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Beatrice. Non è cara; ma io non mi sento di far questa spesa.

Lelio. (Oimè! come vi riuscirò? non ho un soldo). (da sè)

Rosaura. Mi dispiace che non la prendiate; è un’ottima spesa, che ne dice, signor Lelio?

Lelio. È bella; ma l’avete fatta vedere? può esser d’impuro metallo. Lasciatela a me, ch’io la farò da esperta mano fabrile espiare...

Rosaura. No, no, devo restituirla subito, (non vorrei che questo affamato me la mangiasse). (da sè)

Lelio. Se madama comanda, io non dissento. L’offerta non è degna del nume. Non ardisco, per altro...

Beatrice. (Quant’è godibile!) Rosaura, riportala; non mi piace.

Lelio. Oh l’ho detto io; non le piace. Per altro... basta... non mi dichiaro.

Rosaura. (Già lo sapevo. Signora, questa tabacchiera è mia: ho fatto per dar una prova a quel magrissimo Cicisbeo). (piano a Beatrice)

Beatrice. (Ho capito. Pensa s’io volevo che me la donasse; non sono di questa taglia). (piano a Rosaura)

Lelio. (I Numi tutelari del mio decoro mi hanno levato da un grande impegno. Ma che mai parlano fra di loro?) (da sè)

Rosaura. Sì, Signora, ella è così. Conosco l’animo generoso del signor Lelio. Egli avrebbe voluto che questa tabacchiera fosse stata di purissimo oro massiccio; lavorata dal più accreditato artefice di Londra; adornata di grossissimi diamanti e di risplendenti rubini, con entro una miniatura fatta per mano di uno scolaro d’Apelle, per fame a voi un regalo; non è così? (a Lelio)

Lelio. Oh saggia interprete del mio cuore! voi avete toccato il segno.

Rosaura. (Credo che durerebbe fatica a pagarvi una scatola di tartaruga selvatica). (piano a Beatrice)

Beatrice. (Costei mi fa crepar dalle risa). Orsù via, preparaci da giocare.