Pagina:Francesco Sabatini - Il volgo di Roma - 1890.pdf/43


La lirica nei canti popolari romani 37
Ciavete l'occhio ner’ e ’r petto bbianco,
De cqua de llà du làmpene d'argento:
Chi vve vo’ bben’ a vvoi diventa santo.
1

A la viola,

Quanno ve vedo da lontano, o ccara,
Abbasso l’occhi, e pperdo la parola
.2

Angelo d’oro,

Tu ccanti li stornelli, e io l’imparo,
Tu spasimi pe’ mme, io pe’ tte mmoro
.3

«I critici - prosegue il Zanazzo vi potranno trovare qualche asprezza, qualche sillaba di meno:

  1. È da notarsi come la lezione marchigiana di questo canto (Gianandrea, p. 77, c. 135):
         Giovinottina, da ’sso petto bianco
    Ce li portate du pomi d’argento;
    Chi sse li goderà diventa santo,
    Si me li godo io, moro contento,

    sia più completa e più poetica; forse passaggio dalla lezione originale toscana alla romanesca. E veramente non so quanto lirismo vi sia nello assomigliar le candide mammelle a due lampade; mentre già è resa felicemente l’idea dai pomi d’argento. Qui osservo come, pure ammettendo col D’Ancona (La poesia popolare italiana, p. 285) una forma originaria sicula, possa l’origine de’ canti romani, specialmente dei tristici, riferirsi ad una lezione toscana.

  2. D’origine toscana. Il Tommaseo (p. 106, c. 9) riferisce un rispetto dell’Amiata, da cui si tolsero poi gli elementi di questo stornello.
  3. Questo canto non è romanesco, ma prettamente toscano. Il Tigri (p. 321, c. 7) così lo riferisce:

    Angiolo d'oro,

    Tu canti li stornelli, ed io gl’imparo;
    Tu spasimi per me, io per te moro.