La cieca di Sorrento/Parte quarta/II
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II.
la guarigione
Il domani del funesto giorno, in cui Gaetano si trasse, per miracolo, dalla tomba che gli avea preparata il suo nemico, restò a letto nell’albergo delle Croccelle, dove si era novellamente stabilito per curarsi dalla ferita all’omero destro. Egli scrisse una lunga lettera al marchese Rionero, dandogli i più minuti particolari di quanto gli era accaduto il dì precedente, e promettendogli di portarsi a Sorrento incontanente che fosse in istato di abbandonare il letto: non celò il nome dell’autore del nero attentato, affinchè il Marchese avesse pienamente conosciuto di che tempra era l’uomo, al quale doveva andar sacrificata Beatrice.
Una decina dì giorni scorsero... Gaetano ebbe il piacere di ricevere in questo tempo, oltre tre lettere del Marchese, una lettera di Beatrice spirante vivissima inquietudine per la salute di lui, e profondo orrore del misfatto tramato. Il nome del Cav. Amedeo non avea contaminato quelle righe segnate dalla mano della cieca: solamente del delitto ella scriveva con sentimento di calda riconoscenza verso il cielo, che non avea permesso il trionfo, di tanta scelleraggine.
Non sapremmo dire quante volte Gaetano rilesse e ribaciò quel foglietto di carta avvegnachè nella lettera di Beatrice nissuna parola esprimesse l’amore, ma tutte la più sincera amicizia. Eppur di tanto era pago il cuore del giovin Calabro, il quale; nel corso di sua vita, mai non avea gustato la dolcezza di un’amica parola! Gli sembrava impossibile che Beatrice avesse scritto a lui! Allora che più esacerbavansi i dolori della sua ferita, ei toglievasi in mano quella scrittura, la rileggea dall’un capo all’altro, e sempre vi trovava un balsamo che l’asprezza dei patimenti gli molceva, e l’anima gli andava temperando alla pazienza, alla mansuetudine, al perdono!
Dopo un mese, Gaetano si sentì guarito a bastanza per tornare a Sorrento. È indicibile con quanta gioia ci vide spuntar il giorno nel quale gli era concesso di riveder Beatrice. Come lunghi e penosi gli erano sembrati i giorni che lo avean tenuto lontano da quanto egli amava! Nella ebbrezza del contento per vedersi in istato di volare là dove perennemente era stato col pensiero, egli avea dimenticato ogni altro proponimento da lui formato nel corso della sua malattia: la vendetta che avea meditata fredda, terribile, inaudita contro l’infame che aveva attentato ai suoi giorni, non si era neanche presentata al suo animo in quel dì che riveder doveva la carissima fanciulla cieca — Quando il cuore si apre a’ più dolci sentimenti di amicizia e dì amore; quando, dopo un mese di assenza, si va a ritrovare una cara famiglia; un’amante, nessun odio può albergare nell’animo, nessun pensiero di vendetta! —
Durante le lunghe ore in cui restava confinato nel tuo letto, e quando più fortemente ingagliardivano i suoi patimenti, ci facea vagare il pensiero sul diletto di vendicarsi in modo tremendo ed esemplare del vile assassino che gli avea preparato una morte impensata, oscura e feroce. Già s’intende che per sottrarsi ad ogni interrogazione od equivoco da parte dell’autorità, il domani del funesto avvedimento egli avea scritta e firmata una minuta relazione di quanto gli era accaduto dicendo nondimeno che il tentativo del barbaro assassinio era stato fatto solamente per estorquergli il denaro e le cambiali che avea addosso: avea palesato di aver ucciso i due ladri ed il modo onde a stento avea potuto salvarsi; ma avea taciuto il nome del cav. Amedeo, non mica per generosità, che sarebbe stata inopportuna, stolta e imprudente, ma perchè non voleva affidare ad altre mani una vendetta ch’ei desiderava gustare intiera e da sè medesimo.
Stimiamo non riescirà discaro a’ nostri lettori di leggere la lettera che Gaetano scrisse a Beatrice, pregando Geltrude di leggergliela, e di farla leggere benanche al marchese Rionero.
«Beatrice, angiolo della mia vita, ed è vero! Son questi i tuoi caratteri! Non m’illude la febbricitante fantasia! Oh, grazie; grazie ti rendo per l’eternità; nettare, ambrosia, eliso, io più non v’invidio!
Beatrice! oh Beatrice! Sento che ormai non potrò più vivere diviso da te! Tu sei necessaria alla mia esistenza. — Ti confesso che qualche volta mi assale il terribile dubbio che tu non possa giammai amarmi, e che, unendoti meco per sempre, tu non fai che obbedire alla volontà di tuo padre e partire il mio destino, quasi a compenso della luce ch’io restituirò agli occhi tuoi — Angiol mio, dissipa, questo mio dubbio!
Se tu sapessi come trista era l’anima mia, come scuro era per me l’orizzonte della vita, pria che tu venissi ad abbellirla con un sorriso d’innocenza e di virtù!... Io debbo sembrarti freddo, egoista; questo è appunto il fato che mi tormenta, l’affanno che mi divora; io non comparisco mai nel mio vero aspetto; ed allora che il sogghigno sta sulle labbra, le lagrime mi scorrono amare sul cuore... Ieri a notte ho pianto assai!... Mia cara, mia celeste Beatrice, no... no, io non merito il tuo amore, ma se tu me ne privi, non saprei come più lungamente sopportare il vuoto d’una esistenza senza scopo. Là felicità non è che l’amore!
In una delle notti febbrili che ho passate, ho sognato che era la sera del nostro matrimonio; un lautissimo banchetto riuniva i nostri amici; tu eri seduta accanto a me (non saprei dirti quanto eri bella!).. Alla mia sinistra stava una cara vecchiarella, la sola creatura che io mi abbia amata su questa terra... mia nonna, la madre di mio padre. Il tuo genitore stava dirimpetto a noi... Tu eri bella, bella oltremodo, ma il tuo volto era maliconico e una lagrima bagnava i tuoi occhi novellamente aperti alla luce... Quando ci siam ridotti nella stanza nuziale, tu hai abbracciato la nonna mia, ed hai pianto lungo tempo nel sen di lei, e tu chiamavi tua madre. — Oh quanto bella esser dovea la madre tua! Oh quanto amarti ella dovea! — Sogno divino, illusion carissima, avrei voluto che la febbre non mi avesse giammai abbandonato, se alla febbre ero debitore di queste larve adorate: non mai ebbi un sogno così chiaro; mi svegliai con un fortissimo battito di cuore.
Nella mia solitudine, ho avuto peraltro momenti d’inferno, in cui un demonio mi afferrava il cervello, e lo stringea nelle sue mani... ed io perdea la ragione... io era pazzo!... sì pazzo...
Ti scrivo alle due dopo mezzanotte! Beatrice adorata, m’immagino di vederti, di parlarti. Oh! io ti ho amata fin dall’infanzia; io ti vedea nel mio avvenire come un’immagine velata cui non sapea discernere, ma ti adorava... Ogni notte io sognava di te, perchè tu eri il primo e l’ultimo pensiero delle mie giornate... Quando io era fanciullo, misero, oscuro, mi assaliva alle volte una tristezza inconcepibile, ed una irresistibile smania di pianto; allora verso il tramonto del sole, io saliva su gli alti monti della mia terra nativa, e, rincantucciato in uno spigoletto di muro, guardava la lontana marina leggiermente ombreggiata dagli ultimi riverberi del sole, guardava la bianca nugoletta che attraversava il limpido cielo, e le cime delle annose elci...
Allora io piangeva perchè avrei voluto che tutta la natura si fosse animata, ed avesse corrisposto alla tenerezza dell’anima mia; allora io m’immaginava una fanciulla tutta pallida nel viso, tutta pensieri sulla fronte... io la vedevo, questa creatura, la vedevo attraverso la nebbia dell’avvenire, ed una vaga speranza sorrideva al mio cuore, ed io piangea... piangea: questa creatura eri tu, Beatrice; possano gli angioli benedirti com’io ti ho benedetta nei mio cuore!
Io sono d’un carattere incomprensibile; vi sono momenti nelle mie giornate in cui tutto mi annoia, mi desola; cerco avidamente il sonno, il niente!... Ieri al giorno mi dominava uno di questi momenti terribili e inesplicabili della mia vita. O Beatrice, niente al mondo può consolarmi in questi istanti, niente nè le ricchezze, nè la gloria, nulla... Eppure se tu mi volgessi in que’ momenti una parola d’amore, se io potessi leggere i tuoi caratteri mi si allargherebbe il petto e sentirei scendere sul povero mio cuore un poco di calma...
Qualche volta io penso che con questo mio carattere tu forse, unendoti meco, sarai infelice... Chi sa se un giorno... O mio Dio, mio Dio, fa che io muoia innanzi che tu abbi a versare una sola lagrima per me!.... Ti scrivo questa lettera con le lagrime agli occhi... Io non merito che un giorno tu mi ami. Che cosa poss’offrirti in compenso del celeste tuo amore? La mia anima inferma, ed un passato... Oh... non amarmi, Beatrice, non amarmi; io forse ne morrò, ma morrò senza il rimorso di averti renduta infelice.
Tempo verrà che io ti aprirò tutta l’anima mia; tempo verrà che ti narrerò tutta la storia del viver mio. Io non ho che trenta ed un anno, e sembro aver già tocco l’età in cui si comincia a declinare. Le mie spalle son curvate dal peso degli affanni; ne’ miei capelli comincia a spuntar la neve della vecchiezza. Se sapessi quanto ho sofferto! Nè credere che le dovizie di cui ora godo io le abbia sempre godute. No, Beatrice, la miseria scarna e pallida fu compagna dei miei primi anni; mia madre, mia sorella e mia nonna morirono negli stenti e nelle privazioni... Un fato orrendo pose il marchio della sventura sulla mia fronte!... Ho tolto il pane dalla mia bocca per aver mezzi onde studiare; mi sono intisichito in su i libri e in su i cadaveri; hommi logorato fibra per fibra il corpo per la ricerca della scienza. Oh com’io amo l’arte mia! Con che superba gioia ritolgo alla morte le sue vittima!.. Eppure, io odiava l’umanità, Beatrice, l’odiava come odiava me stesso... E tu ritemperasti quest’anima mia; la tua voce; la sola tua voce bastò a trasformare il mio essere a darmi altra esistenza... E quando ti vidi... Oh, sallo Iddio quel che provò questo mio cuore! Una forza superiore, incompressibile, mi cacciò nell’anima un subitaneo ardentissimo amaro. Sì, la volontà dell’Eterno mi comandò di amarti!
Io renderò tra poco tempo la vista agli occhi tuoi; sarà questo il giorno più bello della vita mia. Per esso io benedirò venti anni di studi indefessi e di enormi fatiche durate in su i volumi dell’arte medica. Per questo giorno io non maledirò gli affanni patiti e le torture del mio povero cuore. Le tue pupille ricontempleranno il cielo, il creato, tuo padre... e si fisseranno su me... Ahi! Come tremo in pensandovi! Oh! possa tu non guardare l’anima mia; possa tu non vedere altro che il mio cuore!
Se io fossi rimasto morto a Napoli, sotto i colpi dei sicari del Santoni, forse tu non avresti mai più riacquistata la vista ma non mi avresti odiato, siccome forse mi odierai quando... Oh no, Beatrice, se il tuo cuore non potrà sentire amore per me, se l’anima tua concepirà una invincibile ripugnanza per la mia persona, non hai che a dire una parola, una sola parola, e questa mia esecrata esistenza più non sarà che una funesta memoria della tua vita. Comanda, e l’uomo che avrà dischiusa la luce agli occhi tuoi s’immergerà da sè medesimo in quelle tenebre, da cui l’umana scienza non vale a trarre coloro che vi caggiono. Che le tue labbra si aprano, e per sempre taceranno quelle dell’infelice
Oliviero Blackman.»
Gaetano ripartì per Sorrento, divorando col pensiero il cammino. Egli aveva il giorno innanzi spedito a posta un messo per avvisar del suo arrivo il marchese Rionero.
All’una dopo mezzogiorno giungeva alla piazzetta della parrocchia di Sorrento.
Il marchese Rionero che gli era andato all’incontro lo accolse con le lagrime agli occhi, ed il baciò con effusione grandissima di cuore. Gaetano era pallido per dobolezza di convalescenza, e per l’estrema commozione che ci provava in quel momento...
Arrivati alla villa Rionero, e saliti in sul casino, trovaron Beatrice che stava immobile ad aspettarli sotto l’uscio del salotto di passaggio... Gaetano si slanciò a’ piedi di lei, e, senza profferir parola, covrì di baci la destra che ella porta gli avea.
Geltrude e tutt’i famigliari del Marchese aveano gli occhi bagnati di lagrime.
Questa volta Gaetano era vestito con la massima accuratezza, sì che una ben disegnata dirizzatura partiva dal sinistro lato i suoi capelli, i quali ei portava luoghi, poichè nutricava la chioma con cura grandissima, e sovente ravviavala per darle forma gentile e morbida.
Neppure una parola fu scambiata pel momento tra il marchese Rionero, Beatrice e Gaetano intorno ad Amedeo.
La sera passò nella più cara e confidenziale conversazione... Gaetano non era più tristo ed impensierito; la sua taciturnità pareva anzi aver ceduto il posto alla più cordiale espansione, benchè sulla fronte di Beatrice ei si studiasse di scovrire le tracce anche impercettibili di un sentimento, che ormai era tatto il suo avvenire, e verso il quale volava l’anima sua con l’ansia di un esule che scorge in lontananza i colli della sospirata patria.
Gaetano non avea pertanto dimenticato il cav. Amedeo. Alquanti giorni dopo del suo ritorno a Sorrento, egli chiese a Rionero il permesso di andare a Napoli per un giorno, imperocchè una sua faccenda ivi lo chiamava.
Tolto momentaneo commiato dal Marchese a da Beatrice, e partito di gran mattino da Sorrento, egli arrivava in Napoli verso le dieci, saltava in carrozza e si facea condurre al consueto Albergo delle Crocelle.
Rimase un paio di ore chiuso nella sua camera, occupato in chimiche preparazioni.
Verso mezzogiorno egli usciva, trando seco un domestico di piazza.
A piedi s’incamminarono entrambi alla volta della strada Nardones.