La crisi dell'infanzia e la delinquenza dei minorenni/Il suicidio dei fanciulli
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Il suicidio dei fanciulli.
I.
Si discuteva anni or sono, — quando gli studî di statistica comparata erano nuovi e quindi più alla moda di quel che oggi non siano, — se la civiltà abbia portato, anche nel campo morale, tutti quei progressi che innegabilmente portò nella vita materiale. E gli ottimisti affermavano che il delitto, almeno nelle sue forme più gravi, va sempre diminuendo; e i pessimisti dimostravano col documento inconfutabile delle cifre, che viceversa i delitti aumentano con una proporzione geometrica spaventosa.
Forse, e gli uni e gli altri avevano in parte ragione, giacchè presso alcuni popoli civili la criminalità effettivamente diminuisce, e presso molti altri pur troppo aumenta.
Dove non è permessa varietà e contraddittorietà di opinioni è a proposito del suicidio, il quale segue dovunque da molto tempo una linea ascensionale che impensierisce, e che lo può far definire il fenomeno patologico caratteristico del nostro tempo. La lotta per la vita ha oggi, in confronto al passato, assai maggior numero di deboli che non sanno o non vogliono combatterla, assai maggior numero di vinti che la fuggono e si condannano all’auto-eliminazione. E fra questi deboli, fra questi vinti, cresce ogni giorno, specialmente nelle grandi città, il numero dei minorenni, dei giovanissimi, di coloro che non hanno ancor toccato il quindicesimo anno!
In Francia, nel 1839, si contavano 20 suicidî di fanciulli inferiori ai 16 anni, e 132 suicidî di giovani dai 16 ai 21 anni. Nel 1908, i suicidî di fanciulli inferiori ai 16 anni furono 85, e i suicidî di giovani dai 16 ai 21 anni furono 447. E ciò che vi è di più grave, quasi di incredibile, è che fra quegli 85 suicidî di fanciulli inferiori ai 16 anni, 33 erano stati compiuti da bambini di 14 anni, 4 da bambini di 13 anni, 2 da bambini di 9 anni, 1 da un bimbo di 8 anni, e 1 da un bimbo di 6 anni! In Prussia, i suicidî di fanciulli minori di 15 anni erano in media 38 all’anno nel periodo 1869-1873: furono 70 all’anno nel periodo 1894-1898.
In Italia, i suicidî di giovani tra i 15 e i 19 anni, furono in media 150 all’anno nel decennio 1896-1905: salirono a 179 nel 1906, e a 201 nel 1907; i suicidî di ragazzi al di sotto dei 15 anni, furono in media 8 all’anno nel decennio 1896-1905, salirono a 11 nel 1906 e a 14 nel 1907.
Negli altri paesi europei le statistiche danno risultati presso a poco eguali, che è quindi inutile riferire.
Di fronte a queste cifre, sorge spontanea la domanda tristissima: perchè il fanciullo si uccide? perchè a un’età che la poesia e la rettorica ci dipingono felice o serena o incosciente, si sviluppa quel «tœdium vitæ» che a noi sembra una conseguenza dei dolori e delle preoccupazioni dell’età matura? perchè il bambino sa trovare come un adulto quell’apparente e momentanea energia materiale e morale che occorre per uccidersi e che alcuni gabellano come coraggio, mentre non è in fondo che una viltà?
Sono molte le risposte che si potrebbero dare a queste domande. Mi limiterò, per ora, ad accennare fuggevolmente alle principali.
Anzitutto è un grossolano errore, direi un daltonismo psicologico, giudicare colla nostra psicologia d’uomini la psicologia dei fanciulli. È evidente che confrontandoli coi dolori che noi proviamo, i dolori infantili ci debbano sembrare ben piccoli. Ma tutto è relativo; e se un fanciullo non soffre per le gravi preoccupazioni che fanno soffrire un adulto, non si può per questo concludere che la sua età non conosca il dolore. Vi sono in quelle piccole anime delle grandi e paurose tragedie, che noi troppo spesso definiamo distrattamente come capricci. Vi sono, in germe, tutte le passioni che dilaniano il cuore dell’uomo, e che noi ingenuamente crediamo di poter placare con un rimprovero od un castigo, mentre non facciamo, spesso, che esacerbarle. Vi sono, infine, delle strane intuizioni che permettono al fanciullo di vedere, di sentire, di giudicare tutte le ingiustizie che noi commettiamo verso di lui, illudendoci ch’egli non arrivi a comprenderle. L’orgoglio e la gelosia — queste precocissime fra le passioni umane — fanno forse più soffrire i fanciulli che non gli adulti.
Noi sorridiamo di questi dolori infantili: sorridiamo per ignoranza o per egoismo. Ma non sorride forse anche il vecchio delle ubbìe che tormentano un giovane di vent’anni? Non trova egli forse che solo le sue malattie, solo le disillusioni da lui provate, solo il sentir vicina la morte, meritano il nome di veri dolori, e che la passione non corrisposta del giovane è tutt’al più un dispiacere da cui si guarisce e che egli invidia? E dovremo noi dire, per questo, che i giovani non soffrono? dovremo non comprendere perchè essi si uccidano per amore? Tutti i periodi della vita hanno gioie e sofferenze, certo diverse, ma che, con eguale potenza, turbano la mente ed il cuore. E ciò che diciamo dei vecchi riguardo ai giovani, possiamo e dobbiamo ripeterlo dei giovani riguardo ai bambini. Negare un dolce o un divertimento a un bambino gli è talvolta come negare una donna a un giovane innamorato. Il desiderio d’un’età è molto diverso da quello dell’altra, ma l’intensità del desiderio è, rispettivamente, la stessa. Così, commettere un’ingiustizia o una crudeltà contro un fanciullo, significa talvolta produrre in lui uno di quegli stati di triste disperazione o di improvvisa rivolta, di cui noi crediamo capaci soltanto gli adulti.
Se noi fossimo persuasi di questa equivalenza psicologica tra la vita infantile e la vita adulta, se noi cioè ci rendessimo conto che la psicologia dei fanciulli non è nè molto differente nè molto più semplice della nostra, ma viceversa ha della nostra tutti i dolori tutti gli impulsi tutti i pericoli, senza avere, come noi, un organismo saldo che possa sopportarli od opporvisi, noi comprenderemmo meglio perchè anche i fanciulli si uccidano, e forse noi modificheremmo i nostri sistemi educativi in modo da far sì che i bambini si uccidano meno.
Ma la ragione data fin qui — e che è permanente — se basta a spiegare perchè il suicidio dei fanciulli esista, non basta a spiegare, da sola, perchè vada progressivamente crescendo.
A fornir questa spiegazione concorrono due altre cause, una ereditaria, l’altra sociale.
Il numero dei suicidî infantili oggi aumenta perchè aumenta negli adulti la degenerazione; e gli ammalati, i pazzi, i criminali, gli alcoolisti, che mettono al mondo dei figli con una congenita tara ereditaria, li predispongono fatalmente a ogni forma di patologia, e quindi anche al suicidio.
Le inchieste di molti medici alienisti hanno dimostrato infatti che una fortissima percentuale di fanciulli suicidi è data dai figli di genitori degenerati.
Oltre questa causa antropologica, un’altra ve n’ha, come dicevo, più generale, che a tutte si impone.
Noi diventiamo vecchi prima del tempo, ed è quindi logico che i bambini, prima del tempo, diventino uomini. Questa nostra vita affrettata, febbrile, accelera il corso normale dell’esistenza; e se da una parte i giovani hanno una precoce senilità, i bambini hanno una giovinezza precoce. Il fanciullo entra troppo presto nella vita: troppo presto affatica il cervello negli studî: troppo presto sciupa la sua adorabile semplicità infantile partecipando, in famiglia e in società, all’esistenza complicata, irritata, affaccendata degli adulti; e troppo presto quindi, sotto la pressione violenta di emozioni superiori alla sua età, diventa uomo: uomo per i desiderii, per le passioni, per le ambizioni, non per la forza e per la coscienza.
E da questo squilibrio fra il volere e il potere scoppia talvolta il dramma: dramma la cui catastrofe è il delitto, se il fanciullo, invece che darsi per vinto, ha la criminosa audacia di servirsi, per vivere, di mezzi immorali, — dramma la cui catastrofe è il suicidio se il fanciullo si sente mancare le forze, e in un attimo di coraggio che nasconde forse una lunga viltà fugge da un mondo ove non sa ribellarsi o soffrire.
II.
Accennato così, alle cause generali, tentiamo di analizzare le cause particolari del triste fenomeno.
Come tra i suicidî degli adulti, così tra i suicidî infantili, i maschi danno una percentuale maggiore delle femmine. Anche giovanissimo, il maschio è sempre primo in ogni forma di degenerazione: nei delitto, nella pazzia, nel suicidio. La femmina lo segue a grande distanza.
Non si può dire se ciò dipenda da una ragione antropologica sessuale, o da una ragione sociale. Ma qual differenza apprezzabile può avere la società sull’anima di fanciulli e di fanciulle che appena appaiono sulla soglia dell’esistenza? In che cosa possono essere tanto diverse — per i maschi e per le femmine — le suggestioni della vita, così da trascinare al suicidio — in proporzione tripla a quella delle bambine — dei bambini di 13, di 10, di 8, persino di 6 anni? lo rinuncio a spiegare il mistero. Io mi limito a constatarlo, e a ricercare (al di fuori di questa sproporzione numerica sessuale) perchè il bambino si uccide.
Fra le molte cause, una prima divisione a farsi è quella tra le cause famigliari e le cause che chiamerò scolastiche.
Oh la scuola! questo focolare di civiltà che dovrebbe essere pei fanciulli una seconda famiglia, come si tramuta talvolta in un luogo di pena! La severità ingiusta dei maestri, lo scherno dei compagni per il piccolo alunno fisicamente disgraziato o moralmente timido e debole, il «surménage» intellettuale, la paura degli esami, tutte le umiliazioni quotidiane risentite dai fanciulli orgogliosi, tutte le preferenze volontariamente o inconsciamente distribuite agli altri, e che si infiggono come punte di spillo nel cuore del fanciullo geloso, — sono registrate come cause determinanti nei, processi verbali di molti suicidî infantili.
E il collegio! Questa caserma precoce ove per comodità (talvolta per necessità) le famiglie rinchiudono i bambini che avrebbero bisogno dell’atmosfera calda ed affettuosa che solo la convivenza coi genitori e coi fratelli può dare! Ricordate ciò che scrive Renan nelle sue memorie d’infanzia? Un suo compagno morì per la tristezza d’esser chiuso in collegio. Egli stesso si ammalò di nostalgia. Lamartine ebbe, in collegio, delle tentazioni di suicidio, e se ne liberò fuggendo.
Da queste testimonianze di uomini illustri noi possiamo immaginare ciò che soffre nei collegi la folla oscura dei fanciulli che non hanno storia.
Un magistrato francese, Luigi Proal, che ha compiuto recentemente un’inchiesta molto documentata sui suicidî infantili, dà a proposito dei suicidî scolastici delle cifre e dei particolari di una tal gravità da chiedersi se i genitori, e soprattutto le madri, non sono troppo spesso colpevoli nello sbarazzarsi dell’educazione dei loro bambini per affidarla agli istituti pubblici o privati.
E ritornano alla mente i versi di Sully Prudhomme, in cui è un così triste e giusto rimprovero:
On voit dans les sombres écoles |
La vita di famiglia, come l’ottimismo ce la dipinge, è senza dubbio un paradiso per il fanciullo. Ma disgraziatamente in realtà anche la famiglia può convertirsi in un inferno per i bambini. Lo prova il fatto che il numero dei suicidî infantili determinati da cause famigliari è superiore a quello dei suicidî determinati da cause scolastiche.
Non parlo dei casi tragici (e forse men rari di quel che si creda) in cui il fanciullo è martirizzato: povera piccola vittima su cui si sfoga la gelosia d’una matrigna, la brutalità d’un padrigno, spesso la selvaggia incosciente crudeltà di entrambi i genitori. Sono fenomeni patologici che pur troppo non sempre arrivano alla luce della pubblicità, o vi arrivano troppo tardi, quando la piccola vittima si è già sottratta col suicidio a una vita di lento martirio.
Intendo parlare dei casi più comuni, in cui non ci sono dei perversi che fanno volontariamente soffrire il bambino, ma c’è un padre indifferente e una madre frivola che non si curano di lui, che gli danno il solo esempio di una disunione matrimoniale, con tutti i suoi alterchi, tutte le sue finzioni, tutte le sue bassezze, e lo lasciano senza guida, sorprendente dolo a volte con degli slanci d’indulgenza ingiustificati, a volte con dei rimproveri e dei castighi violenti e altrettanto ingiustificati. Sorge così il tipo del fanciullo triste, che vive solo colla sua malinconia, guardando con spavento alla vita che lo attende. Basta un’occasione, e questo piccolo malinconico fuggirà dal mondo che per lui non ebbe sorrisi.
E intendo parlare anche di quell’educazione falsa ed effeminata, tutta condiscendenze e debolezze, che oggi si gabella come prova d’affetto. Vi sono famiglie in cui il bambino non solo occupa tutta la vita dei parenti, ma è viziato, colmato di elogi, esaudito in ogni più strambo capriccio. Manca ogni disciplina morale, ogni freno materiale: tutti si devono inchinare ai voleri del piccolo despota.
Un tempo — e noi molto lontano — si cadeva nell’esagerazione opposta. Talleyrand racconta nelle sue memorie che vide sua madre per la prima volta a 12 anni! È una mostruosità psicologica; ma non è neppure molto normale il sistema oggi in uso in troppe famiglie di dare al fanciullo la confidenza, di lasciargli la libertà, l’indipendenza d’un uomo. Egli ascolta e vede tutto: egli può leggere tutto: egli è mescolato nei ricevimenti e nei teatri alla nostra torbida vita, e se per caso trova un giorno qualcuno che gli resista, il suo piccolo cervello, in cui sono idee troppo grandi, si turba, e la sua piccola anima, già precocemente scettica, accoglie quel senso di disperazione che lo trascina al suicidio.
Si dirà: sono evidentemente degli ammalati e dei predisposti, questi fanciulli suicidi; e la scuola, il collegio, la famiglia non hanno fatto che determinare all’ultimo episodio una condizione di cose preesistente.
Siamo d’accordo. Ma non è detto che gli ammalati non si possano guarire, e che le predisposizioni congenite non si possano vincere.
Se nell’educazione ci fosse più dolcezza e insieme più fermezza, in una parola più psicologia, così da non urtare la suscettibilità dei temperamenti infantili, e da formare nello stesso tempo solidamente il carattere del bambino: — se le famiglie non dessero spettacolo di vizî e di difetti, e non avessero, verso il fanciullo, un metodo tutto a sbalzi, e quindi ingiusto, che alterna la severità colla licenza; — se si insegnasse virilmente il dovere e la gioia di vivere, anzichè, con una suggestione a ritroso, spargere i semi di un pessimismo e di un fatalismo che addormentano o corrompono la coscienza; — se soprattutto si riconoscesse che per ben educare occorre conoscere fisiologicamente il fanciullo, e si ricorresse al medico ed all’igiene più spesso che al maestro e ai castighi, — forse i suicidî infantili diminuirebbero, e non si avrebbero nelle nostre statistiche quelle cifre desolanti che sono una accusa e una vergogna per le nostre scuole e per le nostre famiglie.
Diceva il Descartes che «il morale d’un uomo dipende così strettamente dal suo temperamento e dalla disposizione dei suoi organi, che, se sarà mai possibile trovare un modo che renda gli uomini più saggi di quei che oggi non siano, sarà nella medicina che bisognerà cercarlo».
E penso che mai sentenza più giusta potrebbe essere applicata all’educazione dei bambini.