Atto IV

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Atto III Atto V

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ATTO QUARTO.

SCENA PRIMA.

Campagna con padiglioni.

Don Ximene a sedere presso di un padiglione. Papadir in piedi. Soldati all' intorno.
Camur e Zadir indietro, in mezzo ai carnefici, colle mani legate.

Papadir. Deh! per pietà, signore, quei poveri innocenti

Non soffrano più a lungo sì orribili tormenti.
Perchè le carni loro straziare a poco a poco?
Perchè adoprar con essi ferri, tanaglie e foco?
Signor, di carne umana qual voi sono impastati.
Fate sotto un acciaro morir quei sventurati.
D. Ximene. Olà, quest’importuno orator dei selvaggi
Soffra le pene anch’egli, che soffrono i malvaggi.
Reo di novelle insidie è pieno il popol empio.

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Sian le carneficine 1 ai perfidi d’esempio.

(le Guardie arrestano Papadir
Papadir. Ah dov’è don Alonso, che dell’Europa il nume
Fonte chiama di pace, fonte di bel costume?
O voi non conoscete l’Autor della natura,
O non temete il fulmine cui la sua man misura.
Ma gli Europei non credo dal nume abbandonati;
Credo che da per tutto vi siano i scellerati;
E che la sua giustizia, che il pentimento aspetta.
Agli animi indurati prepari una vendetta.
(vien condotto dalle Guardie vicino a Camur e a Zadir

SCENA II.

Don Alonso, Piccarino e detti.

D. Alonso. Olà, senza il mio cenno si fan tai sagrifizi?

Al consiglio di guerra s’aspettano i giudizi.
Di punire i colpevoli non ha il potere in mano
Don Ximene soltanto; non regna un capitano.
Si sospendan, ministri, le stragi, me 2 presente,
E si separi in prima il reo dall’innocente.
D. Ximene. In faccia alle milizie questo al mio grado è un torto.
Con viltà di me indegna l’ingiuria io non sopporto.
Perano quei ribaldi. Il mio voler l’impone.
Mancami di rispetto chi al cenno mio si oppone.
E il comando dell’armi, che a me pure è concesso.
Rivolgerò, se occorre, contro d’Alonso istesso.
E se pugnar sfuggiste meco da solo a solo,
Per noi dei guerrier nostri dividasi lo stuolo;
Vedasi chi di noi nel loro cuor prevaglia,
E le nostre contese decida una battaglia.
(Sfodera la spada, e nello siesso tempo si pongono in sua difesa i Guerrieri dalla sua parte, e fanno lo stesso quegli altri dalla parte di don Alonso.

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D. Alonso. Trattenetevi, amici; guerra fra voi non voglio.

E le nostre contese decida un regal foglio.
(fa vedere una carta
Giovine sconsigliato, no non sapete ancora
Qual potere è in mia mano; voi lo saprete or ora.
Ecco il regio sigillo. Guerrieri, il foglio udite,
E del vostro monarca agli ordini obbedite3.
Leggete ad alta voce. (a Piccarino
Piccarino.   “Il Re de’ Lusitani
“Signore di Guinea, d’Etiopi e Americani,
“Alle incognite terre gente spedendo4 armata,
“Ad Alonso e a Ximene l’impresa ha incaricata.
“D’ambi nel buon consiglio e nel valor fidando,
“Divise infra di loro l’autorità, il comando.
“Ma se fra i due discordia nasca in barbaro suolo,
“L’autorità divisa restringasi in un solo.
“Al capitano Alonso, di grado e età maggiore,
“Rendano le milizie obbedienza e onore.
“E allor che il regal foglio sia pubblicato e letto,
“Vogliamo a don Alonso l’esercito soggetto.
“È che a lui si obbedisca nostro volere espresso,
“Che rispettar si debba da don Ximene istesso,
“E al comando supremo alma non siavi ardita,
“Che di obbedir ricusi a costo della vita.
D. Ximene. Perchè tacer finora? perchè celar quel foglio?
D. Alonso. Per osservar fin dove giunger potea l’orgoglio.
Questa onorata impresa fu a me sol destinata;
lo fui che a mio cognato tal gloria ho procurata;
Ma per voi, dubitando d’avere indi a pentirmi.
Con quest’ordine regio saputo ho premunirmi.
Provvido fu il consiglio, ecco il tempo arrivato
Di togliermi dal fianco un seduttore ingrato.
Guerrieri, udiste il cenno, l’autorità divisa

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In me solo raccolta l’esercito ravvisa.

Don Ximene all’istante privato è del comando.
Rendasi prigioniero, e gli si tolga il brando.
D. Ximene. D’uopo non v’è che alcuno accostisi al mio fianco;
Se il monarca lo vuole, al mio dover non manco.
(getta la spada
Ma colui che ha carpito segretamente il foglio,
Renderà conto un giorno del temerario orgoglio.
D. Alonso. Sì, sfogatevi pure, non son tanto inumano
Di vendicar gl’insulti con chi si sfoga invano.
Olà! quei miserabili traggansi dal supplizio.
Godano fra catene di vita il benefizio.
Libero don Ximene, senza dell’armi usate.
Errar fra queste selve a suo piacer lasciate.
E voi che or vi vedete dalla vergogna oppresso,
Impiegate gli accenti a condannar voi stesso.
(A don Ximene, e parte seguito da una parte dei Soldati. Altri Soldati sciolgono le mani dei condannati e li accompagnano

SCENA IH.

Don Ximene, Camur, Zadir, Papadir e Soldati.

D. Ximene. Qual onta inaspettata! Ah don Alonso indegno!

Ei preveduto ha il colpo, e mi attendeva al segno.
Papadir. Signor, non ve lo dissi! un Nume evvi per tutti,
E della sua giustizia in voi ravviso i frutti. parte
D. Ximene. (Non so che dir; mi pungono i miei rimorsi in petto).
da sè
Zadir. Mirami; ancora io vivo, e vendicarmi aspetto.
(Questo ferro, a un carnefice caduto or or di mano,
Delle catene ad onta non ho raccolto invano).
(da sè, e parte
Camur. Tanti tormenti a un vecchio sul fin degli anni suoi?
Noi siamo irragionevoli? Siete una bestia voi. parte

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SCENA IV.

Don Ximene solo.

Misero me! in qual stato ritrovomi al presente?

Ah che il cuore avvilito le sue sventure or sente.
Che ho perduto in un punto? grado, ricchezza, onore;
Tutto ho sagrificato a un indiscreto amore.
Oh inganno! oh debolezza! or ti conosco appieno;
Ora da’ miei rimorsi ho lacerato il seno.
Quale amor per Delmira mi stimolava il cuore?
Dicolo a mia vergogna, un disonesto amore.
Sol per meglio tradirla mi offersi a lei marito,
E del mio tradimento m’hanno gli Dei punito.
Donn’Alba è mia nemica, fu don Alonso offeso:
In faccia alle milizie ridicolo son reso.
La prigionia, la morte è il più leggier timore;
Quel che più mi spaventa, è il perdere l’onore.
Che diran nel Brasile gli amici e gl’inimici?
Ah, che diran le oziose lingue mormoratrici?
La Corte, il Portogallo, l’Indie, l’Europa, il Mondo,
Che dirà di Ximene? Misero! io mi confondo.
Posso al rossor dar fine colla mia destra ardita.
Posso morir; ma vive l’onor dopo la vita.
E fra gli scorni e l’onte morir da disperato
Fa che resti il mio nome più ancor disonorato.
Deggio alla mia famiglia, deggio al sangue, al decoro
Degli avi miei la gloria ch’ereditai da loro.
Essi da me non chiedono le colpe vendicate,
Ma una virtù, che superi le debolezze andate.
Bella virtù, nell’anima scendimi a poco a poco,
Cedano i rei pensieri alla virtude il loco.
Impietosito il Cielo in mio favor s’impegni,
E un tal esempio agli uomini moderazione insegni.
parte

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SCENA V.

Camera.

Schichirat con una bottiglia di vino.

Or che nessun mi vede, posso finir di bere. beve

Il piacere del vino sorpassa ogni piacere.
La testa ho riscaldata; il sonno or ora viene;
Quando avrò ben bevuto, oh dormirò pur bene!
Benedetto il momento che qui siete arrivati.
Felici possessori dei vini delicati.
E vorrebbe Zadir che il loro capitano
Potessi a tradimento svenar colla mia mano?
Per sì dolce bevanda s’io possedessi il trono,
Tutto l’oro d’America vorrei dar loro in dono.
La vista agli Europei coll’oro si consola.
Io pascolo col vino il gusto della gola.
Nel bere quando posso, stan tutti i gusti miei,
E quanto più ne bevo, più ancor ne beverei. beve
Saldi, saldi, ch’è questo? par che balli il terreno.
No, no, son io che ballo coll’allegrezza in seno.
Pare che non ci veda. Eh, di veder non curo.
Se ho la bottiglia in mano, posso vuotarla al scuro. beve

SCENA VI.

Rosina e detto.

Rosina. Ecco qui Schichirat. Par briaco davvero.

Lascia pur; divertirmi con quella barba io spero.
Schichirat. Poco ancor me ne resta. (traballando
Rosina.   Amico, come va?
Schichirat. Va bene. beve
Rosina.   Mi rallegro; buon sangue e sanità.
Schichirat. Non lo dite a nessuno.
Rosina.   Ch’io parli non temete.

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Schichirat. Non so dove mi sia.

Rosina.   Cosa vuol dir?
Schichirat.   Bevete.
(le offre la bottiglia
Rosina. Oh, non bevo a quest’ora.
Schichirat.   Dunque beverò io. beve
Povero Schichirat, ma che destino è il mio!
Rosina. Cosa vi è succeduto?
Schichirat.   Per amor mio piangete.
Ho terminato il vino, e più di prima ho sete.
Rosina. Ne vorreste dell’altro?
Schichirat.   Io non direi di no.
Rosina. Tagliatevi la barba, ed io ve ne darò.
Schichirat. Ch’io mi tagli la barba? maledetto destino!
La mia povera barba cosa ha che far col vino?
Rosina. Io ve ne do un barile, se la donate a me.
Schichirat. Cosa vorreste farne?
Rosina.   Vo’ farmene un tuppè.
(gli tira la barba
Schichirat. No, corpo della luna, la barba io non vi do.
O lasciatela stare, o ch’io vi ammazzerò.
(tira fuori un ferro
Rosina. Come! un ferro nascosto? anderò ad accusarti.
Schichirat. Per levarti l’incomodo, vien qui, voglio ammazzarti.
(si avventa col ferro, e traballa
Rosina. (Costui mi fa paura). Schichirat, ho burlato.
Sai che ti son amica.
Schichirat.   Come! non ti ho ammazzato?
Rosina. Non mi vedi? son viva.
Schichirat.   Sei viva, ne ho piacere.
Via, facciamo la pace, e portami da bere.
Rosina. Or ora te ne porto. Ma di’, per qual cagione
Hai quel ferro nascosto?
Schichirat.   Ho una brutta intenzione.
Rosina. Vuoi ammazzar qualcuno?

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Schichirat.   Vorrei e non vorrei...

Rosina. Narrami.
Schichirat.   Ad una donna non dico i fatti miei.
Rosina. Che sì, che l’indovino?
Schichirat.   Se l’indovini, il dico.
Rosina. Della nostra nazione sei ancora inimico.
Schichirat. Io nemico di quelli che han sì preziosi vini?
No, no, per questa volta affé non l’indovini.
Alonso ha del buon vino, Alonso è un uom valente.
Vuol Zadir ch’io l’ammazzi? No, non farà niente.
Rosina. Dunque Zadir è quello che vuol d’Alonso il petto
Da Schichirat ferito?
Schichirat.   Come! chi te l’ha detto?
Rosina. Lo so; vedi s’io sono una brava indovina.
Schichirat. Vado a dormire: ho sonno. Buona notte, Rosina.
Rosina. Fermati, e già che vedi che tutto è a me palese,
Dimmi, come Zadir tal cosa a te richiese?
Schichirat. Te lo dirò; ma bada, non lo dir a nessuno.
Rosina. Non dubitar.
Schichirat.   Vien gente? (osserva intorno traballando
Rosina.   No, non si sente alcuno.
Schichirat. Mi ha chiamato Zadir... Camur era con lui.
Mi ha detto... me l’ha detto Zadir cogli occhi sui.
Io col vin nella mano... col vin nella bottiglia...
Sentito ho che dicevano: è mia sposa, è mia figlia.
Quello parla, ed io bevo, e bevo allegramente.
E il vino, quando à buono, mi piace estremamente.
(traballando mezzo insonnato
Rosina. Ma chi ti diè quel ferro?
Schichirat.   Il ferro... me l’ha dato...
Ed io con questo ferro mi sono ubbriacato.
Ma ho da ammazzare Alonso. Alonso poverino...
Ha da buttare il sangue come un boccal di vino.
Rosina. E averai tanto cuore?
Schichirat.   Se ho cor? innanzi notte

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Sarei anche capace di bevente una botte.

E sono un galantuomo; e se tu vuoi, scommetto
Di dormir sul terreno come s’io fossi in letto.
(si getta in terra
Rosina. (Non può reggersi in piedi). da sè
Schichirat.   Rosina.
Rosina.   Cosa vuoi?
Schichirat. Tu pur su questo letto accomodar ti puoi.
(addormentandosi
Rosina. Non farà gran fatica a dormir sul terreno.
Egli n’è già avvezzato. Si addormentasse almeno.
Schichirat. Dammi la mia bottiglia. (addormentandosi
Rosina.   Par mezzo addormentato.
Al vino don Alonso questa volta è obbligato.
Svelato è il tradimento, e il traditore ancora;
Vo’ andar del suo pericolo ad avvisarlo or ora.
Anzi vo’, se mi riesce, recargli il ferro istesso.
Schichirat è dal sonno profondamente oppresso.
Mi proverò. Si muove. Però non à svegliato.
Ecco il ferro, ecco il ferro: affé gliel’ho levato.
Abbialo don Alonso. Ma un bel pensier mi alletta:
Potrei, mentre egli dorme, tagliar quella barbetta.
E se poi si risveglia? cosa far mi potrà?
Se gli ho levato il ferro, non mi spaventerà.
Ho le forbici appunto... ma qui non istà bene;
In un sito più comodo farlo portar conviene.
Ehi amici, venite... costui bevuto ha un poco.
Con vien di qui levarlo, portarlo in altro loco.
(i Soldati portano via Schichirat addormentato
In prima don Alonso vadasi ad avvertire.
Poi torno, e gliela taglio, se credo di morire. parte

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SCENA VII.

Donn’Alba sola.

Poveri affetti miei, sì mal foste impiegati

Per un fellon che nutre tai sentimenti ingrati?
Scorso per rivederlo ho il mar fra le procelle,
E all’amor mio mercede contendono le stelle.
Posso del mondo in faccia mostrar di non curarlo,
Ma il cuor segretamente è costretto ad amarlo.
L’amo ancor quell’indegno da tante colpe oppresso?
L’amo macchiato in volto dal disonore istesso?
Ah sì, la mia passione tutti i confini eccede:
Ma non lo sappia il mondo che nel mio cor non vede.
E benché nel mio seno duri la piaga antica,
Vo’ che ciascun mi creda del traditor nemica.
Cieli! alla mia presenza osa venir l’audace?
Fuggasi; ah non ho core. Che dir vorrà il mendace?
S’ei dell’error pentito... ma tardo è il pentimento;
Coi rimproveri acerbi si accresca il suo tormento.

SCENA VIII.

Don Ximene e la suddetta.

D. Ximene. Donn’Alba...

Donn’Alba.   Questo nome non pronunciare5, ingrato.
D. Ximene. Deh se più non mi amate...
Donn’Alba.   Mai so d’averti amato.
D. Ximene. E pur nei primi giorni, degno del vostro amore...
Donn’Alba. Quando mai fosti degno d’incatenarmi il cuore?
D. Ximene. Allor che una passione cieca, violenta, ingrata,
Di viltà non aveva quest’anima macchiata.
Deh mirate, donn’Alba, mirate a voi dinante

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Coperto di rossore quest’umile sembiante.

E se dal Ciel punito per le mie colpe io sono,
Col pentimento in cuore posso sperar perdono.
Il Ciel non lo ritarda a chi sincero il chiede:
Usar questa pietade fra gli uomini si vede.
Del suddito le colpe perdona anche il sovrano,
Ed a voi sol perdono chieder io deggio invano?
Donn’Alba. Col Ciel non si misurano nostri terreni affetti.
Sempre pietoso è il Cielo, il Ciel non ha difetti.
Gli uomini la pietade usano a lor talento;
Il re può contentarsi talor di un pentimento.
Ma sia virtù o difetto quel che or mi rende altera,
Le voci non ascolto di un’alma menzognera.
E duolmi di non essere sovrana in questo lido
Per punir, come merita, un traditore infido.
D. Ximene. Sovrana esser potete di me, della mia sorte.
Sta in vostra man, donn’Alba, la vita e la mia morte.
Spiegato ha don Alonso contro di me un arcano;
Può la sorella il cuore piegare di un germano.
E puote in grazia vostra questo german placato
Rendermi quell’onore, di cui privommi irato.
Donn’Alba. Perfido! ti conosco. Dinanzi al mio cospetto
È il timor che ti guida, non amor, non rispetto.
Grazia in tempo mi chiedi che per rossor ti affanni.
Ma se la grazia speri, col tuo sperar t’inganni.
Rimproverar piuttosto saprò il germano istesso,
D’aver men ch’egli merita, un traditore oppresso.
E se verran mie voci di don Alonso al cuore,
Farò che nel punirti accresca il suo rigore.
D. Ximene. Come nutrire in petto può mai tanta fierezza
Donna che porta in volto l’idea della dolcezza?
Come mai quei begli occhi, dove l’amor risiede,
Posson negar pietade a chi pietà lor chiede?
Ah sì, quella virtude che il mondo in voi decanta,
Di sollevar gli afflitti, di perdonar si vanta.

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Se innanzi a voi qual sposo venire or non mi lice.

Spero se non l’amante, trovar la protettrice.
Ecco quel don Ximene cui deste un dì la fede.
Eccolo supplicante prostrato al vostro piede.
No, viltà non mi sprona a un simile tributo:
Ma di rispetto un segno al vostro cuor dovuto.
Donn’Alba. (Che bel vedersi ai piedi un mancator pentito!)
D. Ximene. Non vi basta il vedermi dal mio rossor punito?
Donn’Alba. Hai rossor nel mirarti dinanzi ai piedi miei?
D. Ximene. No, per placar quel core, bella, che non farei?
Donn’Alba. Alzati.
D. Ximene.   Di perdono datemi prima un segno.
Donn’Alba. Alzati.
D. Ximene.   Vi obbedisco.
Donn’Alba.   Sei di perdono indegno.
D. Ximene. Morto voi mi volete.
Donn’Alba.   Sì, la tua morte io bramo.
D. Ximene. (Pure ancor mi lusingo).
Donn’Alba.   (A mio dispetto io l’amo).

SCENA IX.

Don Alonso, Guardie e detti.

D. Alonso. Che fate voi, germana, di un inimico al fianco?

Donn’Alba. Pensate al dover vostro. Io al mio dover non manco.
Delle ingiurie a me fatte so meditar vendetta;
Delle pubbliche colpe punirlo a voi si aspetta.
D. Ximene. L’odio del vostro cuore al mio morir s’estende.
Donn’Alba. Sì, l’odio mio è implacabile. (Ma il cuor mio lo difende).
D. Alonso. Usai del mio potere per raffrenar l’orgoglio.
Del destin di Ximene solo arbitrar non voglio.
Nave è già preparata non lungi a queste arene,
Al Brasile condotto sarà fra le catene;
E il viceré che giudica nel suolo Americano,
Farà nel condannarlo le veci del sovrano.

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D. Ximene. (Misero me!)

Donn’Alba.   (Si perde, s’è nel Brasile inviato).
Come! a voi di punirlo non fu il poter già dato?
Nell’incognita terra voi potestà simile
Avete a quel che giudica nell’Indie e nel Brasile;
Voi premiar, voi punire, voi condannar potete.
Arbitro di Ximene, come degli altri or siete.
Non offese voi solo quei seduttore ingrato:
Coi neri tradimenti ha l’onor mio macchiato.
Nè soffrirò ch’ei vada, fra tante colpe involto,
Lungi da noi per essere in altra parte assolto.
Pensateci, germano. Qui dee restar l’ardito,
E sotto gli occhi nostri dev’essere punito.
D. Alonso. Tanto con chi vi piacque inferocir potete?
Donn’Alba. L’indole del mio cuore ancor non conoscete.
D. Alonso. Parta la nave, e resti fra di noi don Ximene. (ai Soldati
Donn’Alba. Sì, fra noi restando, pongasi alle catene.
D. Ximene. Barbara! a questo segno in voi l’odio s’aumenta?
Non bastan le mie suppliche, non basta ch’io mi penta?
L’essermi a’ piedi vostri con mio rossor gittato
Non bastò il vostro cuore a rendere placato?
Mi resero finora reo le mie colpe, è vero:
Colpevole voi pure rende l’orgoglio altero.
Voi perdonar negate, or che pentito io sono,
Io l’ingiurie sopporto, v’adoro, e vi perdono, parte

SCENA X.

Donn’Alba e Don Alonso.

D. Alonso. Seguitelo, soldati.

Donn’Alba.   No, di lor non mi fido.
Io stessa in queste selve vo’ custodir l’infido.
Gente ho meco capace per arrestarlo ancora:
Invan quel menzognero fede a’ suoi detti implora.
Dee maturar la pena dovuta a un traditore.
(Felice lui, se avesse a giudicarla il cuore). parte

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SCENA XI.

Don Alonso, poi Delmira.

D. Alonso. Eppur cotanto sdegno parmi equivoco in lei.

Conosco mia germana, fondati ho i dubbi miei.
Lo so che a due passioni soggetto è il di lei core;
L’ambizion la trasporta, e la trasporta amore;
E parmi di vedere pugnar nel di lei petto
Col più tenace orgoglio il più cocente affetto.
Delmira. Signor, nuovo dovere a voi mi porta innante,
Carca di nuovi doni, carca di grazie tante.
Quei miseri infelici per voi vivono ancora.
Grazie per me vi rendono; meco ciascun vi onora.
E pregano quel Nume che da per tutto impera,
Che vi conceda al mondo felicitade intera.
D. Alonso. Piacemi il lieto augurio che vien dal labbro vostro,
Ma tal felicitade non vi è nel secol nostro.
Per l’onor, per la gloria sudare a noi conviene,
Ed assaggiare in vita misto col male il bene.
Quello che mi potrebbe render contento al mondo,
Di voi sarebbe un sguardo all’amor mio secondo.
Darei per possedervi, darei la vita istessa;
Ma non è tal fortuna all’amor mio concessa.
Delmira. Deh non mi tormentate. Conosco il mio dovere.
Confesserò più ancora: vi amerei con piacere.
Ma l’onestade insegna, ma il mio dover richiede,
Ch’io serbi ad ogni costo al sposo mio la fede.
Nell’ordin di natura è un perfido delitto
Le barbare afflizioni accrescere all’afflitto.
Quest’unica speranza all’infelice or resta,
Nè vo’ fra tanti mali privarlo anche di questa.
D. Alonso. No, Delmira, non sdegno che altrui siate amorosa,
Ma con me non dovreste essere men pietosa.
Per mio conforto almeno da voi sapere aspetto,
Se in libertà trovandovi, mi niegherete affetto.

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Delmira. Come potrei negarlo a chi cortese è meco?

Non è il mio cuor sì barbaro, non è il mio amor sì cieco.
Se il padre mio l’accorda, se Zadir l’acconsente,
Voi del mio cuor potete dispor liberamente.
D. Alonso. Vediam, se penetrati da’ benefìzi e doni,
Avran cuor di negarmi le mie consolazioni.
Confessano la vita dono di mia pietà:
Ora per cenno mio godran la libertà.
Se aman le selve loro, potran goderne in pace,
Miglioreran destino, se altro destin lor piace.
Camur, finché natura prolunga i giorni suoi,
Se vuo] goder la figlia, vivrà presso di voi.
Zadir mi sarà amico; render potrà felici
Nella sua patria ei stesso i congiunti e gli amici.
Altro da lor non chiedo, per premio al mio favore,
Che la man di Delmira, che di Delmira il cuore.
Venga Zadir, si ascolti. Venga Camur anch’esso.
Avrò coraggio in petto per superar me stesso.
Olàl

SCENA XII.

Rosina, Piccarino e detti.

D. Alonso.   Voi che volete? (a Rosina

Rosina.   Signore, ho da narrarvi
Cosa d’alta importanza; ma sola i’ vo’ parlarvi.
D. Alonso. Attendete (a Rosina): sian tosto dai ceppi liberati
E Camur e Zadir, e in libertà lasciati. (a Piccarino
Niuno ardisca insultarli...
Rosina.   Signor, che cosa fate?
Prima di liberarli...
D. Alonso. (A Rosina) In ciò come c’entrate?
Rosina. C’entro, perchè mi preme la vostra vita assai;
Vi ho cercato finora, e a tempo or vi trovai.

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Quello che volea dirvi fra noi segretamente,

Ora senza riguardi dirò liberamente.
Quel Zadir che poc’anzi da morte fu salvato.
La vita per mercede di togliervi ha tentato.
Un certo Schichirat, sendo dal vino oppresso,
Esecutor del colpo si svelò da se stesso.
E questo acuto ferro che ho a Schichirat levato,
Fu a lui per trucidarvi da Zadir consegnato.
(dà il ferro a don Alonso
Delmira. (Ah traditor!)
D. Alonso.   Delmira, ecco l’onesto amante,
A cui l’onor v’impegna ad essere costante.
Restino fra catene. Sia Schichirat legato,
E sia fra brevi istanti l’esercito schierato.
Vengano i rei condotti dinanzi al mio cospetto:
A esercitar giustizia son dal dover costretto.
Delmira, se le colpe in voi destano orrore,
Questo ferro prendete; questo vi parli al cuore. parte

SCENA XIII.

Delmira, Piccarino, Rosina.

Piccarino. Codesto Schichirat si sa dove dimora?

Rosina. Nel boschetto vicino credo ch’ei dorma ancora.
Se volete distinguerlo con qualche fondamento,
È l’unico selvaggio senza la barba al mento.
Piccarino. Senza barba un selvaggio? La cosa è inusitata.
Rosina. L’aveva il poverino, ma io gliel’ho tagliata,
intanto ch’ei dormiva, mi divertii così.
E se non lo credete, la barba eccola qui.
(fa vedere la barba di Schichirat, e parte
Piccarino. Il povero selvaggio la barba più non ha.
Le donne per pelare han grande abilità. parte

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SCENA XIV.

Delmira sola.

Misera me! che intesi? Zadir è traditore?

Di tal delitto a parte che sia il mio genitore?
No che non è mio padre ribaldo a questo segno;
Sol Zadir è capace di un tradimento indegno.
Ed io con tanto zelo la fede ho a lui serbata.
Ho difeso, ho protetto un’anima sì ingrata?
Io feci il mio dovere; no, di ciò non mi pento;
Ma indegno del mio cuore lo rende un tradimento.
Questo ferro inumano sprezza, mi dice, un empio;
Fosti finora indarno di fedeltade esempio.
Ama, mi dice il cuore, chi merta essere amato;
Ama l’eroe pietoso che di virtude è ornato.
Ma del mio cuor la voce troppo è a ragion sospetta.
Confondere pavento l’amore e la vendetta.
Tanto de’ miei consigli presumere non voglio.
Sicché a temer non abbia del femminile orgoglio.
Penso, temo, vaneggio; ferro, che dir mi vuoi?
Che mi dicesti, Alonso, coi rimproveri tuoi?
No, consiglier sospetti, no no, più non vi ascolto.
Voglio ascoltare il padre, vo’ rimirarlo in volto.
Non mi abbandono in braccio di una passion tiranna;
Anche il cuore medesimo coi suoi consigli inganna.
Ma chi per la virtude serba costante il zelo,
Se lo tradisce il mondo, non l’abbandona il Cielo.
parte


Fine dell’Alto Quarto.


Note

  1. Ed. Pitteri: carnificine.
  2. Così l’ed. Pitteri. Nell’ed. Zitta: a me.
  3. Nell’ed. Zatta e nella rist. torinese leggesi: obbedite, e così obbedienza ecc.
  4. Ed. Pittori: spedindo.
  5. Ed. Pitteri: prononciare.