La Regaldina/XIII
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XIII.
Un altr’anno passò, monotono, senza portare nessun cambiamento visibile, ma lasciando cadere quotidianamente il suo granello di sabbia come la clepsidra antica.
Era il mese di luglio. Il paese, cessata la gran faccenda dei bachi, riposava nella sua calma sonnolente in mezzo ai prati grassi che lo circondano e ai campi di ravettone splendenti del loro giallo intenso.
Un caldo soffocante faceva tenere tutte le case rinchiuse, e solo passando da qualche finestra terrena si sentiva l’odore nauseabondo dei bozzoli ammonticchiati per la semente. Sciami di mosche aleggiavano intorno rompendo il silenzio, picchiettando i vetri delle botteghe, spingendosi attraverso le fessure nelle camere abitate, aggruppandosi sui muri bianchi arsi dal sole. E al di sopra delle case silenziose, sulle vie deserte abbruciate dalla caldura, pesava un cielo grave come coperchio di piombo.
Daria era andata colla bimba a trovare la signora Luigina, che, da qualche tempo inferma, non si moveva quasi più dalla camera.
Da quella notte che aveva ricevuto la confessione dei suoi casi pietosi, Daria si sentiva maggiormente trascinata ad amare, a comprendere, a compatire la povera zitellona. Dove gli altri non vedevano che il ridicolo di una isterica donnicciuola, ella trovava le cicatrici di ferite profonde, di dolori indimenticabili; e forse pensava che lei stessa potrebbe diventare così isterilita nelle lotte contro un amore infelice.
Ciò per altro non la scoraggiava; la sua passione l’aveva elevata all’altezza di una fede. Dell’amplesso che le era negato, ella formava una ardente fiamma di pensiero e, certa di essere ricambiata, viveva nella mente e nel cuore dell’uomo che essa amava. Martiri entrambi della famiglia, riuniti nel medesimo sacrificio, accettavano coraggiosi l’aspro dovere che si erano imposti, sostenendosi a vicenda.
Nell’ambiente corrotto in cui vivevano, la purezza delle loro anime creava a loro una oasi di riposo; essi vi si rifugiavano nelle ore dello sconforto, sfuggendo alle malignità crasse e volgari, temprandosi alla virtù del perdono. Si sentivano generosi perchè si sentivano puri.
Di sè, del proprio amore, non parlavano quasi mai; esso trapelava negli sguardi, nel suono della voce, nei rapidi mutamenti del volto; esso gemeva represso quando consideravano la condotta di Matilde; sospirava malinconico vicino alla bimba, della quale poteva dirsi il vero padre e la vera madre; si univa, si fondeva in ogni loro azione facendosi nel medesimo tempo soggetto ed oggetto, umile sempre, tenuto in freno da una volontà potente e da una idea grandiosa del dovere.
Poche volte, qualche volta tuttavia, la loro virtù vacillava.
Si chiedevano allora, quale compenso avrebbero di tanti sacrifici e se proprio valeva la pena di soffocare come una colpa, come un delitto, quella passione che tutti gli altri ostentavano con pubblica impudenza.
Quando l’ebbrezza dell’amore li prendeva alla sprovvista e si trovavano tutti e due smarriti, confusi, colle mani avvinte, cogli occhi perduti nella infinita dolcezza del desiderio, una voce mormorava ai loro sensi soggiogati: Perchè? Perchè soffrire in mezzo al gaudio? Perchè resistere dove tutti cedono? Perchè voler vincere? — E la natura rigogliosa mandava ondate di sangue caldo nelle loro membra, che tremavano, e l’oblio d’ogni cosa sfiorava, tentandole, quelle pure fronti. Uscivano dalla lotta disfatti, pallidi; ma un sentimento potente reggeva la loro debolezza. Quelle prove affermavano sempre più il loro ideale divino, li faceva certi che la virtù non è un nome vano, che il dovere non è una larva, e ritemprati di nuova fede aspettavano, sereni, nuove battaglie.
La loro prima giovinezza era trascorsa; si trovavano oramai al meriggio e già l’ombra grave di chi ha molto vissuto e molto sofferto, palliava nei loro colloqui la vivacità del desiderio.
Le loro giornate passavano quasi eguali nel ritiro e nel lavoro. Ippolito, che non aveva finito di pagare il debito contratto per il matrimonio di Matilde, si levava alla mattina per tempo. Spesso anche alla sera Daria vedeva ardere per molte ore il lume nella cameretta della casa bianca ed ella pura vegliava coll’ago in mano, compiendo presso la culla della bambina il sacrificio della sua gioventù, chiedendo alla pietà le gioie che le negava l’amore.
La visita alla signora Luigina stava per finire e Daria l’affrettava avendo dato convegno a Ippolito nella chiesetta romita del viale.
Ella era molto turbata, perchè le cose che doveva dire al suo amico le sembravano gravissime. Ma la piccina non voleva abbandonare la casa della zitellona dove c’era una quantità di oggetti curiosi e bizzarri; fiori di cera, di cannutiglie e perfino di droghe schierati sul caminetto sotto le campane di vetro; panierini di cotone bianco fatti all’uncinetto e insaldati; ornamenti di zucchero dipinto avanzati dalle torte; stuzzicadenti traforati con pappagalli e pagode chinesi appoggiate dentro a vasetti di vetro colorato; quadri ricamati sul canovaccio dove le figure principali avevano gli occhi di vetro e il naso formato con un chicco di riso, e finalmente sui cristalli della finestra, per economia di tendine, dei ritagli di carta rappresentanti uccelli stravaganti e fiori ipotetici, dietro i quali la povera zitella passava le sue ore melanconiche guardando nella via.
La piccola Lena era felice in mezzo a questo mondo grottesco dai colori smaglianti e la signora Luigina avvezza da trent’anni a vivere sola tremava ad ogni mossa imprudente, ad ogni strepito di quei piedini irrequieti e di quelle manine, che dovunque si posavano mettevano la strage e la rovina.
Come avviene negli scavi delle città sepolte sotto la lava, dove si trovano le persone ritte e intere fra gli utensili e gli ornamenti che usavano in vita, la signora Luigina si era mummificata co’ suoi mobili, colle sue memorie, e la voce argentina della bimba squillando fra quelle pareti risvegliava un’eco che pareva di tomba.
Eppure la signora Luigina sorrideva, alzando la mano scarna per accarezzare la fanciulletta.
— Suvvia andiamo! — disse Daria risolutamente prendendosi in collo la Lena.
— Bada a non farti male — avvertì la signora Luigina, sempre spaventata — la piccina cresce e non è più tanto leggera.
— Se tutti i pesi fossero questi! — sospirò Daria e stringendo fra le braccia la sua figliuola adottiva, uscì dalla casa della zitellona e s’avviò alla chiesetta.
Ippolito era là ad aspettarla.
Gli sforzi fatti dalla povera ragazza per nascondere il suo turbamento agli occhi dell’amico, cedettero sulla soglia della chiesuola. Appena ella vide Ippolito gli corse incontro, e poi, mancandole a un tratto il coraggio, continuò a correre fino all’altare maggiore dove si fermò, agitata, non curandosi più di nascondere le lagrime.
Ippolito la fece sedere e le prese la mano in silenzio. Era la prima volta ch’ella gli dava un appuntamento, nè si poteva nemmeno sospettare che fosse un appuntamento d’amore; tale pensiero era affatto lontano dalla sua mente. Ma egli non l’aveva mai veduta in tanta agitazione e fu preso subito dal timore di una disgrazia.
— Sì — rispose Daria all’interrogazione di lui — nuove sventure, nuove colpe, nuovi obbrobrii in questa famiglia maledetta!..
Era strano che Daria parlasse così; i suoi occhi fiammeggiavano; un rossore vivissimo le coloriva le guancie. Qualche cosa della violenza della vecchia Tatta era rimasta anche a lei e in quel momento disperato le saliva al cervello vincendo l’abituale dolcezza. E però anche nell’eccitamento dello sdegno la sua fronte era nobile, il suo sguardo puro, Ippolito la contemplava con devota ammirazione.
Daria continuò, parlando a voce bassa e concitata:
— Si ricorda quel mattino di novembre, quando lei venne in casa nostra a chiedere conto dell’onore di sua sorella?....
Ippolito impallidì così visibilmente che Daria ne ebbe compassione e passando dall’ira alla improvvisa tenerezza, strinse la faccia sulle mani di lui in un atto d’amore insieme e di immensa desolazione:
— O Ippolito, amico mio, mio unico amico, perdono. Il dolore mi accieca. Ma perchè siamo noi condannati a tante miserie?
Il pianto le troncò le parole in gola.
— Matilde....
Egli osò pronunciare il nome di sua sorella, quel nome gli apriva una eterna ferita; ma non potè proseguire. Incapace di abbandonarsi a uno sfogo di dolore si sentiva paralizzato dalla gravità stessa della situazione; le lagrime, che non uscivano da’ suoi occhi, gli ricadevano ad una ad una sul cuore. Finalmente con uno sforzo disperato su sè stesso, disse:
— So che ha fatto dei debiti...
— Non è tutto.
Ad onta della sua freddezza, Ippolito diede un balzo.
— Che c’è ancora?
Daria si era calmata. Seriamente, con accento sicuro, rispose:
— C’è di mezzo l’onore di Rodolfo.
— È impossibile! scattò Ippolito, quasi, invertite le parti, la violenza di Daria fosse passata in lui.
— Lo spero — disse Daria freddamente — ma le apparenze sono tali. Fu vista parecchie volte a Milano insieme a Pierino; c’è anche chi assicura che l’anno scorso ai bagni egli andava sempre a trovarla. Da molto tempo, io che vivo in casa, ne avevo il sospetto. Oh! Ippolito, è ben triste cosa dover parlare così dei propri parenti; ma a che servirebbe il silenzio con lei? Non è forse la sola persona alla quale io possa chiedere aiuto? Alla zia, così violenta, no certo. Tutti i miei sforzi mirano a tenerle nascoste queste brutture; quanto a Rodolfo, nello stato in cui è caduto, non si accorge di nulla...
Una vocina giuliva interruppe il grave colloquio. La bimba che Daria aveva posta a sedere sui gradini dell’altare, aveva scoperta tra le fessure dei mattoni una tribù di formiche e batteva le manine ridendo, sorpresa di vedere tante creaturine più piccole di lei. La gioia innocente della Lena parve ai due afflitti un contrasto così atroce, che ammutolirono; ma i loro sguardi profondi si ricambiavano i medesimi pensieri.
La piccina continuava a baloccarsi sulla scalinata, presso la balaustra di legno dipinta in celeste; e le ghirlande barocche del soffitto le facevano una cornice graziosa, cui illuminava blandemente la luce delle ogive, al di fuori delle quali tremolavano i rami dei castagni.
Una quiete di chiostro regnava nella chiesetta, dove i frontoni barocchi dell’altare e le pareti vetuste proiettavano delle ombre molli, piene di raccoglimento e di mistero; dove uno strano odore misto di muffa e di incenso, fresco e stimolante insieme, accarezzava i sensi riposandoli.
In mezzo a tanta pace la tempesta di quelle due anime continuava rinchiusa, solitaria no, perchè non un tumulto dell’una sfuggiva all’altro. Tutte le vergogne, a cui assistevano forzatamente, passavano sulle loro fronti lasciandovi una traccia.
Ippolito si informò d’ogni particolare; volle conoscere fino a qual punto poteva giungere colla speranza, ma sotto la sua calma forzata trapelava la disperazione del dubbio. Egli sentiva che nessuna forza, nessuna voce potrebbe arrestare Matilde, se non l’arrestava la voce della sua innocente bambina, se non la frenava la coscienza imperiosa del dovere.
— Farò il cómpito mio — disse alla fine, avendo riacquistato la padronanza dei propri sentimenti — qualunque cosa accada, lei sa che non mancherò.
Non aggiunse altro. Si levarono entrambi, magnanimamente forti, e presa per mano la piccina, uscirono dalla chiesa senza più scambiare una parola. Quando si separarono Daria gli tese la mano dicendo:
— Addio.
— Addio — rispose Ippolito.
E in quel momento, in quel momento solo, un raggio d’amore temperò la profonda mestizia dei loro sguardi.