La gioventù di Caterina de' Medici/I
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LA GIOVENTÙ Di CATERINA DE' MEDICI.
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I.
Nella cappella de’ Medicei depositi, che il pontefice Leone X fece cominciare da Michelangiolo Buonarroti, allorquando la speranza della durevole grandezza, e dell’alto splendore di quel ramo della sua famiglia dal quale ei discendeva, per parecchie improvvise e immature morti seguíte una dopo l’altra era spento, veggonsi uno dirimpetto all’altro due monumenti di mole e di forma uguale. In uno di essi riposano sul sarcofago due figure allegoriche: le quali, a ciò che si crede, rappresentano l’Aurora e il Crepuscolo, simboleggianti la fine immatura, e la rapida sparizione di ardite speranze. Sulla parte superiore, nella nicchia, siede in attitudine cogitabonda, colla di ritta posata sulle ginocchia, e il mento appoggiato sulla sinistra, in arme di cavaliere, e coperta di elmo la testa, una figura virile: è giovane d’età, eppure profondamente serio, e quasi lo diresti pieno di pensieri, e di dolorosi presentimenti. L’atto e il gesto di quella statua, la quale parlando non potrebbe significare di più, le hanno fatto dare il nome del Pensiero. È l’effigie di quel Lorenzo de’ Medici duca di Urbino, che fu rapito da una morte precoce.
Questo monumento, e l’altro dedicato a Giuliano duca di Nemours, che gli sta di fronte (in cui si ammira la statua della Notte, il più celebre lavoro forse della scultura moderna), sono d’una profonda significazione pel carattere del grande artista. Il quale ci lavorava malfermo di salute, e dolente, anzi disperato, della sorte della cara patria, costretta ad aprire per la terza volta le porte ai Medici, tre volte cacciati. Lavorava egli con una indefessità che gli rovinò la salute, ai monumenti di una famiglia, alla quale fin dalla fanciullezza molti vincoli lo stringevano: ei però non l’amava, perchè troppo gli era cara la libertà che da quella famiglia veniva oppressa. Mentre la sua mano infiacchita, ma pur sempre istancabile, trattava lo scarpello, ei manifestava nella pietra i sentimenti angosciosi, che commovevano l’animo suo; ai quali diede un altro sfogo più tardi in quei suoi versi bellissimi, che la Notte, sdegnosamente supplice, risponde a chi svegliar la voleva dal sonno.1
Chiunque consideri la mente e i casi di Michelangelo, e ne confronti la vita colle opere che uscirono dalla penna, dal pennello, dallo scarpello o dalla squadra di lui, troverà nei medicei sepolcri un interesse psicologico più profondo assai di quello, che sotto il mero aspetto artistico vien dato ad essi da quelle forse troppo pregiate forme feminili. Fra le statue di questo monumento la più insigne è quella del duca d’Urbino.
Grandi progetti aveva Leon X su questo figlio del suo fratello. Quando ei salì al trono pontificale erano già ottant’anni che la famiglia dei Medici, avvantaggiatasi rapidamente e continuamente per via del commercio e delle arti della pace, aveva preso radice nella benevolenza del popolo, e nell’adesione d’una parte di quelli, che dalla bassa plebe si distinguevano: onde nella repubblica di Firenze, repubblica democratica e forte sì, ma divisa, godeva un posto, il quale senza dare ad essa un titolo legittimo e proprio, le accordava il più possente influsso sull’ordinamento interno e sulle relazioni esteriori.
Il nome dei Medici, sulla significazione e l’origine del quale tanto e tanto inutilmente si è disputato, si conosceva già fin dal secolo decimo terzo. Essi appartenevano ad una famiglia popolana che allora non aveva nè considerazione, nè ricchezza, nè stato. Sul principiare del secolo seguente noi li troviamo già ad occupare i più alti impieghi delle arti; ed era un tempo in cui le compagnie delle arti immedesimandosi col governo, l’appartenere a tali compagnie assicurava alla borghesia il maneggio de’ pubblici affari, da cui erano esclusi i componenti l’antica nobiltà fortemente colpiti da penali e politiche leggi. Ma soltanto negli ultimi trent’anni di quel secolo ebbero i Medici qualche importanza politica, poichè in un tentativo di rivolta del popolo minuto contro le principali famiglie cittadinesche, le quali formavano una nuova nobiltà, si misero insieme cogli altri malcontenti delle classi superiori dalla parte dei sollevati. Il tentativo andò a vuoto; e, come accade sempre in simili casi, crebbe la potenza della fazione avversa, alla cui testa era la famiglia degli Albizzi. I Medici però con molta avvedutezza seppero mantenere il posto che avevano preso; e dopo un breve esilio di Cosimo, l’astuto figlio di Giovanni di Bicci, nell’anno 1434, spalleggiati dal favore della moltitudine, divennero onnipossenti. Costoro sempre affidaronsi al popolo onde fare opposizione alla nobiltà: oggi pure vive un popolare dettato, il quale rammenta questo favore; e mescolando col profano il sacro, attribuisce al giorno e al nome dei Santi Cosimo e Damiano patroni di quella famiglia, la facoltà di preservare da ogni malanno:
Per san Cosimo e Damiano
Ogni male fia lontano.
qualunque fosse poi l’ambizione, e l’avidità di
signoreggiare dispoticamente che moveva l’animo di Cosimo il vecchio, di suo figlio Piero e del celebre suo nipote Lorenzo il Magnifico, ei seppero bene, specialmente il primo e l'ultimo, serbare all’esterno la moderazione. Mentre essi continuamente, pertinacemente andavano fin dagli ultimi anni del secolo decimoterzo scalzando le basi dell’ordinamento in vigore, e rendevano perciò a poco a poco impossibile la repubblica, favoreggiavano pure in apparenza gl’interessi dei popolani, corrompevano la plebe, e indebolivano al tempo stesso la nobiltà, la quale in parte era attirata a collegarsi con loro, in parte dissipava le sue forze in opposizione faziosa.
Quell’epoca della famiglia dei Medici nella quale ella innalzossi con una politica all’interno furba e perfida, più ancora che non fosse avveduta; epoca insigne però nelle relazioni generali italiane per avere inteso all’equilibrio delle potenze, e abbellita poi dal fiorire delle arti e dalla rigenerazione della classica letteratura, terminò con Lorenzo il Magnifico. Non molto dopo, nell’anno 1494, la venuta del re francese Carlo VIII a Napoli rovesciò la politica nazionale italiana a fatica finallora sorretta, e diè principio alla straniera dominazione: guaio che incominciò colla seconda cacciata dei Medici da Firenze. Se Piero figlio maggiore del Magnifico stato fosse in autorità ed avvedutezza simile al padre, forse avrebbe potuto distornare la procella: ma tale non fu; ed egli stesso, la sua famiglia e la sua patria doverono subirne le conseguenze. Insieme con lui ramingarono in esilio due suoi fratelli: Giovanni cardinale di Santa Chiesa, e Giuliano. I Fiorentini per diciotto anni, prima ispirati più che non condotti dal domenicano Fra Girolamo Savonarola che tendeva ad una specie di Teo-democrazia; quindi sotto la dominazione di Pier Soderini, dominazione alquanto simile al dogato veneto, fecero di tutto per reggere in mezzo alle più grandi difficoltà interne ed esterne la vacillante repubblica. Tornarono poscia i Medici: e pochi mesi dopo, Giovanni, appena compito l'anno trigesimo settimo, fu innalzato alla più eminente dignità del cristianesimo. Dei figli di Lorenzo il Magnifico, oltre il Papa, era ancor vivo Giuliano, minore di tutti. Siccome egli aveva troppo debole salute, ed era riputato di indole troppo cedevole per esercitare autorità in Firenze (ove per le turbolenze degli ultimi diciotto anni faceva d’uopo d’un forte ordinamento), per esercitarvi, dica, sotto l’apparenza di forme repubblicane l’autorità, che sempre più andava foggiandosi a dominazione d’un solo, il Papa lo chiamò a Roma, e lo creò generale della Chiesa. Lorenzo, figlio di Madonna Alfonsina Orsini, e di Piero fratello maggiore del Pontefice, di quel Piero improvvido quanto infelice, che l’anno 1503 aveva trovato nel fiume Garigliano la morte, e nella chiesa di Montecassino la tomba, subentrò allo zio nel primato nella repubblica fiorentina. Leone X amava la sua patria, ma più della patria amava egli la sua famiglia, la cui speranza riposava intieramente su Lorenzo; ei soleva chiamare il nipote cuor suo, e Firenze la luce de’ suoi occhi2. Lo stato che Lorenzo godè nella città nativa rassomigliava più che altro a quello già occupato dal suo celebre avo: era signoria senza avere di signoria la forma esteriore. Il Medici, non ostante la sua giovanezza (siccome quegli che non sorpassava l’età di venti anni) nei primi tempi del suo governo seppe acquistar nome di signore savio, forte, e giusto.
Al Pontefice però, e più ancora che al Pontefice, alla sua cognata Alfonsina, la posizione da Lorenzo occupata non pareva bastante: essi desideravano accrescerla per l’aggiunta di qualche stato e d’un titolo. Leone X ebbe forse la speranza di procurare al nipote il dominio di Parma e Piacenza, e quando le vicende della guerra ebbero ciò reso impossibile, ei lo fece duca d’Urbino.
Fu questa un’ingiustizia. Francesco Maria della Rovere duca d’Urbino, nipote di Giulio II, aveva, sì, commesso molti errori, ma il procedere contro di lui, sotto l’inutile apparenza di una falsa legalità, altro non fu che una serie di prepotenze. Sembra che Lorenzo de’ Medici si piegasse solamente con repugnanza alla volontà del Papa e ai disegni della madre. Se egli dipoi rimase in possesso dell’eredità del feltrense, ciò accadde soltanto dopo duro cimento, e grave ferita all’assedio di Mondolfo, dopo una spesa troppo sproporzionata all’acquisto: il quale quanto era malsicuro, altrettanto irritò contro i Medici i principi e signori d’Italia. Il nuovo duca tornò a Firenze, e viveva principescamente, quando Niccolò Machiavelli gli dedicò il suo Principe: libro divenuto poi sì famoso. Nella troppo umile sua prefazione, l’antico segretario fiorentino parlò di Magnificenza, di Altezza; e rassomigliò sè medesimo a chi da un basso piano si ponga a considerare la natura dei monti e dei luoghi alti.
Un insigne matrimonio doveva coronare l’opera, assicurando la discendenza poichè Lorenzo era l’unico erede dell’antico stipite dei Medici. Giuliano il vecchio, che nella congiura de’ Pazzi perse la vita sotto il pugnale omicida, aveva lasciato soltanto un figlio, la nascita del quale è rimasta sempre nel mistero. Fu questi Giulio, prima cavaliere di Rodi, quindi cardinale arcivescovo della sua città natale, reputato onnipossente sotto il suo cugino Leone; il quale volentieri gli cedeva la parte più rilevante degli affari di stato, riserbandosene pur sempre la direzione suprema. Giuliano giuniore non aveva figli legittimi, lasciando solamente il figlio naturale Ippolito, frutto di una relazione tenuta fin dal tempo in cui egli esule trovò nella corte di Urbino una ospitale accoglienza mal ricambiata dalla sua famiglia. Mediante il suo matrimonio posteriore con Filiberta di Savoia, sorella del duca Carlo III, e di Luigia d’Angoulème, egli trovavasi zio del re Francesco I, che nell’anno 1545 era asceso al trono. La morte sciolse presto una tale unione. Giuliano, dopo aver passato gli ultimi suoi giorni nell’abbazia di Fiesole, fatta fabbricare dal Fiavolo suo Cosimo in una pittoresca solitudine, sulle sponde di quel fiumicello Mugnone reso ’celebre dal Boccaccio, morì nella primavera seguente in età di trentasette anni. £i mori profondamente addolorato dei disegni del Papa e del suo procedere contro Urbino, la cui corte egli aveva conosciuto ai giorni del duca {juidubaldo, zio di Francesco Maria, quando era animata dalla presenza dei più culti e distinti uomini di Italia, come Pietro Bembo, Lodovico da Canossa, Bernardo Dovizi da Bibbiena, Benedetto Accolti di Arezzo, Ottaviano e Federigo Fregoso, Cesare Gonzaga, Gaspero Pallavicini e molti altri. Costoro, con Guidubaldo, ultimo della linea mascolina derFeltrensi, colla duchessa Elisabetta Gonzaga, colla signora Emilia Pia di Carpi, tenevano quelle conversazioni, che il conte Baldassarre Castiglione ricordò nel rinomato suo libro del Cortigiano, stimolato a ciò, secondo le proprie sue parole, dalla virtù del gentile signore cui aveva servito, e 40 * LA GIOTENTir DI CATERINA DB* MEDICI. dalla soddisfazione sentita nelF amorevole compagnia di così eccellenti persone. Papa Leone, cercando pure al suo nipote una sposa, proponevasi un fine politico. £i sentiva bene quanti avversari suscitati gli avesse la sua lotta col duca di Urbino, yna congiura nel sacro collegio, la quale costò la vita a tre cardinali, lo svegliò in mezzo a quella vita magnificamente allegra e quasi non curante, di cui egli si dilettava: ei cercò amicizie straniere, e si rivolse alla Francia. In cuore però egli era avverso ai Francesi. Le rimembranze della sua gioventù, gli avvenimenti alla famiglia sua dolorosi cbe seguirono la venuta di Carlo Vili, le tradizioni della politica papale fino dalla scissura del suo predecessore Giulio II con Luigi XII nella fatale guerra che prese nome dalla Lega di Cambrai, la prigionia francese nella quale erasi egli trovato come cardinal legato dopo la battaglia di Ravenna: tutti questi motivi contribuivano a farlo avverso alla Francia. Ma già fin d’allora cominciava a mostrarsi agli antiveggenti il pericolo che nato sarebbe dal soverchio incremento della casa d’Absburgo. I tentativi dell’imperatore Massimiliano, omai vecchio, per assicurare al suo nipote Carlo di Borgogna e di Spagna la successione nella prima dignità dell’Impero, dovevano prestare occasione di provvedersi, per ogni caso, di alleanze al Papa; il quale a quella sua grande bramosia di LA GIOYEirrÙ DI CATEAIIf A DE* MEDICI. 4 4 godere, in lai singolarmente modificata dalF indole sua splendidamente leggiera, alla politica sofistica e materiale del mo tempo e della sua scuola, aniva un senso politico finissimo. Solamente la Framcia poteva offerirgli un contrappeso, e la Francia, per le vittorie e Y acume politico di due re liberata dal nemico straniero come dall’interno, dagli Inglesi cioè e dal feudalismo prepotente, trovavasi allora nel bel mezzo di quella politica volta all’estero, che si può biasimare, ma che pure facilmente si spiega in una nazione gianta alla piena consapevolezza delle proprie forze. Sapevano benissimo e il Papa e il Re quanto potessero contare in una amicizia e in una alleanza-, ma a questo non si pensò. Pel re Francesco che pretendeva alla corona imperiale, era troppo chiaro fino a qual punto, a colorire i suoi disegni, vuoi in Germania, vuoi in Italia, ov’egli pretendeva ibducato di Milano, fosse utile il Papa (già spaventato mortalmente dalla vittoria di Marignano), per ch’ei non offrisse lietamente la mano a quell’esibizione di Leon X. Il Papa dal canto suo desiderava di far dimenticare il passato. Ciò che allora fa concertato (a cui particolarmente aveva contribuito presso il re Francesco il cardinal vescovo di San Malo, e il signore di Lescuns, Tommaso di Foix quindi maresciallo di Francia) qualche tempo dopo venne condotto a termine da uno dei più intelligenti ed avveduti politici di quella 42 LA GlOTENTà DI CATERINA DE* MEDICI. corte ecclesiastica tutta mondana; vo’ dire il. cardinale di Santa Maria in Portico, Bernardo Dovizi da Bibbiena, affezionato alla casa dei Medici per relazioni ereditarie precettore, consigliere, guida del cardinale de’ Medici, confidente del Papa, culto nella classica letteratura: mente limpida, politico e poeta, nominato dall’Ariosto fra i nobili battaglieri i quali brandivano la lancia contro il mostro della vile avarizia. Nella primavera déH518 il Bibbiena andò in Francia in qualità di Cardinal legato, ed ivi seppe guadagnarsi tanto il favore del Re, e della onnipossente sua. madre, cbe parve dover sigillare l’amicizia fra il Papa e il monarca francese.
- ↑ [p. 159 modifica]Pagina:La gioventù di Caterina de’ Medici, 1858.djvu/159 [p. 160 modifica]Rispondevano alla quartina da Giovanni Strozzi messa in bocca alla statua della Notte:
La Notte, che tu vedi in sì dolci atti
Dormire, fa da un Angelo scolpita
In questo sasso; e, perchè dorme, ha vita:
Destala se no ’l credi, e parleratti. - ↑ [p. 160 modifica]2In una istruzione del 3 giugno 4516 al Nunzio M. Pietro Ardinghelli che andava in Svizzera (trovasi nell’archivio Torrigiani in Firenze) dopo avergli raccomandato particolarmente di visitare nel suo passaggio da Firenze Madonnn Alfonsina Orsiii, parteciparle lo scopo del viaggio ricevere le sue commissioni, e nella saa missione tener d’occhio gl’interessi di Firenze, gli vien detto: «‡Farete lor (cioè ai Cantoni) fede quanta affectione ed osservanzia porti ale loro sigrie lo stato di Firenze ed il S. M°° Lorenzo, racchomandandolo caldamente, et in questi pagamenti delle pensioni pubbliche e private farete più amici, più grado, et più riputatione al S. Mag°° Lorenzo che vi sarà possibile, perchè in effetto la persona sua et quella città dulcissima patria di N, S. sono el core et la luce degli occhi di Sua Stà„ — Il titolo che nella cancelleria papale davasi a Lorenzo innanzi il suo innalzamento alla dignità ducale, e al suo zio, era «Dilectis filiis nobililwviris Laurenzio iuniori et Juliano de Medicis domicellis florentinis.» 3Il carteggio fra il cardinal vicecancelliere Giulio de’ Medici e Lorenzo duca d’Urbino da una parte, e Monsignor Giovanni Stafileo vescovo di Sebenico, nunzio papale in Parigi, e Francesco Vettori ambasciator fiorentino presso Francesco I dall’altra, trovasi [p. 160 modifica]2In una istruzione del 3 giugno 4516 al Nunzio M. Pietro Ardinghelli che andava in Svizzera (trovasi nell’archivio Torrigiani in Firenze) dopo avergli raccomandato particolarmente di visitare nel suo passaggio da Firenze Madonnn Alfonsina Orsiii, parteciparle lo scopo del viaggio ricevere le sue commissioni, e nella saa missione tener d’occhio gl’interessi di Firenze, gli vien detto: «‡Farete lor (cioè ai Cantoni) fede quanta affectione ed osservanzia porti ale loro sigrie lo stato di Firenze ed il S. M°° Lorenzo, racchomandandolo caldamente, et in questi pagamenti delle pensioni pubbliche e private farete più amici, più grado, et più riputatione al S. Mag°° Lorenzo che vi sarà possibile, perchè in effetto la persona sua et quella città dulcissima patria di N, S. sono el core et la luce degli occhi di Sua Stà„ — Il titolo che nella cancelleria papale davasi a Lorenzo innanzi il suo innalzamento alla dignità ducale, e al suo zio, era «Dilectis filiis nobililwviris Laurenzio iuniori et Juliano de Medicis domicellis florentinis.» 3Il carteggio fra il cardinal vicecancelliere Giulio de’ Medici e Lorenzo duca d’Urbino da una parte, e Monsignor Giovanni Stafileo vescovo di Sebenico, nunzio papale in Parigi, e Francesco Vettori ambasciator fiorentino presso Francesco I dall’altra, trovasi