro. Tuo padre è vivo, o morto?

Traccagnino. No lo so in verità.

Notaro. Non sai se tuo padre sia vivo o morto?

Traccagnino. No lo so da galantomo.

Notaro. Come ha nome tuo padre?

Traccagnino. Se digo che no so. [p. 241 modifica]

Notaro. Non sai nemmeno di chi tu sii figlio?

Traccagnino. No lo so da servitor.

Notaro. Di che età sei partito dal tuo paese?

Traccagnino. Sarà tre anni che manco.

Brighella. Eh via, caro paesan. To padre l’ho conossudo mi. No erelo missier Pasqual?

Traccagnino. Tutti credeva che fosse fiol de missier Pasqual; ma mia madre, che era la bocca della verità, qualche volta la diseva de no.

Ermanno. Via, via, signor notaro, scriva figlio di messer Pasquale.

Notaro. Ma, signor Ermanno, questo non è un testimonio a proposito.

Traccagnino. Caro sior nodaro, perchè no metti el vostro nome che gh’avì proprio fazza de testimonio?

Notaro. Costui è un impertinente; e giuro al cielo...

Laurina. Ecco mia madre. (con timore parte)

Lucrezia. Fermatevi, (a donna Laurina che parte) Che cosa vuole nelle mie camere?

SCENA VIII.

Donna Aurelia e detti.

Aurelia. Con licenza di lor signori. (i servitori si ritirano)

Lucrezia. Riverisco la signora cognata.

Aurelia. Che cosa si fa di bello, signori miei?

Ermanno. Noi non venghiamo a vedere quello che fate voi nelle vostre camere.

Aurelia. Non sarei venuta nelle vostre, se non vi fosse stata mia figlia.

Lucrezia. Vostra figlia è custodita bene dalla sorella del di lei padre.

Ermanno. E da me, che sono di sua zia il marito.

Aurelia. Benissimo, vi ringrazio entrambi dell’amore che avete per la mia figliuola. Ed il signor Florindo entra anch’egli nel numero de’ suoi custodi? [p. 242 modifica]

Florindo. Sì signora, e giustamente, s’ella deve esser mia consorte.

Aurelia. Io non c’entro per nulla.

Florindo. Perdonatemi. La signora donna Lucrezia mi ha detto...

Lucrezia. Sì signora, io gli ho detto che tocca a me a maritar mia nipote, stando nelle mie mani la di lei dote.

Aurelia. Va benissimo; nè io mi opporrei, se un tal matrimonio le convenisse.

Florindo. Come, signora? Pare a voi che le mie nozze la disonorino?

Aurelia. Signor Florindo, non credo di farvi un’ingiuria, se dico esservi dalla vostra casa alla nostra una troppo grande distanza.

Ermanno. Che distanza? Egli è ricco più che non siamo noi.

Aurelia. Laurina ha ventimila scudi di dote.

Lucrezia. V’ingannate, signora cognata, questa dote non vi può essere. Tutta l’eredità di mio fratello non ascende ad una tal somma.

Aurelia. Questa è la dote che suo padre destinata le aveva.

Lucrezia. Poteva promettere anche centomila, che sarebbe stato lo stesso. Mio fratello non sapeva quello che si facesse.

Aurelia. Eh, signori miei, queste favole non si raccontano a me. La dote di Laurina vi ha da essere, e so dov’è fondata. Ma voi... Sì, lo dirò, voi per una soverchia avarizia...

Florindo. Signora, vi supplico di acchetarvi. La cosa si può facilmente accomodare. Volete che la vostra figliuola abbia ventimila scudi di dote? Li averà. Signor notaro, scrivete. Io le faccio ventimila scudi di contraddote.

Aurelia. Non vi è bisogno, signore...

Lucrezia. Come non vi è bisogno? Scrivete, signor notaro. Il signor Florindo le fa ventimila scudi di contraddote.

Aurelia. Non v’è bisogno, vi dico. Ella è dotata dal padre; e quando non lo fosse, io colla mia propria dote potrei provvederla bastantemente.

Lucrezia. E voi provvedetela.

Ermanno. Via, provvedetela voi.

Aurelia. Lo farò, quando le si offrirà un partito che le convenga. [p. 243 modifica]

Florindo. Io dunque non sono degno di averla.

Aurelia. No, siete ancor troppo giovane.

Lucrezia. L’offerta ch’ei le fa di ventimila scudi di contraddote, è una proposizione da uomo di garbo, da uomo vecchio, che merita d’essere approvata e lodata da chi che sia.

Aurelia. Sapete che cosa meriterebbe approvazione e lode? Se il signor Florindo desistesse dal giuoco, dalle crapule, dalla sua prodigalità sregolata, e con i ventimila scudi ch’egli ardisce offerire ad una dama di qualità, farebbe meglio pagare i debiti e le mercedi agli operari. (Florindo smania)

Ermanno. Che debiti? Suo padre gli ha lasciato mezzo milione.

Aurelia. Gli avanzi de’ finanzieri arrivano poche volte alla terza generazione.

Florindo. Signora, non vi rispondo, perchè siete la madre della mia sposa. Sì, donna Laurina sarà mia sposa; donna Lucrezia e don Ermanno a me l’hanno promessa, e giuro al cielo, mi farò mantenere la parola. (parte)

Ermanno. Fermatevi...

Lucrezia. Sì, ve la manterremo.

Aurelia. Signora cognata, drovreste aver più prudenza.

Lucrezia. Voi dovreste avere un poco più di giudizio.

Aurelia. E voi, signor notaro...

Notaro. Io, illustrissima, sono stato chiamato. Fo il mio mestiere.

Aurelia. Io son sua madre, e vi dico che un tal contratto non si ha da fare senza di me.

Notaro. Per me, si aggiustino fra loro. Il contratto è lesto, se occorre; basta che mi avvisino, ch’io verrò a stipularlo. (parte)

SCENA IX.

Donna Aurelia, donna Lucrezia e don Ermanno.

Aurelia. Possibile, signora cognata, che non abbiate a cuore il decoro della nostra famiglia?

Lucrezia. Voi fondate il decoro nella vanità, ed io lo fondo nella sostanza, nei comodi e nel denaro. [p. 244 modifica]

Aurelia. Sì, veramente la casa si mantiene con un grande splendore.

Ermanno. Voi altre donne siete incontentabili. Vi par poco, eh, spendere in una casa mezzo filippo il giorno?

Aurelia. In cinque persone veramente è troppo.

Ermanno. L’entrate non rendono tanto, ci rimettiamo ogni anno del nostro.

Aurelia. Dite che ogni anno avanzate delle migliaia di scudi.

Lucrezia. Non è vero, non sapete che cosa vi dite.

Aurelia. Portatemi rispetto, signora.

Lucrezia. Fareste meglio andarvene da questa casa.

Aurelia. Vi anderò; ma verrà meco mia figlia.

Lucrezia. Vostra figlia è in casa sua, e non vi deve uscire che collocata.

Aurelia. Povera Laurina! voi la volete tradire.

Lucrezia. Come tradirla? Laurina è sangue mio, perchè è sangue di mio fratello. L’amo come una mia figliuola, e la marito con uno che la farà star bene, che la farà viver bene.

Aurelia. Con Florindo voi non la mariterete assolutamente.

Lucrezia. Sì, la mariterò a vostro dispetto.

Aurelia. Mi farò intendere, mi farò far giustizia.

Lucrezia. Se non si sposerà col signor Florindo, la caccerò in un ritiro.

Aurelia. Siete una barbara.

Lucrezia. Siete una pazza.

Aurelia. Portatemi rispetto, vi dico: sono una dama.

Lucrezia. Ed io sono la padrona di questa casa.

Ermanno. Sì signora, donna Lucrezia ed io siamo quei che comandano.

Aurelia. Povero mio consorte! Non aveva egli le massime che avete voi.

Lucrezia. Se non vi sappiamo dare nel genio, prendete la vostra dote, e andate a stare con chi volete.

Aurelia. Se non ci fosse mia figliuola, non ci sarei stata un’ora.

Lucrezia. La vostra figliuola vi ha veramente una grande obbligazione. Voi l’avete rovinata. [p. 245 modifica]

Aurelia. Io? come?

Lucrezia. Non le avete insegnato altro che a farsi i ricci, ed a vestirsi con attillatura.

Aurelia. Ad una dama non conviene andare come una serva.

Lucrezia. Che dama? Le dame che non hanno denari, diventano presto pedine.

Aurelia. In casa degli avari sempre si piange.

Lucrezia. Signora cognata, voi mi farete perdere la pazienza.

Aurelia. Siete gente incivile.

Lucrezia. Siete superba, vana, insoffribile.

Aurelia. Se avessi in Napoli i miei parenti, non parlereste così.

Ermanno. I vostri parenti non ci farebbero punto paura.

Aurelia. Rendetemi conto dei frutti della dote di mia figliuola.

Lucrezia. Ho tanto di testa. Non mi stordite di più.

Aurelia. E se non lo farete di buona voglia...

Lucrezia. Andate via, signora cognata.

Aurelia. Troverò chi ve lo farà fare per forza.

Ermanno. La cosa va un poco lunga.

Aurelia. Rispondetemi a tuono.

Lucrezia. Vi risponderò un’altra volta. (parte)

Ermanno. Sì signora, un’altra volta. (parte)

SCENA X.

Donna Aurelia sola.

Questa campana non la vogliono sentire. Gente sordida, avara: so io quel che farò. Povera la mia figliuola! vorrebbero assassinarla, ma finchè io viva, non riuscirà loro certamente di farlo. Ma ella, che sempre è stata obbediente alla madre, come ora poteva indursi ad un tal passo senza da me dipendere? Nol credo ch’ella vi consentisse. L’averanno tentata i zii scaltri, avari, ingannatori; ma non sarebbe stato possibile che Laurina avesse fatto un sì gran torto a sua madre che l’ama: ad una madre amorosa, che darebbe per lei quel sangue da cui è stata con tanta pena e con tanto amore nutrita. (parte) [p. 246 modifica]

SCENA XI.

Antisala.

Florindo e donna Laurina.

Florindo. Cara Laurina mia, a decidere tocca a voi.

Laurina. Se stesse a me, vi darei la mano immediatamente.

Florindo. Potete darmela, se volete.

Laurina. Il mondo poi che direbbe?

Florindo. Direbbe il mondo che avete obbedito un comando di vostra zia.

Laurina. Questa ragione non mi dispiace.

Florindo. Animo dunque...

Laurina. Oh diamine! mia madre è qui?

Florindo. Tornerà ad insultarmi... Cara Laurina, costanza, fedeltà, coraggio. Torno alle camere di vostra zia. (parte)

SCENA XII.

Donna Aurelia e Laurina.

Aurelia. Temerario! cotanto ardisce? E voi, che facevate qui con Florindo?

Laurina. Niente, signora.

Aurelia. Così obbedite ai comandi di vostra madre?

Laurina. È passato per accidente.

Aurelia. E nelle camere di vostra zia per qual ragione vi siete andata?

Laurina. Perchè mi ha mandata a chiamare.

Aurelia. Che cosa voleva da voi?

Laurina. Non so niente, signora.

Aurelia. Parlate, dico: che cosa volevano?

Laurina. Non l’avete sentito da voi medesima?

Aurelia. Sfacciatella! Sì, ho inteso. E senza di me si va a trattare di matrimonio?

Laurina. Finalmente... è mia zia. [p. 247 modifica]

Aurelia. Sì, una zia che cerca di rovinarvi.

Laurina. Volendo darmi marito, mi pare ch’ella non mi rovini.

Aurelia. Non sapete che nei matrimoni si richiede l’egualità?

Laurina. Circa all’età, non vi è gran differenza.

Aurelia. Fate la sciocca, eh? Non è quella degli anni l’egualità che richiedesi nel matrimonio; ma quella della nascita, del carattere, del costume.

Laurina. Cara signora madre, conosco tante ragazze che, per voler troppo, sono invecchiate così.

Aurelia. E per questo, che cosa vorreste dire?

Laurina. Gli anni passano anche per me, e se perdo questa occasione...

Aurelia. No, cara, siete ancor giovinetta: vi è tempo, e poi questa non è occasione opportuna per voi.

Laurina. Ma nessuno me ne propone un’altra.

Aurelia. Vi sareste maritata a quest’ora, se vostra zia non temesse sborsare la dote.

Laurina. Ma se trovasi uno che mi sposa senza la dote, perchè non si ha d’accettare?

Aurelia. Perchè non è vostro pari.

Laurina. A me poco importa, signora madre.

Aurelia. Se non importa a voi, importa a me.

Laurina. Ah! se mi volete bene...

Aurelia. Oh Dio! ti amo anche troppo. Se non ti amassi tanto, non sacrificherei la mia quiete per te.

Laurina. Cara signora madre, se voi mi amate, concedetemi il signor Florindo.

Aurelia. No, questo non sarà mai.

Laurina. No? Pazienza. (vuol partire)

Aurelia. Dove andate?

Laurina. Vado via, signora.

Aurelia. Avvertite: senza mio ordine non andate più nelle camere di vostra zia.

Laurina. Eh sì, in verità facevo conto di andarvi adesso.

Aurelia. A far che, signora? [p. 248 modifica]

Laurina. Così... a ritrovarla.

Aurelia. Presto, andate nella vostra camera.

Laurina. Morirò; sarete contenta.

Aurelia. Oh Dio! A me questo? A me, che sai che ti amo quanto l’anima mia?

Laurina. No, che non mi amate. Se mi amaste, non neghereste di consolarmi.

Aurelia. Ma Florindo, cara, non è per te.

Laurina. L’amo; non posso vivere senza di lui, e lo voglio.

Aurelia. Lo voglio? A tua madre hai coraggio di dire lo voglio?

Laurina. Sì, ammazzatemi, trucidatemi, vi torno a dire lo voglio. (parte)

Aurelia. Come? Così parla a sua madre? Oh Dio! Questo ho da soffrir da colei che amo tanto? Da quella ch’è l’unico mio bene? l’unica mia consolazione? Misera Aurelia! infelice amor mio. (resta piangendo)

SCENA XIII.

Il Conte Ottavio e detta.

Ottavio. Donna Aurelia, che avete voi che piangete?

Aurelia. Nulla, Conte. Lasciatemi in pace.

Ottavio. Che sì che indovino la causa del vostro cordoglio?

Aurelia. Non mi tormentate, vi prego.

Ottavio. Eh signora, lodo l’amor delle madri verso i loro figliuoli; ma quando son questi ingrati...

Aurelia. Signore, di che parlate?

Ottavio. Ho inteso vostra figlia partir di qui borbottando, e replicare dieci volte da se medesima: sì, lo voglio.

Aurelia. (Oh me infelice!) (sospirando piano)

Ottavio. E voi soffrirete, che a vostro dispetto e su gli occhi vostri si facciano tali nozze?

Aurelia. No, Conte, non si faranno.

Ottavio. Chi ve ne accerta?

Aurelia. Mia figlia non vorrà darmi un così gran dispiacere. [p. 249 modifica]

Ottavio. Ella? se come una pazza va ripetendo lo voglio.

Aurelia. Non doveva parlare di questo.

Ottavio. Basta, non vo’, coll’insistere maggiormente, inquietarvi. Donna Aurelia, son qui per darvi un testimonio della mia stima, e permettetemi ch’io dica del sincero amor mio.

Aurelia. (Laurina dove sarà?) (da sè)

Ottavio. Mi permettete ch’io parli?

Aurelia. Sì, parlate.

Ottavio. Più volte vi ho fatto comprendere, donna Aurelia, il desiderio mio di acquistare il tesoro del vostro cuore, unito a quello della vostra mano. Ora parmi che un accasamento per voi potesse piucchè mai riuscire opportuno. Siete attorniata da una cognata indiscreta, da una figlia (soffrite ch’io lo ripeta) all’amor vostro ingrata. Fate quanto potete per impedire ch’ella sia di Florindo; ma quando tutto si unisse a distruggere le vostre massime e la vostra savia condotta, pensate a voi stessa. Io vi offerisco una casa, uno sposo. Il matrimonio di vostra figlia non recherà a voi disonore, se voi avrete, benchè invano, procurato impedirlo; ed io sorpasserò egualmente un simile accasamento, come se donna Laurina non fosse nata del vostro sangue.

Aurelia. Ah Conte, a voi sarebbe facile scordarvi che Laurina fosse mio sangue; ma io, che nelle viscere mie l’ho nutrita, non posso lusingarmi di farlo. Non cesserò mai di operare per la salvezza del suo decoro; e quando tutto riuscisse vano, potrei morire, ma non abbandonare mia figlia. Per ora non mi parlate di nozze, non mi parlate di amori, che d’altro affetto non son capace per ora, che di quello di madre.

Ottavio. Povera dama! mentre voi con simili tenerezze languite per la figliuola, ella pensa a tradirvi.

Aurelia. Non lo farà, Conte: Laurina non lo farà.

Ottavio. Dove pensate ch’ella sia incamminata?

Aurelia. Le ho comandato andare nella sua camera.

Ottavio. Ed io l’ho veduta verso la camera di sua zia.

Aurelia. Possibile? Ah ingrata... Ma non lo credo. [p. 250 modifica]

SCENA XIV.

Pantalone e detti.

Aurelia. Signor Pantalone, avete voi veduta mia figlia?

Pantalone. Siora sì.

Aurelia. Dove?

Pantalone. Verso le camere de siora donna Lugrezia.

Aurelia. Oh cielo!

Ottavio. Non ve l’ho detto?

Aurelia. Ah ingrata!

Ottavio. Sì, è un’ingrata, ed io conoscendola...

Aurelia. Basta, Conte; io posso dirlo, voi non dovete dirlo. Gli insulti delle madri non offendono le figliuole. Gl’insulti d’un cavaliere non si convengono ad una dama. A me tocca il correggerla, a voi il rispettarla. (parte)

Ottavio. Anche la virtù deve avere i suoi limiti. L’amore di donna Aurelia eccede troppo i confini della giustizia.

Pantalone. Ah, caro sior Conte, l’amor de madre xe un gran amor.

Ottavio. Sì, è vero. Ma... non voglio perderla di vista. Ella ha bisogno di chi le presti soccorso. (parte)

Pantalone. Sto sior Conte ghe preme molto donna Aurelia. El gh’ha una gran carità per ela. Ma za la xe carità pelosa. El mondo xe tutto cussì, tutto interesse. Ghe despiase che donna Aurelia ama tanto so fia, perchè el so amor el lo vorave tutto per elo. Olà, cossa vedio? Siora donna Laurina co sior Florindo? Zogheli alle scondariole? So madre va per cercarla da una banda, e ela scampa da un’altra. Voi retirarme un pochetto, e veder un poco, e sentir, se se pol, che intenzion che i gh’ha. Povera donna Aurelia, la me fa pecca? (si ritira) [p. 251 modifica]

SCENA XV.

Donna Laurina e Florindo.

Laurina. Signor Florindo, ho tanta volontà di parlarvi.

Florindo. Ma qui in queste stanze possiamo esser sorpresi da vostra madre.

Laurina. L’ho veduta passare dall’altra parte col conte Ottavio.

Florindo. Sì, questa vostra signora madre, cotanto austera con voi, fa all’amore peggio d’una ragazza.

Laurina. E poi vuol impedire ch’io non lo faccia. Non vuole ch’io mi mariti.

Florindo. Non vorrà che voi vi maritiate, perchè averà ella intenzione di farlo.

Laurina. Lo faccia, e lo lasci fare. Io non impedisco ch’ella si soddisfi, ne ella impedisca che possa io soddisfarmi.

Florindo. Donna Laurina, se voi non fate una risoluzione, vostra madre per puntiglio non vorrà certamente che siate mia.

Laurina. Ma qual risoluzione poss’io prendere?

Florindo. Un’altra volta io ve l’ho suggerita. Datemi la mano di sposa, e dopo il fatto la sua collera non ci potrà fare paura.

Laurina. Darvi la mano... Se ci fosse almeno mia zia.

Florindo. Ecco il signor Pantalone. Alla presenza di quest’uomo vecchio e civile, ci porgeremo scambievolmente la destra.

Laurina. Questi è un amico di mia madre; non ne vorrà probabilmente sapere.

SCENA XVI.

Pantalone e detti.

Pantalone. Bravi; pulito!

Florindo. Signor Pantalone, favorisca di grazia.

Pantalone. Son qua; cossa comandela?

Florindo. Vossignoria, ch’è uomo ben nato, civile e discreto, spero non averà difficoltà di farci un piacere.

Pantalone. Le comandi: son qua per servirle dove che posso.

Laurina. Ma per amor del cielo, non mi tradite. [p. 252 modifica]

Pantalone. Me maraveggio. Non son capace, patrona.

Florindo. So che siete un vero galantuomo, tutto mi comprometto da voi.

Pantalone. Via, cossa me comandela? Se la sarà una cossa onesta, le se assicura che la farò volentiera.

Laurina. Oh, in quanto a questo, è onestissima.

Florindo. È una bagattella, signor Pantalone.

Pantalone. Via, cossa xela?

Florindo. Noi ci vorressimo in questo momento sposare, e vi preghiamo favorirci per testimonio.

Pantalone. Una bagattella!

Laurina. Mia zia lo acconsente.

Pantalone. Ma ghe par che tra persone civil se fazza i matrimoni in sta maniera?

Florindo. Siamo sforzati a farlo per le persecuzioni di donna Aurelia.

Pantalone. Siora donna Aurelia xe una donna prudente.

Laurina. Non ve l’ho detto io ch’egli tiene da mia madre? (a Florindo)

Florindo. Basta, scusate se vi ho dato il presente disturbo. (a Pantalone)

Pantalone. Queste no le xe cosse da domandar a un galantomo della mia sorte.

Florindo. Via, signore, è finita. Vossignoria si servi. Vada dove vuole, che non intendo volerlo più trattenere.

Pantalone. (Me despiase mo adesso lassarli soli). (da se)

Laurina. Se ha qualche affare, signor Pantalone, si accomodi, vada pure.

Pantalone. Eh, no gh’ho gnente da far. Stago volentiera un pochetto in conversazion.

Laurina. (Vecchiaccio). (da sè)

Florindo. Bene, e voi restate. Signora donna Laurina, siete disposta a quanto vi ho suggerito?

Laurina. Dispostissima, signor Florindo.

Florindo. Animo dunque, porgetemi la mano.

Pantalone. Cossa fale? [p. 253 modifica]

Florindo. Noi ci sposiamo in presenza vostra.

Pantalone. Me maraveggio. Mi no ghe ne voggio saver.

Florindo. Dunque andatevene.

Pantalone. Sì, sì, anderò... (Ma no gh’ho cuor de lassarli precipitar), (da sè) La senta, no se poderave più tosto...

Florindo. Voi m’inquietate, signor Pantalone.

Pantalone. Siora donna Laurina, la ghe pensa ben.

Laurina. Voi non siete mio padre.

Florindo. Non mi obbligate a perdervi finalmente il rispetto.

Pantalone. Cossa voravelo far?

Laurina. Ecco mia zia.

Florindo. Ci sposeremo in presenza sua.

Pantalone. Bon pro ghe fazza.

Laurina. Mia zia mi ama molto più di mia madre.

Pantalone. Sì, la se ne accorzerà ela.

SCENA XVII.

Donna Lucrezia e detti.

Pantalone. Siora donna Lugrezia, la favorissa.

Lucrezia. Che cosa volete, signore?

Pantalone. Ghe cedo el posto. (in atto di partire)

Lucrezia. Dove andate? (a Pantalone)

Pantalone. A muarme de camisa, per la fadiga che ho fatto. (parte)

Lucrezia. E voi altri che fate qui?

Laurina. Mia madre non vuole assolutamente ch’io sposi il signor Florindo.

Lucrezia. Vostra madre ha poco giudizio.

Florindo. Voi per altro, signora, me l’avete promessa.

Lucrezia. E verissimo, e son donna da mantener la parola.

Laurina. Conosco, signora zia, che voi mi amate davvero.

Lucrezia. Sì, vi amo con tutto il cuore; ma vostra madre mi vuol far perder la sofferenza.

Florindo. E per questo è bene che si sollecitino le nostre nozze.

Lucrezia. Si sollecitino pure.

Florindo. Son pronto a darle la mano. [p. 254 modifica]

Lucrezia. Adagio un poco. Vi è una difficoltà.

Florindo. Che difficoltà ci trovate, signora?

Lucrezia. I ventimila scudi di contraddote.

Florindo. Li ho promessi e li darò.

Lucrezia. Ci vuole il notaro.

Florindo. A me non credete?

Lucrezia. Vi credo; ma le cose s’hanno da fare come van fatte.

Laurina. Eh via, signora zia, a me non importa...

Lucrezia. Se non importa a voi, importa a me.

Florindo. Ora, come abbiamo a fare a trovare il notaro?

Lucrezia. Cercatelo immediatamente. Riconducetelo qui, e terminiamo una volta questa faccenda.

Florindo. E se non lo trovassi?

Lucrezia. Non ci sarebbe altro rimedio, per far più presto, che portar qui il denaro.

Florindo. Ma questo poi.

Lucrezia. Non vi è altro. Ve la dico in rima: o trovatemi il notaro, o contatele il denaro.

Florindo. Dunque me n’andrò.

Lucrezia. Sì, e fate presto a tornare.

Florindo. Pazienza.

Laurina. Chi sa se saremo più in tempo.

Florindo. Signora donna Lucrezia, se per causa vostra mi convenisse perdere la mia Laurina, giuro al cielo, farei qualche grande risoluzione. (parte)

Laurina. Se perdo Florindo, signora zia, mi vedrete dare nelle disperazioni. (parte)

Lucrezia. Bellissima! Di questo loro amore, di queste loro nozze, voglio profittare ancor io. Voglio, se posso, risparmiar la dote della nipote. Io sono l’erede di mio fratello, e se non iscorporo questa dote, tanto è maggiore la mia eredità. Così potrò vivere con più comodi, e se morisse mio marito ch’è vecchio, potrei sperare di rimaritarmi con qualche personaggio di qualità.

Fine dell’Atto Primo.



Note