La cieca di Sorrento/Parte quarta/I

I. La giustizia di Dio e la giustizia degli uomini

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I. La giustizia di Dio e la giustizia degli uomini
Parte quarta Parte quarta - II
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I.


la giustizia di dio
e la giustizia degli uomini.


Un’arcana legge di Provvidenza regola il mondo. La Scienza umana, la Ragione e la Filosofia han confessato la loro nullità a petto di questo altissimo mistero e la loro impossanza a spiegarlo. La storia universale dell’umanità rivela questo fatto ignoto nella sua essenza, e soltanto percettibile ne’ suoi effetti.

La libertà delle azioni umane, di cui le passioni sono il precipuo agente, ha per norma la Ragione.

La Giustizia ha per norma la Coscienza.

L’Intelligenza ha per norma la Fede.

Chiunque non regola le proprie passioni secondo i dettami della Ragione, attenta alla legge della Provvidenza, ed è misero per l’effetto medesimo della sua scioperata e malvagia condotta.

Chiunque lede i dritti altrui, attenta alla Legge della Provvidenza, e lede la Giustizia. [p. 4 modifica]

Chiunque spinge il suo intelletto alla ricerca dell’ignoto senza la face della Fede attenta alla Legge della Provvidenza, ed è misero per effetto del caos delle proprie idee e dei proprii errori. La Fede sussidia la Ragione e la guida nel campo dell’Infinito.

Gli avvenimenti umani son tutti concatenati da una Mano invisibile, che regge l’universo morale siccome il materiale.

La Giustizia degli uomini non è che emanazione di quella di Dio.

Lo spettacolo dell’uomo giusto che soffre e dei malvagio che gode tragge in empii errori e bestemmie coloro i quali non vogliono persuadersi di non poter comprendere i disegni della Provvidenza. Ma tra mille giusti, un solo soffre; tra mille empi, un solo gode.

Esseri dotati di cinque meschini sensi, che sappiam noi? L’apparenza è tutto per noi; le passioni modificano e depravano i nostri giudizi; l’organica conformazione di ciascheduno li diversifica.

A queste rapide considerazioni eravamo naturalmente indotti nel considerar la morte dei due assassini di Albina di Saintanges, Nunzio Pisani e Tommaso Basileo.

Il primo fu vittima della Giustizia degli uomini. La Provvidenza consegno al rigor delle leggi sociali colui che le aveva infrante. Le leggi colpiron di morte chi avea dato morte.

Il secondo fu vittima della Giustizia di Dio. La Provvidenza tesseva la tela onde il Basileo fu colpito nelle sue più esecrate passioni. Egli [p. 5 modifica]rubava e fu dirubato; facea morir di stenti il suo prossimo, e morì anelando una goccia d’acqua.

Ci corre il debito di raccontare rapidamente ai nostri lettori la fine di questi due sciagurati, siccome l’abbiamo parecchie volte accennata.

Nunzio Pisani, commesso il delitto sulla persona dell’infelice Albina di Saintanges, s’involava per la terrazza del casino, per la quale si era intromesso nella camera della Marchesa.

Un istrumento di ferro a bella posta foggiato era servito a sgangherare e schiudere leggiermente le imposte del balcone.

Tommaso Basileo, che aveva ordita, diretta e guidata la mala opera, si era messo alla vedetta nella villa, poco lungi dal casino.

Entrambi, calpestando le più belle aiuole della villa, scaraffando rami e ceppaie, saltando su per ispalliere, scavalcando mura, evasero con prestezza da quel recinto, e si misero per la via che menava a Napoli.

Era il cuor della notte. L’oscurità era tale che i due malvagi non si vedean l’un l’altro, e a passi frettolosi batteano lo sterrato.

Nunzio avea dato a Tommaso la borsa piena d’oro e un fazzoletto in cui erano diversi oggetti d’oro e di argento rubati benanche alla Marchesa Rionero: egli portava il cassettino.

Attraversando un podere, udirono il latrar di un mastino; eglino affrettarono i passi, ma il cane lor fu addosso in un momento... Nunzio, più giovane, più robusto, fuggì come il lampo, temendo non solo di essere assannato dalla bestia, ma di essere scoperto dalla gente che [p. 6 modifica]avrebbe potuto accorrere a’ guai del cane. Forse nell’animo suo dominava la preoccupazione di svignarsela col cassettino, se fatto gli venisse, e godersi ei solo quel ben del diavolo che si avea sotto al braccio. E la fortuna il favorì, che sotto pretesto d’involarsi alle minacce del cane, ratto qual vento scappò, e tenne la prima imboccatura che potè scorgere nel fuggire.

Intanto il Basileo restò solo a fronte dell’arrabbiato mastino: indarno studiossi di far ammutolire e di ammansare quel feroce guardiano, il quale corse per un tratto addietro al fuggente Pisani, e poi più stizzito torse il cammino e si slanciava sul notaio...

Un fischio fu udito, e poscia una voce che chiamò a nome l’adirato animale. Basileo si vide perduto, si fece grande animo, trasse un affilato coltello, e, nel momento in cui la bestia saltavagli addosso, gliel conficcò propriamente in mezzo a’ due occhi.

Il cane mise un guaio di dolore, e cadde... Tommaso Basileo raccomandò la sua salvezza alle gambe, e corse con quanta lena si aveva in corpo e pel timore di esser raggiunto, e per la speranza di ritrovare il compagno.

Ma questi, fuggendo sempre alla ventura, e senza saper dove, si trovò, all’albeggiare, nelle circostanze di un villaggio poco più in là di San Giorgio. Ivi rimase per tutto quel dì, e la sera rimetteasi in cammino per Napoli, seco traendo sempre il suo tesoro... Ma arrivato a San Giorgio, ebbe sentore di essere inseguito; mise a prova la forza delle gambe, svoltò [p. 7 modifica]varii crocicchi, ebbe la ventura di ficcarsi in un portone a due riuscite, di cui l’una mettea sopra un vigneto; ruppe pali, stecconi, ingraticolati e pergole, saltò come scoiattolo, e, cacciatosi sotto uno scoscendimento di muro, fermò di passar quivi la notte.

Il giorno appresso, non sì tosto a luce penetrò in quell’antro, Nunzio con ogni precauzione si pose alla volta di Napoli. Qui arrivato a salvamento, suo primo pensiero fu quello di nascondere il tesoro che portava, e che ad ogni momento avrebbe potuto tradirlo... Già avea pensato dove celarlo a tutti gli sguardi; in fatti, toltone un gioiello che dovea servirgli per nutricarlo alcun tempo, andò a sotterrare il cassettino sotto una quercia, nella selva di pertinenza del marchese del Gallo, sul vallone di S. Gennaro de’ Poveri.

Fatta questa operazione egli visse per qualche mese tranquillo e vagabondo, sotto altro nome, e cangiando sempre paesetti e villaggi: aveva interamente posto in obblio Notar Basileo; e la sua coscienza non rimordevagli affatto di aver furata a costui la parte del comun delitto, imperciocchè il Pisani estimava dover il Basileo rimanersi contento a quel tanto d’oro e di argento che era stato benanche involato alla Marchesa Rionero, e che era a lui rimasto.

Non è a dire le orrende notti che passava Nunzio Pisani, gli sballi di spavento, le larve de’ suoi sogni, il grido lacerante della sua coscienza... Le ultime parole della Marchesa, la voce ed il pianto della bambina Beatrice gli [p. 8 modifica]rintronavano alle orecchie con tremenda voce; e lo scellerato rimembrava i suoi poveri figliuoli, l’amor de’ quali la giustizia di Dio più forte conficcavagli nel petto; ond’ei pareagli talvolta che Caterina, che Gaetano languissero per fame; che la prima si morisse di tisi, abbandonata alla vergogna e all’infamia, maledicendo il padre; che il secondo si fosse anch’egli posto in sulla via de’ delitti e del patibolo. Pareagli tal’altra fiata che il suo figliuolo fosse ucciso in rissa, e ne vedea, come fosse realtà, sgorgare il sangue da un’aperta ed ampia ferita, vedea la madre cacciata di porta in porta, limosinare stendando una vecchiezza disonorata e maledetta.

Era in somma così fatta la disperata tenerezza paterna che rincrudiva i suoi rimordimenti, esan tali i fantasmi che lo assalivano, che lo sciagurato mettea di notte tempo lamenti ed urla come di bestia feroce; e più non dormiva, ma sprolungava le solitarie strade nel cuore delle notti invernali affin di sottrarsi al tormento de’ suoi medesimi pensieri.

La Giustizia intanto correva appresso a lui; il marchese Rionero avea promesso un guiderdone immenso a chiunque consegnava nelle mani dell’autorità l’assassino di sua moglie e di sua figlia.

Un tagione era messo sulla testa del Pisani, sì che questi vedea sovente aggirarglisi intorno persone che sembravano fiutarlo, ed il guardavan fisso, ed il seguivano; pensò laonde trovar luogo appartato e remoto, dove sarebbe [p. 9 modifica]stato malagevole il pescarlo; e trovò ricetto appo una villica, nel comune di Quagliano presso Napoli; si era già provveduto di un buon archibugio da caccia; le disse però esser egli un galantuomo che veniva in quel villaggio a far caccia; che vi si sarebbe per una pezza trattenuto; e davale due carlini al giorno per vitto e alloggio.

Stando a tal modo le cose, un bel dì pensò che, nel caso fosse arrestato e condannato a morte, il tesoro nascosto nello Streppato (così nomavasi la selva del marchese dei Gallo) sarebbe stato perduto per lui e pe’ suoi figli; venne però nella determinazione di scrivere una lettera al suo complice, notar Basileo, nella quale compartendogli lo stato della sua presente esistenza, avrebbelo pregato di far ricapitare a’ suoi figliuoli in Calabria la metà del tesoro che a lui (Pisani) spettava qual frutto del comune delitto; per ricompensa di questo servigio che doveva esser fatto con delicatezza estrema, il Pisani promettevagli il silenzio sulla complicità di lui. Scritta questa lettera ebbe modo di mandarla segretamente al notaio, il quale risposegli che avrebbe fatto appunto quello che il Pisani desiderava e gli accomandava di tener la parola di non rivelare la sua complicità, com’egli avrebbe fedelmente mantenuta la sua promessa di far pervenire ai figliuoli di lui in Calabria la metà del tesoro dirubato.

Nunzio si vivea tranquillo, e alcun poco riposato con l’animo; quando una sera, in sulle ventiquattr’ore d’Italia, fu arrestato nel [p. 10 modifica]momento in cui con la sua albergatrice a lieto banchetto sedeva.

Quella donna avea scoperto chi fosse il supposto cacciatore, e, sedotta dal guiderdone promesso dalla giustizia e dal marchese Rionero, consegnava nelle mani del potere l’assassino di Albina di Saintanges.

Dopo un anno, il dì 9 ottobre 1828, Nunzio Pisani moriva sulle forche, nella piazza del Mercato di Napoli...

La Giustizia degli uomini era soddisfatta.

Tommaso Basileo, dopo la notte dell’assassinio e del furto, non avendo avuto più contezza di Nunzio, si persuase che questi sen fosse fuggito in Calabria, portando seco il cassettino delle gioie. Qualche volta nasceagli il dubbio che quegli fosse stato arrestato, sia in Napoli, sia in altra provincia del regno. In somma, passati alquanti mesi, il notaio più non pensò al Pisani e si tenne contento della porzione del furto che gli era rimasta nelle mani, e che pur valea qualche migliaretto di ducati. Gli passò, sul bel principio per la mente di denunziare il Pisani per vendicarsi di lui ma il rattenea la paura che quegli, scoperto l’autore della denunzia, avesse palesato il complice; e questa paura fu più potente del desiderio della vendetta.

Notar Basileo, messo da banda ogni pensiero, si vivea tranquillo; la spilorceria del suo vivere allontanava da lui ogni sospetto, chè tenuto era in concetto di poveruomo e dabbene. Qual però fosso la sua sorpresa non è a dire, [p. 11 modifica]nel ricevere e leggere la lettera di Nunzio Pisani che gli scrivea da Quagliano. Il suo cuore ribaltò d’una gioia oppressiva: il cassettino era suo! Il gaglioffo comprendea che Nunzio gli avea fatto rivelazione del luogo, ov’era riposto il tesoro, soltanto perchè non vedea più speranza di sottrarsi alla giustizia.

Nel momento in cui il notaio ricevè la lettera del Pisani, era intento a ricercare talune notizie nel quaderno delle scritture, tra cui stava legato il testamenti all’anima, che fu chiesto di poi dal cav. Amedeo: egli avea ricevuto poco innanzi una lettera da Palermo, da persona che li dimandava per lo appunto que’ ragguagli, in su i quali egli stava occupato. Nell’effervescenza della gioia, in cui lo immerse la lettura della lettera del Pisani, e premuroso di sperdere ogni orma della sua complicità col calabrese, lacerò in mille pezzi la lettera di Palermo credendo lacerare quella del Pisani, la quale invece egli pose nel mezzo di quel quaderno, come lettera di affari ad esso pertinenti.

Ciò spiega il come Gaetano s'imbattè nella lettera del padre, allorchè iva ricercando il testamento all’anima.

Il tesoro fu tolto dallo Streppato, e andò a riposare nel cassettone dell’avaro.

Basileo seppe la cattura del suo complice e tremò per sè. Ma Nunzio Pisani mantenne la sua promessa e serbò il più assoluto silenzio sul suo compagno di delitto; egli avea confessato l’assassinio e il furto, ma ostinato si era a negare l’esistenza del cassettino [p. 12 modifica]involato, dicendo di averlo perduto nei fuggire che facea di paese in paese.

L’avaro, per viemaggiormente iudurre Nunzio a non parlare, avea trovato modo di fargli sapere, nel fondo della prigione, di aver mandato somme di denaro alla famiglia di lui in Calabria. Questa menzogna non potea mai essere smentita, imperciocchè il Pisani avea cercato sempre di nascondere a’ suoi la vita infame ch’ei menava, l’assassinio, il furto e la prigionia; epperò nessuna corrispondenza epistolare avea con essi, anche a ragione della vita fuggiasca e nomada, a cui il suo delitto obbligavalo.

La condanna e la morte di Nunzio Pisani colpì di spavento lo scellerato Basileo, chè tremava sempre non avesse quegli palesato alla fine per terror di coscienza, il complice del misfatto. E non respirò che quando la testa del Pisani cadde dal patibolo.

Due uomini, diametralmente opposti per carattere, per sentimenti, per posizione sociale, aveano assistito all’estremo supplizio del Calabrese. Separati dalla folla, pallidi per differenti commozioni, eglino avean contato i momenti che teneano ancor quel capo congiunto a quel corpo.

L’uno satollava in quello spettacolo una sete di vendetta.

L’altro vi scorgea l’impunità del suo delitto.

Que’ due uomini erano il marchese Rionero, e Tommaso Basileo!

La morte di Nunzio rassicurò il notaro, che [p. 13 modifica]tutto si diede alle proprie bisogne, più non pensando al passato che solo allora che i suoi occhi si letiziavano con paterna sollecitudine e affetto nella vista de’ gioielli.

Dopo la scena, da noi descritta, e in cui Gaetano strappò all’avaro il cassettino, che era pur tutta la costui vita, il notaro infermò sì gravemente che per oltre ventiquattro ore restò come morto.

Riscosso dal letargo, fu colto da febbre ardentissima, nonostante l’intensità della quale dovette uscire per provvedere a’ suoi bisogni e per ricercare un altro commesso. L’istinto dell’avarizia non lo abbandonava: oltracciò, il cassettino non era la sola ricchezza che egli possedesse; ben altre ne aveva, impiegate sul debito pubblico. La curia gli fruttava discretamente e non avrebbe potuto abbandonar le sue faccende, senza gravissimo danno de’ propri interessi. Laonde gli fu forza di torre a stipendio un commesso; e questi si fu appunto quel Domenico che consegnò il testamento al cavalier Amedeo.

La febbre esacerbò per modo che il notaio più non potè uscire. Domenico veniva talvolta a visitarlo; gli facea da medico, gli ordinava medicami, ma il sordid’uomo non volea sentirne a parlare, perocchè trattavasi di spender danaro.

La testa del vecchio fu perduta... Il timore che il rubassero durante la sua malattia, la ferita mortale che Gaetano gli aveva aperta nell’anima involandogli il cassettino, avean [p. 14 modifica]percosso il suo cervello così che il delirio se n’era impadronito. E smozzicava frasi incomprensibili, e chiedeva ad ogni istante la somma di ventimila ducati, e piangea talora come bambino, e talora ad un riso d’idiota movea le labbra.

Un giorno (eran già parecchi dì ch’ei non poteva abbandonare il suo pagliericcio) Tommaso Basileo si sentia peggio; avrebbe voluto pregar Domenico a rimanersi con lui la sera; ma il timore che quegli, profittando di un momento di suo sopore, lo avesse rubato, glielo sconsigliò.

Domenico accese come al solito, un lucernino, e, messolo accanto al letto dell’infermo, si partiva in sul tardi della giornata augurandogli la buona notte.

L’uscio che si chiudeva dietro Domenico risuonò questa volta cupamente alle orecchie dell’avaro, come il marmo della tomba che si chiude, sul capo di un sepolto vivo.

La sera non indugiò a covrire di sue tenebre quella camera, di cui il fioco lume del lucernino non serviva che ad allungar vieppiù le ombre.

Tommaso Basileo si sentiva male... e male assai. Una sete ardentissima il divorava; ebbe la forza di levarsi un momento a sedere in letto per bere un’unica secchia d’acqua che Domenico gli avea preparata.

Ma quell’acqua tepida non rinfrescò le sue fauci... Il sangue correva a fiumi verso il capo e la gola... più gli occhi non potean rimanersi aperti; il secchio ricadde nel delirio.

Gli sembrava che l’uscio d’ingresso si fosse [p. 15 modifica]aperto e che un uomo fosse entrato nella camera grondante sangue dalle vene jugulari... Era Nunzio Pisani!

— Pietà... pietà, con voce soffocata gridava il notaio, e con le mani facea di allontanar da se lo spettro che si era avvicinato; il cassettino lo ha preso tuo figlio... Lasciami, vattene, che vuoi da me? Io sono un poveruomo... non ho danaro... vattene in nome di Dio, vattene... oh... per pietà non mi strangolare! Aiuto! Aiuto! Madonna del Carmine!

E le sue convulse braccia si moveano in atto di chi vuolsi liberare da due mani che gli abbiano afferrato il collo.

— Oh! non mi strangolare!.. Nunzio tel chiedo pe’ tuoi figli... Oh... è Gaetano adesso che viene!.. Aiuto! Ahi!.. il respiro! il respiro!! Siete in due mo a strozzarmi!... Ah... non mi rubate almeno!!!

La sua destra fece un movimento di estrema energia convulsiva, urtò il lucernino che rovesciossi a terra e si spense.

L’oscurità più fitta invase la camera!!

Basileo più non parlava!.. soltanto un rantolo somigliante al russar di un tigre risuonava nella caverna di quel petto... La bocca era spalancata, simbolo della fossa preparata ad accogliere la sua preda.

Dopo qualche tempo un suono articolato uscì da quelle labbra una parola tronca... spenta.

— Acqua!.. acqua!! chiedea l’avaro.

Ma nissuno, nissuno ristorava di un ultimo [p. 16 modifica]conforto quell’esistenza riprovata che si estingueva in disperata agonia!

Poco stante, e un sospiro breve... a mò di singulto fa udito.

Tommaso Basileo era morto!

La giustizia di Dio era soddisfatta.