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LA MADRE AMOROSA 269


SCENA IX.

Pantalone e detti.

Pantalone. Con grazia, se pol vegnir?

Ermanno. Che cosa volete voi a quest’ora?

Pantalone. Vegniva per dir una paroh a sior Florindo.

Florindo. Che volete da me, signore?

Pantalone. Ghe dirò: un certo mio debitor m’ha da dar mille ducati napolitani; non avendo bezzi, el me esebisse un pagherò fatto da ela; e mi, prima de accettar, voi sentir cossa che la dise.

Florindo. Ora non è tempo: discorreremo domani.

Lucrezia. Ha debiti il signor Florindo? (a Pantalone)

Ermanno. Se ha dei debiti, non fa per noi.

Pantalone. Sentì come che xe concepida sta obligazion. Pagherò io sottoscritto, a chi presenterà il presente viglietto, ducati mille napolitani, subito che avrò sposata la signora donna Laurina, e conseguita la di lei dote.

Lucrezia. Sposata donna Laurina?

Ermanno. E conseguita la di lei dote?

Florindo. Eh, ch’io non so nulla.

Pantalone. Questo xe so carattere. (a don Ermanno)

Ermanno. Sì, lo conosco. Altro che la contraddote!

Pantalone. Sentela, siora donna Lugrezia? El spera de remetterse co la contraddote de siora donna Laurina, e quando el l’averà sposada, el ghe moverà per averla una lite spaventosa.

Ermanno. Lite? Non vogliamo liti.

Lucrezia. Venite con me, Laurina.

Florindo. Signora mia, questa è una sopraffazione. Mille ducati di debito per me è un niente. Li pagherò avanti sera. I miei beni si sanno, la contraddote non può mancare.

Lucrezia. Benissimo, credo tutto: ma questa è la conclusione. Qui la sposa, e qui la contraddote. Quella a me, questa a voi; altrimenti, se la contraddote è fondata sull’aria, il matrimonio va a terra. Andate innanzi, Laurina.