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cosso il suo cervello così che il delirio se n’era impadronito. E smozzicava frasi incomprensibili, e chiedeva ad ogni istante la somma di ventimila ducati, e piangea talora come bambino, e talora ad un riso d’idiota movea le labbra.
Un giorno (eran già parecchi dì ch’ei non poteva abbandonare il suo pagliericcio) Tommaso Basileo si sentia peggio; avrebbe voluto pregar Domenico a rimanersi con lui la sera; ma il timore che quegli, profittando di un momento di suo sopore, lo avesse rubato, glielo sconsigliò.
Domenico accese come al solito, un lucernino, e, messolo accanto al letto dell’infermo, si partiva in sul tardi della giornata augurandogli la buona notte.
L’uscio che si chiudeva dietro Domenico risuonò questa volta cupamente alle orecchie dell’avaro, come il marmo della tomba che si chiude, sul capo di un sepolto vivo.
La sera non indugiò a covrire di sue tenebre quella camera, di cui il fioco lume del lucernino non serviva che ad allungar vieppiù le ombre.
Tommaso Basileo si sentiva male... e male assai. Una sete ardentissima il divorava; ebbe la forza di levarsi un momento a sedere in letto per bere un’unica secchia d’acqua che Domenico gli avea preparata.
Ma quell’acqua tepida non rinfrescò le sue fauci... Il sangue correva a fiumi verso il capo e la gola... più gli occhi non potean rimanersi aperti; il secchio ricadde nel delirio.
Gli sembrava che l’uscio d’ingresso si fosse