La lirica nei canti popolari romani

Francesco Sabatini (filologo)

Francesco Sabatini (filologo) Indice:Francesco Sabatini - Il volgo di Roma - 1890.pdf La lirica nei canti popolati romani Intestazione 10 settembre 2024 75% Da definire

Questo testo fa parte della raccolta Il volgo di Roma


[p. 35 modifica]

LA LIRICA

NEI CANTI POPOLARI ROMANI.


IN molte di quelle opere, piene di erudizione e di curiose notizie, in cui dotti stranieri fanno cenno dei canti del popolo di Roma, viene con facile entusiasmo levata a cielo la nostra lirica popolare, e si confondono perfino canti prettamente toscani con quelli della nostra plebe. Se sia giusto il riconoscere nel volgo romano una sua lirica, propria e caratteristica, lo vedremo in seguito, ora osserviamo solo che alle parole degli stranieri (perdonabili in parte) fanno pur eco le conclusioni dei folkloristi italiani, anzi della stessa Roma. Infatti Luigi Zanazzo nella sua raccoltina di ritornelli romaneschi, ch’egli ostinatamente (non so con quanta ragione) chiama aritornelli, somiglia questi fiorellini della poesia popolare a «volo di fringuelli da un ombroso recinto, nel sole», a «fuggevoli raggi di luce sul placido letto di un lago», [p. 36 modifica] a «gocce di brina che splendono un attimo al sole, e cadono lucendo dai rami»1.

Eppure lo stesso Zanazzo, otto anni or sono, nella prefazione ad un suo libriccino di poesie romanesche,2 parlando dell’immenso amore che egli nutriva per la plebe romana, scriveva: «E questo amore non mi fa velo; sicchè io m’illuda ed esalti il valore del nostro volgo; anzi mi spinge a presentarlo in tutta la sua verità. Esso, certo, manca d’immaginativa, per il che non può renderci una poesia popolare ispirata e simigliante a quella che ci offrono le provincie meridionali».

Veramente il nostro poeta romanesco diede in questa umile prosa un miglior giudizio della poesia popolare romana, che non abbia fatto nella vaporosa e poetica prolusione de’ suoi ritornelli; nella quale più oltre aggiunge queste parole, ch’io qui riferisco, e che confermano il suo convincimento intorno alla lirica romanesca. «Il nostro linguaggio amoroso - egli dice3 - non è cavalleresco e cortese come il toscano, dove si parla di dame, di servente amoroso e di serventese. Ma in compenso è lucido ed espressivo, e risponde al caldo impeto del nostro sangue. Sono infatti pieni di profondo sentimento questi stornelli:

[p. 37 modifica]
Ciavete l'occhio ner’ e ’r petto bbianco,
De cqua de llà du làmpene d'argento:
Chi vve vo’ bben’ a vvoi diventa santo.
4

A la viola,

Quanno ve vedo da lontano, o ccara,
Abbasso l’occhi, e pperdo la parola
.5

Angelo d’oro,

Tu ccanti li stornelli, e io l’imparo,
Tu spasimi pe’ mme, io pe’ tte mmoro
.6

«I critici - prosegue il Zanazzo vi potranno trovare qualche asprezza, qualche sillaba di meno: [p. 38 modifica]ma che importa tutto ciò? Il vero è che la parola calda e vibrata sgorga dal cuore per naturale impulso: che l’immagin poetica è schietta e determinata nella sua semplicità, e che l’ultimo verso assai sovente balza dall’animo con lirico entusiasmo».

Anch’io credetti un tempo, che nella poesia del popolo di Roma fosse nascosta una potenza lirica, se non superiore, da uguagliare almeno il lirismo dei canti siculi e toscani;7 ma la continua analisi mi condusse a convincermi del contrario e a constatare che il popolo di Roma poesia propria non ha, e che tutto quel tesoro di lirica che possiede lo ha tolto dai canti dell’Italia centrale e delle provincie meridionali, per i contatti continui cogli abitatori di quelle contrade. Così ho fatto un opposto viaggio; e mentre il Zanazzo dal mondo vero saliva alla idealità,8 io dalla illusione discendevo al positivo e al reale.

Ma perchè il mio non sembri un asserto gratuito, esporrò qui una prova non dubbia di quanto affermo, analizzando un gruppo di canti [p. 39 modifica]romaneschi, scelti in parte dalla raccoltina del Zanazzo, in parte dal mio Saggio pubblicato nel 1877, e in parte dalla mia collezione inedita.9

CANTI.


1.

Bella, che ccinquecento ve chiamate,
Che ccinquecento innammorati avete.
De cinquecento gnisuno n’amate.

Questo ritornello, come la lezione umbra e marchigiana,10 discende da un’ottava siciliana, della quale si trova una lezione in Terra d’Otranto,11 che incomincia:

Na donna cinquecentu sse chiamava,
Ca cinquecentu innamurati avia....

Un rispetto toscano, con diverso movimento d’idea, incomincia:

Bella, che censessanta ne chiamate,
E cent’ottanta innamorati avete.12

2.

Alzando l’occhi al ciel vidi una tazza
E ddrento c’era l’indorata treccia:
Era la treccia de la mi’ regazza.

[p. 40 modifica]Il canto è di origine prettamente toscana;13 e qui, una volta per sempre, osserviamo come il romanesco spesso cangia o sopprime le voci che non intende; ma lascia la forma originale di quelle che gli sembrano più corrette, come, al caso nostro, nelle voci alzando e vidi. Il popolano di Roma ci tiene a parer civile, e sovente parlando coi paini dice calta (carta) e vagliolo (vajuolo), credendo che la r e la j sian sempre un difetto nel suo linguaggio.

3.

Arzanno l’occhi ar cielo veddi a vvoi
Subbitamente me n’innammorai:
Quanto me piace l’essere de voi!

Z

Questo canto deriva da un’ottava delle provincie meridionali, che incomincia:

La prima fiata ci te 'iddi voi,
Subetamente mme nde 'nnamurai;
E quandu viddi lu trattu de voi,
Subeto mmia patruna te chiamai;14
. . . . . . . . . . . . . . . . . .

[p. 41 modifica]se pur non è storpiamento dell’elegante stornello toscano:

Alzando gli occhi al cielo vidi voi:
Subitamente me ne innamorai:
In mezzo a tante stelle il sol vedei.15

4. Quanto me piace l'aria de lo mare,
Lo core nu' mme dice de partine,
Chè cc'è la fija de lo marinaro
Ch'è ttanto bbella, che mme fa mmorine.
Un giorno me ce voj' arisicane,
Ne la cammera sua vojo trasire
La vojo tanto stringer' e abbracciare,
Fino che ddice: Amor, lasciami stare.
La vojo tanto stringere a la vita
Fino che ddice: Amor, falla finita!

L’origine di questo canto è sicula, come se ne ha traccia dall’esastico, che comincia:

Guarda, ch'è bbella l'unna di lu mari;16

ma la lezione romanesca è una fotografia di quella napolitana, che è un’ottava senza la ripresa, che si osserva nel nostro canto,17 e della quale la lezione marchigiana ci dà il primo tetrastico in un canto, unito ad altri versi, ed il secondo in un altro colla ripresa.18

[p. 42 modifica] E qui non è inopportuno dire come un frammento di questo rispetto raccogliesse Giacomo Leopardi in Recanati nel maggio del 1820.19

5. Arza la bbionda treccia, e nun dormire
Nun ve fate convincere dar sonno:
Quattro parole io ve devo dire
E ttutt' e cquattro so' d'un gran bisogno.
Primo, che, bbella, me fate morire,
La seconda ch'un gran bene ve vojo,
La terza che vve sia riccommannato,
L'urtima ch'io de voi so' 'nnammorato.

Questo canto, ch’è sparso nelle provincie meridionali, per tutta Toscana, per le Marche, per l’Umbria e nel Lazio,20 e di cui si ha qualche lieve traccia nel Veneto,21 è formato dallo innesto d’un distico e d’un esastico di due diversi rispetti del secolo xv (codice della Comunale di Perugia, C. 43 ).22

Il distico dice:

· · · · · · · · · · ·

Alza la testa da le trecce bionde,
Levati suso, e più non dormire

· · · · · · · · · · ·

[p. 43 modifica]e l’esastico:

Quattro parole ti voglio ridire
Poi che m’avesti, donna, abandonato.

E la prima è che tu mi fai morire,
E l’altra ch’io vi sia raccomandato,
La terza io non la posso sofferire
Dammi la morte, io sono apparecchiato.

6.

Volesse il ciel che fossi rondinella,
Che avessi l’ale per poter volare,
Entrar vorrei in quela finestrella
Ove sta la mia bbell’a rriposare.

Questo canto è sparso per tutta Italia,23 fino nella lontana Istria,24 ed il suo concetto trova pure una eco nella lirica popolare straniera.25 La lezione romanesca è tratta evidentemente dal tetrastico toscano:

Piacesse al ciel ch’io fossi rondinella,
L’avessi l’ale e sapessi volare!

[p. 44 modifica]

Volar vorrei ’ n quella contradia bella,
Dove l’è lo mi’ amore a lavorare.26

7.

Palomba che per l’aria vai a volare,
Ferma, quanto te dico du’ parole,
Quanto te levo una penna dall’alè,
Pe’ scrivere ’na lettr’a lo mi’ amore.
Tutta de sangue la voglio stampare,
Pe’ ssiggillo ce metto’ sto mio core,
E, finita da scrive e ssiggillare
Tu, ppavoncella vagliel'a portare.27

Questa ottava, che potei ricostituire unendo la lezione pubblicata negli Agrumi,28 con altre raccolte da me, mostra evidente l’origine dal canto siculo:

Acula chi d’argentu porti ss’ali,
Ferma, quantu ti dicu du’ palori:
Quantu ti scippu ’ na pinna di ss’ali,
Quantu fazzu ’ na littra a lu me’ amuri.
Tutta di sangu la vurria stampari,
E pi siggillo cci mientu lu cori.
Ora ch’è lesta, spidduta di fari,
Acula, porticcilla a lu me’ amuri.29

[p. 45 modifica] Il Zanazzo riferisce la seguente variante:

O rondinella, che ppassi lo mare,
Ferma, te vojo dire due parole:
Damme ’na penna da le tu’ ale,
Pe’ scrivere ’na lettra a lo mi’ amore.
E ddoppo che l’ho scritta e ffatta bbella;
Tu famme l’imbasciata, rondinella;
E ddoppo che l’ho scritta e ssiggillata,
O rondinella, famme l’imbasciata.30

Questo esastico con la ripresa, in cui mancano i particolari di scriver la lettera col sangue e di sigillarla col cuore, discende dalla lezione toscana che qui riportiamo:

O rondinina, che vai per lo mare,
Fermati un poco, e ascolta due parole:
Dammi una penna delle tue bell’ale,
Che scriver vo’ una lettera al mio amore.
E quando l’avrò scritta e fatta bella,
Ricordati di me, o rondinella.31

In molte varianti romanesche, da me raccolte, si osservano, dopo le tracce dell’ottava originale, delle appendici, alcune delle quali appartengono certamente ad altri canti. Eccone un saggio: a)

Esse lo trovi a lletto a rriposare,
O palomba, riposati tu ancora.

[p. 46 modifica]b)

Ma sse lo trovi a ppranzo oppure a ccena,
Ma sse lo trovi a ccena o ppur'a lletto ,
Abbassa l'ale e nun je fa rumore,
Quello rumore che mme dà 'na pena....

c)

Con patti che mme l'ha' da governare.
Governemel 'a mmandol'e ppignoli
Faje lo letto a cquattro matarazzi,
Li cuscinetti ricamati d'oro.
Pe' llenzolo je do 'sti miei sospiri
E ppe' ccoperta 'sto misero core.

8.

Presi 'na tortorell'e l'allevai,
Tra l'antre tortorelle la mettei,
Je tajai l'ale ch'ereno lunghe
Credenno nun volasse, volò ppoi.
La matina quanno m'affacciai
Veddi la tortorella fra ddu' cori.
Sai, che mme disse, quanno la chiamai ?
E vviemm' appresso, si bbene me vôi.
Io j'arispose : questo 'n sarà mmai,
A ccor'appresso a cchi ffuggì 'mme vole.
Io je disse : casa tu la sai,
Padrona mia se' stata, e ssei, si vuôi32.

S

Questo canto ha origine da un'ottava siciliana,33 che riferiamo qui appresso :

'N tempu ' na turturedda nutricai

[p. 47 modifica]

'Mmenzu dui turtureddi pari soi,
Ma troppu l'ali longhi ci lassai,
Nun mi cridendu vulari di poi.
La ' ntisi sbulazzari, ed affacciai,
Quanno la viju 'n menzu di du groi;
Sa' chi mi dissi quannu la chiamai?
Venimi appressu si beni mi vôi.34

9.

                              Fior de granato!
Bella, lo nome tuo sta scritto in cielo,
Lo mio sta scritto sull'onde del mare.35

Questo ritornello, che non mantiene la rima consueta, e che ha appena una lontana assonanza in -ato ed -elo (a = e) ed una affinità consonantica in -elo e -are (l = r), è l’unico resto che finora io abbia trovato della ottava originale sicula, di cui qui riferisco una variante di Otranto:

Beddha, lu nume tou stae scrittu 'n celu,
Lu mmiu stae pelli jundi de lu mare;
Pe' the sse troa paraisu e celu,
Pe' mmie sse troa lu ' nfiernu ' nfernale;
Pe' the sse troa lu zuccaru e lu mèle,
Pe' mmie sse troa lu vilenu ' maru;
Pe' the sse troa l'erva de primavera,
Pe' mmie è siccata quiddha de scinnaru.36

[p. 48 modifica]10.

M'hai fatto ' na fattura a ttradimento,
Nun me posso vede' gnisuno accanto;
Puro le mura me danno tormento!

Z

Deriva dal canto toscano:

M'hai fatto una malia a tradimento:
Non mi posso vedere anima accanto:
Fino le mura mi dànno tormento!37

11.

E lo mi amore se chiama Donato,
Me l'ha ddonat el core a ppoc'a ppoco.
E è 'to dicenno, che je l'ho rubbato, 38

Origina dal toscano:

E lo mio damo si chiama Donato,
Me l'ha donato il cor ed io l'ho preso;
E tutti dicon che gliel'ho rubato. 39

12.

A Ssa' Llorenzo40 c-i-ò ppiantat' un fiore
Ogni matina lo vad'a ' nnacquare,
Ma ppiù l'innacquo e ppiù cce cresce amore.

Questo canto, che ha preso una tinta locale, e che è divenuto come di compianto, esprimendo l’amore per un caro defunto, deriva dallo stornello toscano:

[p. 49 modifica]

Sopra la mia finestra c'è un bel fiore,
Tutte le sere lo vado a innaffiare,
Più che l'innaffio, e più cresce l'amore.41

13.

Quanto sei bbella, Dio te bbenedica,
Pare che tt'abbia pinto santo Luca,
E ssanto Luca e ssanta Margherita.

Questo ritornello, in cui l’ultimo verso fu aggiunto, per essersi smarrito il quinario, e per trovare un’assonanza ad -ica, origina da un altro toscano, del quale diamo qui la variante picena:

                               Fior di lattuca,
Sei tanto bella, Iddio ti benedica!
Par che l’abbia dipinto santo Luca.42

Il Marcoaldi così illustra questo canto: «È tradizione che s. Luca evangelista abbia dipinto l’immagine della Madonna. Forse le Madonne di un Luca pittore furono dall’ignoranza del volgo attribuite a s. Luca. In alcuni luoghi difatti si canta:

Par che l'abbia dipinto mastro Luca.

«In una nota (prosegue il Marcoaldi) posta ad una poesia elegantissima di [p. 50 modifica]Pompeo di Campello, intitolata: La SS. Icone di Spoleto, leggo:

"L’immagine della Vergine, venerata nella metropolitana di Spoleto, è tradizione antica essere stata dipinta dall’evangelista s. Luca, quantunque sappia doversi con maggiore probabilità ritenere opera di un tal pittore Luca, per santità di vita reputato beato "».

14.

Si er Papa me donassi tutta Roma
E mme dicessi: lass’anna’ chi tt’ama,
Io je direbbe: no, ssacra corona!

Z.

Questo ritornello, che sembrerebbe aver avuto nascita in Roma, non appartiene invece che al gruppo toscano, in cui si ridusse ad uno stornello il canto originario, mutando di forma e di particolari, secondo le contrade nelle quali era accolto, sicchè la proposta all’innamorato è fatta ora dal Gran Turco,43 ora dal re di Spagna,44 ora dal re di Francia, ora dal papa, ora da un qualunque re di corona,45 ed or finalmente anche dal principe Borghese, come leggiamo in un tetrastico latino:

Se il Papa mi donasse tutta Roma,
E il principe Borghese l’Amentana,
E mi dicesse: lascia andar chi t’ama,
Io gli direi di no, sacra corona.46

[p. 51 modifica] Ma altri ha già fatto un’analisi più accurata su questo canto, ed ivi rimandiamo il lettore.47

15.

Si lo sospiro avessi la parola,
Che bbell' imbasciatore che ssaria!
A lo mi' amore manneria la nova.

S. Z.

La origine di questo elegantissimo ritornello si deve certo ad un canto siculo, di cui non fu raccolto, o si perdette, l’esempio; ma ne rimasero lezioni intermedie nelle provincie meridionali . Riferiamo un tetrastico di Napoli:

Si lo sospiro avesse la parola
Che bbello ' mbasciatore che sarria!
Sarria l'ambasciatore de ' sto core,
Portarria l'ambasciata a ninno mio.48

Da siffatta analisi, che potrebbe proseguirsi indefinitamente, risulta che tutto il lirismo della poesia popolare di Roma appartiene alla Sicilia, o alla Toscana: le due fonti principali della nostra letteratura; ciò pertanto non toglie che, specialmente negli stornelli, Roma abbia dei canti propri, che esprimono l’indole dei nostri popolani.

Ma, Dio mio, quali canti! Essi riflettono sventuratamente tutta la rozzezza di quegli animi incolti, nei quali prevale la materia allo spirito, nei [p. 52 modifica]quali lo stesso amore, quel sentimento che tutti affratella, non ha ideali, ma è carne, nel significato più materialistico della parola. Il popolano innamorato mentre canta una serenata alla sua bella, ripetendo dolci versi di Toscana, o di Sicilia, o di Napoli, ha nel cuore fieri proponimenti se l’amata gli niegherà l’affetto, o se questo gli verrà conteso da un rivale. Nelle sue tasche, insieme ad un ritratto di Garibaldi o ad un’immagine della Vergine, v’è un coltellaccio affilato. Del come poi si conducano gli innamorati può vedersi nel veritiero bozzetto drammatico pubblicato testè dal Zanazzo,49 in cui fra due amanti corrono le gentili espressioni: che ssiate scannato; nun so chi mme tienga da nu’ sfasciaj’ er grugno; te vorebbe mette’ un deto in der naso e un’antro in d’un orecchio, e pportatte in giro pe’ mmanicotto; bojaccia, ecc. E si noti che il Zanazzo, come vedemmo, è proclive al lirismo, per cui le sue testimonianze non sono certo sospette. Ma torniamo all’argomento. In quei canti popolari, adunque, che manifestano una caratteristica del popolo di Roma, troviamo quella rozza alterigia, quel disprezzo, che esprimono i popolani colla sconcia espressione: chi sse ne.....50 ed eccone un esempio:

[p. 53 modifica]

                                        Fiore de latte,
Si mm' hai lasciať' annà' vvatt' a ffa' fótte,
Trovete ' n' antr' amant', e bbuggiaratte;51

o vi troviamo un’ironia beffarda, talora non ispiacevole:

Pe’ ’l vicolo der Moro52 che cc’è ’r mèle.
C’è lo spasseggio de le sigherare,53
Che sse ne vanno co’ l’amato bbene;

o vi traluce quella satira, per cui il romanesco è famoso:

                                        Fior de patate,
Circoli e bbaricate so’ ffinite:
Cor mèle cominciò, ffini a ssassate;54

o vi si racchiude un aspro sarcasmo:

                                        Fiore de lino,
Quando rimiro il tuo volto sereno,
Vedo la cinicella der cammino;

[p. 54 modifica]o vi prorompe l’imprecazione, frequente sulle labbra del nostro popolo:

’Ffàcciet’a la finestra, si’ ’mmazzata,
Manico de padell’aruzzonita:
’Sta sera te la fo’ sta serenata!

o infine vi si rivela quella oscenità, che generalmente è il fondo dell’amor popolano, il quale vuole l’arrosto e non si contenta del fumo:

                                        Fiore de menta,
Nun se po’ ffa l’amore si ’n se pianta,
E in campo nun se mette la sementa.

Questo è quanto si può dire intorno alla lirica dei ritornelli e dei sonetti55 romaneschi; altrove faremo parola delle canzoni narrative, che presentano un fondo storico, leggendario o romanzesco.



Note

  1. Zanazzo, Aritornelli romaneschi, p. 13.
  2. Id., Quattro bbojerie romanesche, p. v.
  3. Id., Aritornelli, p. 14.
  4. È da notarsi come la lezione marchigiana di questo canto (Gianandrea, p. 77, c. 135):
         Giovinottina, da ’sso petto bianco
    Ce li portate du pomi d’argento;
    Chi sse li goderà diventa santo,
    Si me li godo io, moro contento,

    sia più completa e più poetica; forse passaggio dalla lezione originale toscana alla romanesca. E veramente non so quanto lirismo vi sia nello assomigliar le candide mammelle a due lampade; mentre già è resa felicemente l’idea dai pomi d’argento. Qui osservo come, pure ammettendo col D’Ancona (La poesia popolare italiana, p. 285) una forma originaria sicula, possa l’origine de’ canti romani, specialmente dei tristici, riferirsi ad una lezione toscana.

  5. D’origine toscana. Il Tommaseo (p. 106, c. 9) riferisce un rispetto dell’Amiata, da cui si tolsero poi gli elementi di questo stornello.
  6. Questo canto non è romanesco, ma prettamente toscano. Il Tigri (p. 321, c. 7) così lo riferisce:

    Angiolo d'oro,

    Tu canti li stornelli, ed io gl’imparo;
    Tu spasimi per me, io per te moro.
  7. Sabatini, Saggio di canti pop. rom., p. 52.
  8. Nei Fiori d'acanto il Zanazzo ha innalzato il nostro umile dialetto ad un lirismo forse un po’ esagerato. Anche il Trilussa ne’ suoi madrigali romaneschi: Stelle de Roma, tentò applicare il nostro dialetto ad una lirica fuori del suo carattere. Ma è da notarsi che il Trilussa rivolge il suo lirismo al ceto aristocratico; mentre il Zanazzo si rivolge al plebeo: solo difetto del Trilussa è lo aver egli parlato in dialetto ad una classe, che non lo parla, e però non lo intende.
  9. I canti editi dal Zanazzo verranno distinti colla iniziale Z, e quelli del mio Saggio colla S.
  10. Marcoaldi, p. 68, c. 90; Gianandrea, p. 130, c. 45.
  11. Casetti-Imbriani, II, p . 235, c. IV.
  12. Tommaseo, p. 279, c. 17; Tigri, p. 247, c. 909.
  13. Tigri, p. 323, c. 24. Sulla influenza dell’elemento toscano nei canti popolari di Roma, parlerò altrove diffusamente. Cfr. quei versi di Catullo:

     . . . . . . coelesti in limine vidit
    E Bereniceo vertice caesariem,
    Fulgentem clare ....

    laddove rammentasi la chioma di Berenice, portata in cielo da Venere e fatta stella.

  14. Casetti-Imbriani, II, p. 173.
  15. Tigri, p. 328, c. 70.
  16. Pitrè, Bibliot. delle tradiz. pop. siciliane, I, p. 433, c. 654.
  17. Casetti-Imbriani, II, p. 398, c. xxiv.
  18. Gianandrea, p. 57, c. 61; p. 59, c. 66.
  19. Gianandrea, p. vi.
  20. Casetti-Imbriani, II, p. 122; Tigri, p. 70, c. 263; Gianandrea, p. 131, c. 48; Marcoaldi, p. 63, c. 69; p. 140, c. 40. Cfr. Sabatini, Alcuni strambotti di Leonardo Giustiniani, p. 13.
  21. Bernoni, punt. IV, c. 45.
  22. D'Ancona, La poes. pop. it., p. 444, c. II; p. 449, c. 39.
  23. Pitrè, I, p. 213, c. 60, 61; Vigo, p. 332, c. 1543; Lizio Bruno, Canti scelti del pop. sicil., p. 63, c. 9; p. 93, c. 4; P. 95, c. 5; Lizio Bruno, Canti delle isole Eolie, p. 122; Casetti-Imbriani, I, p. 122; II, p. 87; Tigri, p. III, c. 418; P. 119, c. 448-9; p. 166, c. 625; Guastella, Canti pop. di Modica p. 64-69; Bernoni, punt. III, c. 14; Ferraro, Saggio di canti pop. raccolti a Pontelagoscuro p. 211, c. viii; Arboit, c. 233, 798, 872; Gianandrea, p. 66, c. 95; D’Ancona, p. 187.
  24. Ive, Canti pop. istriani, p. 123, C. 4.
  25. Tommaseo, Canti pop. greci, p. 51; Luzel, Chants pop. de la Basse-Bretagne, II, p. 131.
  26. Tommaseo, p. 144.
  27. Cfr. Lizio-Bruno, p. 106; Casetti-Imbriani, I, p. 27; Caselli, Chants pop. de l’Italie, p. 175; Gianandrea, p. 150; Ferraro, p. 211, c. v1; Marcoaldi, p. 102, c. 22; p. 131, c. 10; Bernoni, punt. VII, c. 41; Avolio, Canti pop. di Noto, p. 198, c. 253; Mueller-Wolf, Egeria, p. 11, § 3, c. 2; Tigri, p. 179, c. 675, 676; p. 180, c. 679; Vigo, c. 1439.
  28. Kopisch, p. 100.
  29. Lizio-Bruno, Canti dell’isole Eolie, p. 93.
  30. Zanazzo, Aritornelli romaneschi, p. 73.
  31. Tommaseo, p. 203, c. 10.
  32. Per i vari riscontri v. Sabatini , c. 61
  33. Da un ms. intitolato : Selvetta di ottave siciliane, in cui si contengono componimenti dei secoli xvi, xvii e xviii.
  34. Pitrè, III, p. 211.
  35. Cfr. Blessig, Römische Ritornelle, f. 48, c. 234.
  36. Casetti - Imbriani, I, p. 101.
  37. Tigri, p. 347, C. 224.
  38. Cfr. Blessig, p. 40, c. 195.
  39. Tigri, p. 332, c. 101; Gianandrea, p. 39, c. 142.
  40. S’intende al cimitero, che è presso la chiesa di S. Lorenzo extra muros.
  41. Tigri, P. 337, c. 143.
  42. Marcoaldi, p. 109, c . 46. Santo Luca vien nominato anche in altri canti; cfr. Casetti-Imbriani, I, p. 96; Guastella, P. I; De Nino, Saggio di canti popolari sabinesi, p. 12; Imbriani, Canti pop. avellinesi, p. 35; Gianandrea, p . 64, c. 85.
  43. Bernoni, punt. VI, c. 26.
  44. Casetti-Imbriani, II, p. 394, c. XIX.
  45. Salomone-Marino, Canti pop. sicil., c. 338.
  46. Marcoaldi, p. 137, c. 30.
  47. D'Ancona, La poes. pop. it., p. 208.
  48. Casetti-Imbriani, II, p. 32; Gianandrea, p. 109, c. 39.
  49. L’amore in Trestevere, Roma, Cerroni e Solaro, 1888.
  50. Il Zanazzo pubblicava nel 1886 uno Statuto de la società der «chi sse ne...?».
  51. Traggo questi ritornelli da una raccoltina compilata dal pittore Giuseppe Gnoli nel maggio del 1867, col sussidio di una sua lavandaia; in quel tempo egli teneva lo studio presso la piazza della Consolazione. La raccolta la ebbi in dono dal suo fratello prof. Domenico Gnoli nell’ottobre del 1876, e spesso me ne son valso nella pubblicazione di canti popolari. Noto questo, perchè non vi sia dubbio sulla genuinità dei canti addotti ad esempio.
  52. Contrada nel Trastevere.
  53. Lavoranti alla fabbrica dei sigari, ch’è nel Trastevere.
  54. Si allude all’effimera Repubblica romana del 1849.
  55. Così chiamano i romaneschi quel componimento, che rassomiglia al rispetto toscano, alla romanella di Ferrara ed allo strambot piemontese. Per sonetto intendevasi anticamente qualunque sorta di poesia lirica, perchè le parole si accompagnavano col suono. Cfr. Sabatini, Saggio di canti pop. rom., p. 4. Debbo qui notare, che il mio amico Mario Menghini va ora pubblicando nell’Archivio per lo studio delle tradizioni popolari una raccoltina di Canti pop. rom., della quale non ho potuto qui giovarmi, perchè tuttora in corso di stampa.