Atto V

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Atto IV Nota storica

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ATTO QUINTO.

SCENA PRIMA.

Boschetto.

Schichirat sdraiato sopra una massa di terreno, che dorme

.

Si sveglia a poco a poco, si alza; cerca la bottiglia. Si avanza strofinandosi gli occhi; poi vuole toccarsi la barba, e non la trova. Fa qualche atto d'ammirazione; poi torna a cercarsi la barba, e principia a ragionare da sè.
Come! oimè! la mia barba! Dormo, o son io svegliato?

Che sia un sogno? o davvero, che mi abbiano sbarbato?
Io cammino, io parlo; le man, la testa io movo:
Dunque non dormo, eppure la barba io non ritrovo.
Povera la mia barba! dove sarai tu andata?
Ah Rosa maladetta, tu me l’avrai tagliata.

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Mi addormentai sì forte, di quel buon vin ripieno...

Ma! chi mi ha qui condotto a dormir sul terreno?
Io so che allora quando l’ultimo vin bevea,
Stava in luogo serrato, coperto all’europea.
Mi sdraiai sulle tavole, non sul terren bagnato.
Questo senz’altro è un sogno. Io sono addormentato.
Seguitiamo a dormire. Quando mi sveglierò,
Spero che la mia barba al mento io troverò.
Ma quando che si dorme, ragionasi così?
Sì, la notte si sogna quel ch’è passato il dì.
Ma non siamo di notte; veggo cogli occhi il sole,
Alzo la voce e sento il suon delle parole.
Veggo l’erbe e le piante, conosco ove mi trovo;
Dunque non dormo; eppure la barba io non ritrovo.
Barba mia, ti ho perduto. Ah che arrossirmi io sento!
Dovrò farmi vedere senza la barba al mento?
I nostri Americani di ciò cosa diranno?
Le donne insolentissime di me si burleranno.
Schichirat senza barba! Ma che disgrazia è questa?
Prima che senza barba, ah foss’io senza testa!
Sui monti infra le selve nascondermi vogl’io.
Più non mi vegga alcuno. Mondo, per sempre addio:
Addio, vin preziosissimo; perduto il caro pegno.
Con questa macchia in volto sono di bere indegno.
Ma se di tal bevanda mi ha il mio destin privato,
Acqua non vo’ più bevere, vo’ morir assetato.
Ah, innanzi di morire colei trovassi almeno
Che mi tolse la barba! Vorrei ferirle il seno.
Sì, sì, con questo ferro... Ma dove il ferro è andato?
Ah strega maledetta! questo ancor mi ha levato.
Ma colle man, colle ugne irato e furibondo...
Ah! che di qua vien gente; oimè, dove m’ascondo?
Dalla vergona estrema inorridir mi sento:
Procurerò alla meglio di ricoprire il mento.
(Straccia un pezzo del suo farsetto di pelle, e si copre il mento

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SCENA II.

Piccarino con Soldati, ed il suddetto.

Piccarino. Chi sei tu che la faccia di mascherar procura?

Schichirat. Sono un uomo dabbene.
Piccarino.   S’è ver, di che hai paura?
Scopriti.
Schichirat.   No, vi prego, siate meco indulgente.
Ho una flussione in bocca, e mi fa male un dente.
Piccarino. Arrestatelo, amici, e a forza ei sia scoperto.
Schichirat. Mandatemi a morire, ma col viso coperto.
Piccarino. Scoprasi immantinente. (i Soldati lo scoprono
Schichirat.   Ah maladetti!
(cerca di nascondere la faccia
Piccarino.   Indegno!
Tu sei quel ch’io ricerco; ti ho conosciuto al segno.
Guidisi al capitano il traditor legato.
Schichirat. Io traditor?
Piccarino.   T’accheta, selvatico sbarbato.
Schichirat. Ah cane! a me sbarbato? Dimmi quel che tu vuoi,
Dimmi tutte le ingiurie che immaginar ti puoi.
Dimmi ribalbo, indegno, traditor, scellerato,
Ladro, infame, briccone; ma non mi dir sbarbato.
Piccarino. Se tu avessi la barba, tal non ti chiamerei.
Schichirat. Ah Rosa disgraziata! Rosa, Rosa, ove sei?

SCENA III.

Rosina e detti.

Rosina. Eccomi, chi mi chiama?

Schichirat.   Per carità, lasciatemi
(si sforza di sciogliersi
Per un momento solo, poi subito ammazzatemi.
Rosina. Ehi, tenetelo forte. (con paura

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Piccarino.   Conducetelo altrove.

Schichirat. Perchè su quella testa un fulmine non piove?
Che non s’apre la terra, e alla presenza mia
Il diavol non la porta dei mostri in compagnia?
Fiere di queste selve, orsi, venite fuore,
Venite a divorare di quell’indegna il cuore.
E coll’ugne e coi denti tanti colpi crudeli
Fatele, quanti furo della mia barba i peli.
(parte col Soldati

SCENA IV.

Rosina e Piccarino.

Rosina. Affé, mi vien da ridere.

Piccarino.   Al povero selvaggio
Levandogli la barba, faceste un grande oltraggio.
Vedendosi sbarbato ei n’ebbe tal dispetto,
Come se ad una donna levassero il belletto.
È ver che colla mano torna il bel che si perde.
Ma spiace che si veda sotto del rosso il verde. parte

SCENA V.

Rosina sola.

Oh gli par di aver detto una bella sentenza!

S’ingrassano questi uomini a dirci un’insolenza.
Povero sciagurato! un poco di belletto,
Dato senza malizia, non è sì gran difetto.
Lo so ancor io che un volto vermiglio per natura
Val più di quel che ad arte corregger si procura.
Ma poche sono quelle ch’han sì bella fortuna;
Perciò suole ingegnarsi la pallida e la bruna.
Cosa è meglio? vedere un rosso artifiziale,

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Fatto con buona grazia, o un verde naturale?

Il brutto è sempre brutto; sia il sangue, o sia il pennello,
Quel che dipinge un volto, quando par bello, è bello.

SCENA VI.

Campagna con padiglioni.

Don Alonso da una parte coi Soldati Portoghesi che a suono di tamburo si mettono in ordinanza. Dall' altra parte Camur, Zadir, Papadir, con altri Selvaggi incatenati.

D. Alonso. Popoli Americani, uditemi, e tremate.

Contro il vostro destino vano è il furor che usate.
Noi non venimmo armati per il desio malvaggio
Di seminar le stragi fra il popolo selvaggio.
L’unica nostra cura è sol quella ricchezza
Che le miniere asconde, e che da voi si sprezza.
La libertà, la vita, a voi non fu contesa,
Ma sol le insidie vostre ci armano alla difesa.
Posto da noi soltanto sul terren vostro il piede,
Ai nostri danni accinto il popolo si vede.
Pace a voi si protesta. Odio da voi si mostra.
Fra di noi si combatte, e la vittoria è nostra.
Potea dell’armi il dritto rendervi schiavi e oppressi;
Voi libertade aveste dai vincitori istessi.
Ma le catene appena vi trassero dal piede,
Al benefìzio ingrati mancaste a noi di fede.
Alla pugna insidiosa barbaramente accinti,
Dal valor di nostr’armi foste fugati e vinti.
E quei che sopravvissero al militar conflitto,
Ebber novel perdono di fellonia al delitto.
Dicalo chi di voi, a morte condannato,
Fu dalla mia pietade assolto e liberato.
Dicalo quell’indegno che ancor per me respira,
E in ricompensa il perfido alla mia morte aspira.

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Se al dritto di natura quivi il furor si oppone,

Giust’è che si punisca sì barbara nazione.
Abbiano i men colpevoli dure catene in sorte,
E i traditori indegni sian condannati a morte.
Papadir. Ah signor, perchè mai coi miseri innocenti
Confondere vi piace gl’ingrati e i delinquenti?
Deh! con chi non vi offese, placido il cuor si mostri;
Sol di colpe fecondi non sono i terren nostri.
Credete a chi può dirlo; fra queste selve ancora
La pietà si conosce e la virtù si onora.
D. Alonso. Che pietà? che virtude? Perfidi tutti siete,
E agli animi ribaldi degna mercede avrete.

SCENA VII.

Delmira e detti.

Delmira. Signor, se perir deve tutta la patria mia,

Salva Delmira ancora di tal rigor non sia.
E se la pietà vostra meco è la stessa ancora.
Prove di tal pietade la mia innocenza implora.
Tutti siam rei, signore? di tutti il cuore è ingrato?
Ditemi di qual colpa è il seno mio macchiato?
E s’io sono innocente, perchè fra tanti e tanti
Non vi sarà del pari chi dell’onor si vanti?
E voi, senza distinguere il reo dall’innocente,
Volete una nazione trattar barbaramente?
Papadir che vi parla, pien di onestade ha il cuore;
Scarso d’ogni virtute non è il mio genitore.
E fra tant’infelici, più assai che delinquenti,
Signor, ve lo protesto, vi son degl’innocenti.
D. Alonso. Delmira, fra coloro che innocenti vantate,
Dite, perchè Zadir ancor non nominate?
Delmira. In favor della patria solo pregar mi lice;
Contro di chi vi offese, non fo l’accusatrice.

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Chi è reo, pensi a se stesso. Voi giudicar sapete.

Basta che l’innocente col reo non confondete.
Zadir. Ah perfida, t’intendo. Colle tue voci accorte
Sollecitare intendi sol di Zadir la morte.
Temi il rossore, ingrata, di rimirarmi in volto,
Or che il tuo cuore infido dalla catena è sciolto.
Sì, morrò, traditrice: sarai contenta appieno;
Ma proverai la pena de’ tuoi rimorsi in seno.
Delmira. No, crude), nel mio petto rimorsi io non pavento.
Fida ti fui pur troppo, ed arrossirmi or sento.
Fida io fui a un ingrato che la giustizia offende.
Che onestà non conosce, che virtù non intende.
Ma del mio cuor la fede a te non ho serbata;
La riserbai al padre, e al Ciel che mi ha legata.
Ed or che un tradimento deturpa il tuo costume,
O che mi sciolga il padre, o che mi sciolga il Nume.
Zadir. Di qual colpa mi accusi? Qual tradimento è questo.
Onde vai mendicando di perdermi il pretesto?
D. Alonso. Olà, qui si conduca colui che fu arrestato. (alle Guardie
Camur. Zadir, di tradimento il tuo cuor è macchiato?
Zadir. (Stelle! da Schichirat fossi stat’io’ tradito!)
D. Alonso. Venga il complice indegno ad ismentir l’ardito.

SCENA VIII.

Schichirat in catene fra le Guardie, e detti.

Schichirat. Ah signor, la mia barba...

D. Alonso.   Parla, e narra qual sia
Quel che il ferro a te diede.
Schichirat.   Voglio la barba mia.
D. Alonso. O chi ti diede il ferro, pubblica in chiari accenti,
O parlerai costretto fra orribili tormenti.
Schichirat. Di qual ferro si parla?
Delmira.   Di questo, scellerato.
(gli mostra il ferro

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Schichirat. Questo?

D. Alonso.   Lo riconosci?
Schichirat.   Da Zadir mi fu dato.
D. Alonso. Per qual ragion?
Zadir.   T’accheta. D’uopo non vi è di lui.
Dirà Zadir istesso tutti i disegni sui.
Sì, ti volea svenato, perfido rapitore,
Che della mia tiranna mi seducesti il cuore.
D. Alonso. Dopo che dalla morte ti ho liberato io stesso,
Fosti capace, indegno, di un così nero eccesso?
Zadir. Tu mi facesti un dono molto minor del torto;
A costo della vita un’onta io non sopporto.
Ordina il mio supplizio. Si ha da morir? Si mora.
Ma tornerei potendo a far lo stesso ancora.
D. Alonso. Va a sostener l’ardire del carnefice in faccia;
Puniscasi in un tempo l’ardire e la minaccia.
Ai delinquenti appresso traggasi quest’indegno.
(accenna Schichirat
Contro quegl’infedeli si adoperi lo sdegno.
Altri agli alberi appesi, altri cadan svenati,
Altri fian dalle rupi nel mar precipitati.
Delmira. Pietà, pietà, signore. (s‘ inginocchia
Papadir.   Pietà del sangue nostro.
(Tutti i Selvaggi si gettano colla faccia per terra, eccettuato
Zadir.

Zadir. Vili, Zadir non degna seguir l’esempio vostro.
D. Alonso. (Qual spettacolo è questo novello agli occhi miri?
Non dicano i selvaggi crudeli agli Europei).
Alzati, amabil donna, sì, che pietoso io sono.
(aiuta Delmira ad alzarti
Sorgete, Americani, vi assolvo e vi perdono, (tutti si alzano
A Zadir, che superbo alla ragion non cede,
Prima d’ogni altro i ferri si traggano dal piede.
Veggasi il presontuoso errar libero e sciolto.
Con questa macchia indegna di traditore in volto.

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Ed ognun che l’incontra fra selve e fra pastori,

La fellonia detesti e mia pietade onori.
Zadir. Ah tu trovasti il modo di rendermi avvilito.
Dovrò per traditore esser mostrato a dito?
Rinfacciar mi potranno i popoli Europei,
Che i selvaggi soltanto di crudeltà son rei?
Non è ver, la virtude regna fra noi non meno;
Finor sdegno protervo me la estirpò dal seno.
Non mi ritorna il lume della ragion smarrito
Il timor della morte; son per rossor pentito.
Di tua pietà due volte fu la mia vita un dono.
Di tal esempio in faccia so che un ingrato io sono.
E per potere appieno ricompensar tuoi doni,
Sopra il cor di Delmira cedo a te le ragioni.
Amala pur, sia tua1 che di tal sorte è degna.
La tua virtude, Alonso, ad emularti insegna.
D. Alonso. Zadir, ti compatisco. Sì amabile beltate
Di un cuore innamorato scusa le colpe andate.
Quelle ragioni accetto che tu mi cedi in lei.
Vieni al mio sen, Delmira, che cosa mia tu sei.
Delmira. Ah no, signor, non basta ch’ei vi ceda il mio core.
Se mi rinunzia un sposo, comanda un genitore.
Camur. Figlia, mia cara figlia, credi me sì inumano.
Che porgere ti vieti ad un eroe la mano?
Ah sì, chiaro si vede da un così bel costume.
Che gli Europei conoscono della clemenza il nume.
Sposati a don Alonso; sia di tal nodo il frutto
Rendere il popol nostro colle sue leggi istrutto.
E se finora il sole da noi fu venerato,
A venerar c’insegni quello che ha il sol formato.
D. Alonso. Popoli fortunati, il dolce incarco accetto.
Figli tutti vi chiamo col più sincero affetto.
E tu, bella Delmira, cui dir mia sposa or godo.
Stringi dei nostri cuori colla tua mano il nodo.

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SCENA ULTIMA.

Donn’Alba, Don Ximene e detti.

Donn’Alba. Come, german, l’amore può avvilirvi a tal segno

Di stringere la mano con un legame indegno?
L’onor degli avi nostri...
D. Alonso.   Degli avi allo splendore
La virtù di Delmira può accrescere l’onore.
Degna è l’onesta donna di possedere un soglio:
Val più la sua umiltade di un forsennato orgoglio.
Ella è mia sposa, e voi, se mal ciò tollerate.
Ite donde veniste, ed al Brasil tornate.
Donn’Alba. A me cotale insulto? So quel che mi si aspetta.
Son donna, e son capace di fare una vendetta.
Ecco quel don Ximene che a voi reso è nemico.
Udite, don Alonso, in faccia io ve lo dico:
Se il vostro cuore invaso non cambia i pensier sui,
Dinanzi agli occhi vostri porgo la mano a lui.
D. Alonso. Questa minaccia orribile, germana, ho preveduta.
L’idea del vostro sdegno fu da me conosciuta.
Per vendicar gl’insulti voi minacciate un nodo,
E il vostro cuor desidera ch’io gliene porga il modo.
Nemico a don Ximene per le sue colpe io sono,
Ma fonte è un sì bel giorno di grazie e di perdono.
Ritorni don Ximene al grado suo primiero,
Purché sposi donn’Alba, e non sia meco altero.
D. Ximene. Tale è il mio pentimento, che se da voi si chiede,
Gettarmi non ricuso dinanzi al vostro piede.
D. Alonso. No, da voi non pretendo vedervi umiliato:
Voglio che voi mi siate socio, amico e cognato.
D. Ximene. Donn’Alba, il vostro cuore può rendermi felice.
Donn’Alba. Sì, dalla mia pietade meno sperar non lice.
So che da me dipende l’onor di un capitano.
Per rendervi l’onore, a voi porgo la mano.

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Ma perchè una selvaggia nelle follie passate

Voi ricader non faccia, meco al Brasil tornate.
Delmira. Tacqui finora attenta del vostro labbro ai detti,
Ed ammirai lo studio di mascherar gli affetti.
Perdonate, signora, la semplice richiesta:
Nelle donne d’Europa virtù chiamasi questa?
Se il fingere è virtude, le povere selvaggie
Giustamente da voi si credono men saggie.
Donn’Alba. Rispondervi non degno.
D. Alonso.   Delmira, a me volgete
Quelle luci serene, la destra omai porgete.
Delmira. Ecco a voi la mia destra, e colla destra il core.
Il ciel di me dispone, dispone il genitore;
E francamente io posso svelar quel dolce affetto,
Che la vostra bontade nascer mi fece in petto.
Senza che avesse il padre il nodo mio voluto,
Senza che da Zadir fosse il mio cuor ceduto,
Morta sarei piuttosto, che altrui dar la mia fede.
Chiesi tal dono al Cielo, e il Ciel me lo concede.
Non paventi donn’Alba, ch’altri d’amar presuma;
Fra noi più di un oggetto amar non si accostuma.
Poche virtù si apprendono fra queste selve, è vero:
Quel che da noi si stima, è l’essere sincero.
E la natura istessa in noi detta il costume
Di venerar con zelo dell’onestade il nume.
Voi che finor mi udiste, gente discreta e saggia,
Compatite gli errori di femmina selvaggia.
E il titolo di bella, che mal mi si conviene,
Donatelo al poeta, donatelo alle scene.
Titolo è a me gradito, e sospirato ogni ora,
Di serva riverente a chi mi soffre e onora.


Fine della Commedia.


Note

  1. Ristampa torinese e Zatta: Amala, che sia tua.