La bella selvaggia/Atto III

Atto III

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Atto II Atto IV

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ATTO TERZO.

SCENA PRIMA.

Campagna.

Vengono i Selvaggi confusamente armati con dardi, aste, tronchi d’alberi. battuti e respinti dagli Europei armati di spade. Segue in scena combattimento, e finalmente i Selvaggi prendono la fuga, e gli Europei gl’inseguiscono.

SCENA II.

Delmira e Camur.

Camur. Ah! che i fati congiurano contro la patria nostra.

Il Nume ci abbandona, nemico a noi si mostra.
Par che si unisca il Cielo col desio degli estrani;
Oppressi ed avviliti si son gli Americani.
Ma se invan si resiste dei perfidi al furore,
Figlia, in ogni cimento difendasi l’onore.

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Delmira. Padre, perchè t’arresti? perchè del tuo disegno

Colla fuga non segui il meditato impegno?
Or più che mai sdegnati contro di noi saranno
Gli Europei sopraffatti dal sfortunato inganno.
Camur. Tutte le vie son chiuse dall’armi al nostro scampo.
Preveggo in ogni parte un periglioso inciampo.
Zadir la via del bosco ad esplorare ho inviato.
Delmira. Ecco Zadir che torna.
Camur.   Sollecito è tornato.

SCENA III.

Zadir e detti.

Zadir. Perduta è ogni speranza. Il bosco, il monte, il piano

Occupato è dall’armi, strada si cerca invano.
Sparso di nostra gente scorre per tutto il sangue;
Chi spirò sotto il colpo, chi è semivivo, esangue,
Chi sul terren disteso, ferito e calpestato,
Odesi negli estremi morir da disperato.
Chiedeva un moribondo agl’inimici aita,
Io lo aiutai col dardo a terminar la vita.
E fra l’orrida mischia ancor non terminata,
Per riveder Delmira mia vita ho risparmiata.
Camur. Eccola a te fedele.
Zadir.   Ah che a momenti aspetto
Vedermela dagli empi ritorre a mio dispetto.
E i vincitori arditi, per trionfare appieno,
Macchiar sugli occhi nostri procureran quel seno.
Delmira. Ah Zadir, mal conosci qual sia quest’alma forte;
Per l’onor mio son pronta strazi 1 soffrire e morte.
Camur. Della fè di mia figlia il dubitar non giova.
Zadir. Della fè di tua figlia su via facciasi prova.
Di prevenir le insidie tempo le resta ancora.

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S’è dell’onor gelosa, fugga il periglio e mora.

Camur, padre le sei. Diede in tua man la sorte
L’arbitrio di sua vita, l’arbitrio di sua morte.
Quell’onorato impegno che l’anima ti accende,
Da te, da tua virtude, questo gran colpo attende.
Se del nemico in braccio fia Delmira tornata,
La figlia è mal difesa, la donna è svergognata.
Ecco il fatal momento che il tuo coraggio onora.
(porge il dardo a Camur che lo piglia
Questo mio dardo impugna, apri quel seno, e mora.
Delmira. Qual barbara mercede alla costanza, o Dei!
Zadir. Non trattenere il colpo, non confidare in lei.
Mira il pallor nascente in quella ingrata in faccia.
Ah! quel timido ciglio l’accusa e la rinfaccia.
E tu, se non consenti al fin de’ giorni suoi,
Dovrai, anima vile, soffrire i scorni tuoi.
Camur. Ah pria che dal mio sangue soffra l’indegno oltraggio,
Taccia in me la natura, s’accenda il mio coraggio.
Figlia, all’onor si cerca scampo migliore invano.
Pria di morir fra gli empi, morir dei per mia mano.
Delmira. Sì, genitor, la vita tu mi donasti un giorno,
A te senza lagnarmi questo tuo don ritorno.
La figliale obbedienza, l’umile mio rispetto
Mi anima ad offerire alle ferite il petto.
Camur. Oimè! qual per le membra gelido orror mi scorre?
Manca al braccio la forza. Oh Dei! chi mi soccorre?
Tenero amor di padre, tu mi avvilisci il core.
Umanità infelice, t’intendo a mio rossore.
Quell’umile sembiante in faccia al suo periglio
M’intenerisce il cuore, m’inumidisce il ciglio.
Zadir. Qual viltà vergognosa, Camur, ti occupa il seno?
Nell’onorato impegno il tuo valor vien meno?
Sarai fra queste selve il primier genitore
Che di sua man trafitto abbia di figlia il cuore?
Sai che la patria nostra per legge e per costume

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Suole i parti innocenti sagrificare al Nume;

Sai pur che dalla fame nel crudo verno oppressi,
Svenan talora i padri i loro figli istessi.
E tu che per la gloria versar devi quel sangue,
Puoi cimentar l’onore pria di vederla esangue?
Torna, torna in te stesso, ripiglia il tuo valore.
Camur. Prendi, Zadir; la svena. Di farlo io non ho core.
(rende il dardo a Zadir
Zadir. Bastami il tuo comando; il mio dovere adempio.
Non mi chiamar, Delmira, crudo, spietato ed empio.
T’amo, e l’amore istesso, del tuo bel cuor geloso,
A forza mi costringe al sagrifizio odioso.
Camur...
Camur.   Lasciami in pace; vibra, crudele, il dardo.
Padre al colpo inumano non può fissare il guardo,
Delmira. Non tormentarmi almeno, non prolungar mia pena.
Se ho da morir, si mora. Eccoti il sen, mi svena.
Zadir. Seno, a cui mi doveva stringer d’amore il laccio,
Pria di morir concedimi un amoroso abbraccio.
Delmira. Non lo sperare.
Zadir.   Ah ingrata! sì che mi fosti infida.

SCENA IV.

Don Ximene con gente armata, e detti.

D. Ximene. Olà! quel temerario si disarmi, o si uccida.

Zadir. (Fato crudel! s’io moro. Delmira è abbandonata.
Vivasi alla vendetta). Cedo alla sorte ingrata.
(getta il dardo
Camur. (Ah non è stanco il Cielo di usarmi il suo rigore).
D. Ximene. S’incatenino entrambi. (ai Soldati che eseguiscono
Delmira.   (Povero genitore!)
D. Ximene. Al recinto dei schiavi siano condotti anch’essi;
Al cenno mio si serbino, dalle catene oppressi.

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Camur. Saziati pur, crudele, del favor della sorte.

Può all’età mia cadente poco tardar la morte.
(s’incammina
Delmira. (Vuol seguitar Camur.
D. Ximene. Dove andar ti lusinghi? (a Delmira
Delmira.   Del genitore appresso.
D. Ximene. Fermati. Il vecchio parta; parta Zadir anch’esso
(ai Soldati che sollecitano gli Schiavi
Zadir. Barbaro, ti conosco. Ardi d’amore insano.
Camur. Del cuor della mia figlia speri l’acquisto invano.
Rammentati, Delmira, che la virtù si onora. parte
Zadir. Spero, s’io resto in vita, di vendicarmi ancora. parte
(Alcuni Soldati accompagnano i due Schiavi, ed altri restano

SCENA V.

Delmira, Don Ximene e Soldati.

Delmira. Ah perchè il genitore fra ceppi andar si vede,

E si trattien la figlia senza catene al piede?
Della pietà sospetta veggo il fin periglioso.
Voi sperate obbligarmi nel comparir pietoso.
Ma più delle catene, più della morte ancora,
Pavento di un’insidia che il cuor mio disonora.
D. Ximene. Questo fiero linguaggio cangiare io vi consiglio.
Placido a chi vi adora, volger dovete il ciglio.
Arbitra della sorte del genitor voi siete;
Schiavo qual più vi aggrada, voi liberar potete.
E della patria vostra, reo di un novello inganno,
Vostra mercè prometto di mitigare il danno.
Delmira. A qual prezzo, signore, tal generosa offerta?
D. Ximene. Basta che mia pietade d’una mercè sia certa.
Delmira. Siete voi che comanda?
D. Ximene.   Con don Alonso unito
Fu il comando dell’armi finor su questo lito.

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Ma nel novel cimento ei non venne all’impresa,

E della sua viltade mormorazion fu intesa.
Me voglion le milizie signore in questo suolo;
Dev’esser la Guajana conquista di me solo.
E dando al mio sovrano tributi e vassallaggio,
Dovrà da me dipendere il popolo selvaggio.
Voi che amabile siete, che mi accendeste il core,
Meco a parte sarete dei beni e dell’onore.
E il popolo soggetto in mezzo ai mali suoi
Grazie potrà sperare, chiedendole da voi.
Delmira. Vorrei saper qual titolo darmi voi destinate.
D. Ximene. Quel titolo, quel grado vi darò che bramate.
Delmira. Quello ancora di sposa?
D. Ximene.   Quello di sposa ancora.
Delmira. Signor, la mia bassezza troppo da voi si onora.
Pregovi illuminarmi intorno ai vostri riti.
Da voi con quante donne si sposano i mariti?
D. Ximene. Una sola consorte deesi sposar da noi.
Delmira. Quand’è così, signore, io non sarò per voi.
D. Ximene. Di don Alonso i detti non dianvi alcun sospetto.
Di donn’Alba la fede promisi a mio dispetto.
Data la mia parola, tosto ne fui pentito,
Giurai dentro me stesso non esserle marito.
È una vedova altera, superba, puntigliosa,
Che crede se medesima maggior d’ogni altra cosa;
Che di amar non si degna, e pensa a lei dovuto
De’ cuori rispettosi ogni umile tributo.
Dal vostro bel costume quell’alma è differente.
Delmira. Così non parlereste, se a lei foste presente.
D. Ximene. Vano è parlar di lei; donn’Alba è nel Brasile.
Meco usare non puote l’indocile suo stile.
Saprà, quando fia tempo, che altra beltà ho sposata.
Delmira. Che direste, signore, se qui fosse arrivata?
D. Ximene. Donn’Alba a questi lidi?
Delmira.   Donn’Alba è a voi dappresso:

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Andò per incontrarla il suo germano istesso.

Ecco il perchè lontano l’illustre cavaliere
Nella recente pugna non fece il suo dovere.
D. Ximene. Come! di tale arrivo nessun seppe avvisarmi?
Delmira. Forse l’avrà impedito lo strepito dell’armi.
D. Ximene. Questa di don Alonso è un’invenzion, lo vedo.
Donn’Alba a queste selve sì prossima non credo.
Ei seduce in secreto il vostro cuor restio,
Ma i scherni e le ripulse soffrir più non vogl’io.
Vi offro titoli e gradi, vi offro rispetto e amore.
Con chi d’amor si abusa, adoprerò il rigore.
Delmira. Meco tali minaccie?
D. Ximene.   Con voi, con tutto il mondo.
Delmira. Per quel che a me s’aspetta, signor, io vi rispondo,
Che libera son nata, che morte io non pavento,
Che vostra in nessun grado d’essere non consento.
Le nozze mi esibite sotto mentita insegna.
La vergognosa azione di un onest’uomo è indegna.
Se l’amor vi trasporta ad esibirmi un nodo,
Sciogliere il primo laccio per mia cagion non lodo.
E se di fè mancate a chi promesso avete,
Con simile incostanza meco mancar potrete.
Io serbo a un infelice dell’amor mio l’impegno.
Colla mia fede istessa a non mancar v’insegno.
E se tradir vi piace, e se mancar siet’uso,
Un così tristo esempio di seguitar ricuso.
Nata io son fra le selve, voi nato in bel terreno;
Ma l’onor, la virtude da voi s’apprezza meno.
Voi della patria vostra poco amate il decoro;
Io la virtude apprezzo, e la mia patria onoro.
D. Ximene. Fra il signore e la schiava è vano il paragone.
Comando, e nel volere riposta ho la ragione.
Cedete all’amor mio, dalla bontà pregata,
O rivedrovvi io stesso a cedere forzata.
Delmira. E chi avrà tal potere di violentarmi il core?

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D. Ximene. Chi della vostra vita è l’arbitro e il signore.

Delmira. Arbitro di mia vita solo è il nume sovrano,
Puote armar per punirmi di un barbaro la mano.
Ma questo nume istesso, per cui si nasce e muore,
Difende dagl’insulti di un’innocente il cuore.
Fra le vostre rapine nella superba istoria
No vantar non potrete sì barbara vittoria.
Nel valor dalle donne coll’uom non si contrasta;
Ma per l’onor difendere abbiam forza che basta.
E l’userò in tal modo coll’aggressore ardito,
Che dalla mia costanza rintanerà avvilito.
D. Ximene. Povero quel valore che tu mi vanti in faccia.
Veggiam l’eccelsa prova dell’orrida minaccia.
Vieni come. (l'afferra per un braccio
Delmira.   Lasciatemi. (tenta liberarsi
D. Ximene.   Guardie, il cammin scortate.
(come sopra
Delmira. Viva, no, non mi avrete.

SCENA VI.

Don Alonso e Donn’Alba con seguito, e detti.

D. Alonso.   Ah giusto Ciel! che fate!

D. Ximene. Qual sorpresa!
Donn’Alba.   Infedele! questo è d’onor l’impegno?
Vile amator di schiave, sei di mia stima indegno.
Non ti pensar ch’io venga per te d’amore accesa:
Curiosità mi sprona della novella impresa.
A te diedi mia fede in grazia del germano:
Non merta di donn’Alba un perfido la mano.
Il sangue mio si sdegna, meco si sdegna onore
D’aver per un momento amato un traditore.
D. Ximene. Odo l’usato stile del vostro labbro altero.
Non curo il vostro cuore, sia docile o severo.

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Mia preda è quella schiava; che mi abbedisca, io voglio.

Di femmina non uso a tollerar l’orgoglio.
O mi segua, o si sveni.
D. Alonso.   Che pretensione ardita!
Io l’onor suo difendo, difendo la sua vita.
So che il novel cimento gonfia i vostri pensieri,
Voi però non vinceste; vinsero i miei guerrieri.
Lo so che profittando del colpo fortunato.
Contro di me speraste il popol sollevato,
E che volgeste in mente l’empio disegno insano
Nelle terre acquistate di rendervi sovrano.
Ma su ciò v’ingannaste. I nostri Lusitani
Non son, quale voi siete, sì barbari e inumani.
Venner meco all’impresa sotto i reali auspici,
Saran, se persistete, saran vostri nemici.
Ritornate in voi stesso. Amico io vi ragiono,
E i passati trasporti mi scordo, e vi perdono.
D. Ximene. Che perdon? di perdono meco si parla invano.
In voi per atterrirmi non veggo il mio sovrano.
Per compensare i torti questa è l’unica strada.
Dee le nostre ragioni decidere la spada.
D. Alonso. Di private contese or non è tempo; andate.
Donn’Alba. Come? German, la sfida voi di accettar negate?
L’onor del sangue vostro può ritardar l’impegno
Di punir colla spada quel mancatore indegno?
D. Alonso. Apprendete, o germana, che il cuor di un cavaliere
Dee nelle circostanze distinguere il dovere.
Può cimentar se stesso, quando è in libero stato;
Dee servire al sovrano, qualor n’è incaricato.
Se don Ximene abusa del grado a lui concesso.
Del mio monarca in nome posso punirlo io stesso,
Non perchè don Alonso seppe insultar l’audace,
Ma qual perturbatore della pubblica pace.
Or pei pubblici torti deggio punire i rei;
Saprò punire un giorno e vendicare i miei.

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D. Ximene. E in pubblico e in privato saprò far mio dovere.

Vedrem fra le milizie, vedrem chi ha più potere.
Deposto il comun grado, tornati un dì al Brasile,
Ricordar vi potrete ch’io vi ho chiamato un vile. parte

SCENA VII.

Delmira, Don Alonso, Donn’Alba.

Donn’Alba. Comandate l’arresto. Puniscasi l’ardito.

D. Alonso. No, non è tempo ancora di renderlo punito.
Per or vaglia il disprezzo a umiliar quel core:
La colpa sfortunata risvegli il suo rossore.
Non bramo che si perda un uom ne’ suoi trasporti;
Ma che conosca il fallo, e risarcisca i torti.
Delmira. Anima senza pari, cuor generoso e umano!
Signora, io mi consolo con voi di un tal germano.
Siete di un sangue istesso; conosco i pregi suoi.
Pari virtù son certa ricoverassi in voi.
So che compatirete un’infelice oppressa.
Che il grado, che il dovere conosce di se stessa.
Mia protettrice invoco voi generosa e saggia.
Donn’Alba. Chi è costei?
D. Alonso.   È Delmira, l’amabile selvaggia.
Donn’Alba. Amabile vi sembra donna fra i boschi nata?
Da un cavalier non merta vil donna essere amata.
D. Alonso. Voi non sapete ancora qual sia quel cor gentile.
Donn’Alba. Non val la gentilezza a renderla men vile.
Quel che si apprezza, è il sangue; nata in rustica culla,
La beltà, l’avvenenza si reputa per nulla.
Di due vaghe pupille il fulgido splendore
Nobilitar non puote di una selvaggia il cuore.
E di voi giustamente, german, mi maraviglio,
Che amabile vi sembri di una vil schiava il ciglio.
D. Alonso. Non sprezzate una figlia che ha sentimenti onesti.
Delmira. Parlar mi si concede? (con umiltà

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Donn’Alba.   Parla. Che dir vorresti?

Delmira. Dirò che la fortuna dei nobili natali
Contasi di natura fra i doni principali.
Ma che di un simil dono chi con orgoglio abusa,
La natura medesima di un’ingiustizia accusa.
Donn’Alba. Tanto ardita favelli? Schiava, sai tu chi sono?
Delmira. Sì, lo so, mia signora. Domandovi perdono.
Nata di sangue illustre siete in real cittade
A comandare avvezza fin dalla prima etade.
Voi della culla intorno aveste ai primi albori
Servi, donne, ricchezze, comodi, fregi, e onori.
Poi nell’età cresciuta, resavi nota al mondo,
Menaste fra i piaceri un vivere giocondo,
E tributar vedeste di nobiltade ai raggi
Dagli ordini diversi i rispettosi omaggi.
Ma confessar dovrete che in mezzo a tai splendori
Miraste con dispetto i gradi a voi maggiori;
E il verme dell’invidia nascosto in ogni seno
Vi macerava il cuore d’ogni plebeo non meno.
Fra queste selve oscure dove siam tutti eguali,
Il merto non consiste nel sangue e nei natali.
Non si distingue il grado, ma apprezzasi di più
Chi supera nel pregio d’onore e di virtù.
Questi son veri beni che ognun da sè procura.
Negli altri non ha merito che il caso e la natura.
Donn’Alba. Parla così una donna fra popoli selvaggi?
D. Alonso. Può la ragion per tutto illuminare i saggi.
Donn’Alba. Delmira, il tuo talento merta ch’io non ti sprezzi,
Usa la tua virtude, ma non usare i vezzi.
Amor per don Ximene l’anima non mi aggrava,
Ma mia rival non soffro che vantisi una schiava.
Nè soffrirei che ardesse di vergognoso amore
Per femmina volgare di un mio germano il core.
Conosci i dover tuoi, non ti mostrar altera,
E nel mio cuor pietoso tutto confida e spera. parte

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SCENA VIII.

Delmira, Don Alonso, poi Piccarino.

Delmira. Perdonate, signore, la mia curiosità.

Tutte le donne vostre hanno sìri gran bontà? (con fronte
D. Alonso. Dissimili han le donne gli usi, i costumi e i cuori.
Mia germana, per dirla, non è delle migliori.
Piccarino. Ah signor, soccorrete due poveri infelici,
Contro cui don Ximene scarica l’ire ultrici.
È ver che son selvaggi, ma a tutti fa pietà
Il vederli trattare con tal barbarità.
Delmira. Oimè! chi son codesti?
Piccarino.   Parmi che sian chiamati...
Sì, Camur e Zadir.
Delmira.   Poveri sventurati!
Deh per pietà, signore; voi potete salvarli.
D. Alonso. Sì, lo farò, Delmira; vadasi a liberarli.
Salvisi il genitore, cui2 il vostro cuore adora.
Salvisi, per piacervi, il mio rivale ancora.
(parte con Piccarino
Delmira. Infelice Delmira! ah sì, son sventurata!
A un cuor sì generoso dovrò mostrarmi ingrata?
Sì, la virtù di un cuore sì generoso e pio
Ama l’ingratitudine che vien dal dover mio.
S’io compensar non posso tanto amor, tanto zelo,
Premio è a sè la virtude, e la compensa il Cielo. parte


Fine dell’Atto Terzo.


Note

  1. Nel testo: strazzi.
  2. Nella ristampa torinese e nell’ed. Zatta: che